Voci Strano ma ebreo!
Il piano Fugu: una storia giapponese

Storia dell’incredibile Piano Fugu, ovvero di cosa accadde quando i giapponesi sentirono per la prima volta parlare di ebraismo.

È noto che I Protocolli dei Savi Anziani di Sion, il più celebre e, ahinoi, vitale dei testi antisemiti moderni, hanno fatto e continuano a fare enormi danni. Quel che è meno noto, invece, è che una volta, una sola volta, questo clamoroso falso fabbricato ai primi del Novecento negli ambienti reazionari della Russia non fu il pretesto di pogrom e stermini, ma al contrario – paradosso dei paradossi – creò un clima favorevole agli ebrei, e fu loro d’aiuto.

Questione di rispetto
Accadde in Giappone, tra le due guerre mondiali. I giapponesi non avevano avuto, nel passato, problemi di antisemitismo. Non sapevano pressoché nulla degli ebrei, quindi non li odiavano, a differenza dei russi bianchi, al cui fianco l’esercito giapponese stava combattendo in Siberia, contro l’Armata Rossa: fu così che i giapponesi all’inizio degli anni Venti vennero a conoscenza dei Protocolli, che furono tradotti nella loro lingua e giudicati un testo assolutamente affidabile e genuino. L’effetto però non fu quello desiderato da chi li stava diffondendo: l’idea dell’esistenza di un potere ebraico astutissimo e pronto a conquistare il mondo suscitò non odio ma rispetto e cauta ammirazione in alcuni alti funzionari, politici, dirigenti. Gli ebrei erano davvero così influenti? Erano davvero così ricchi? Erano davvero in grado di condizionare il governo americano e altri governi? Ma era una cosa magnifica! Ecco chi avrebbe aiutato il Giappone, così bisognoso di capitali e di esperti per lo sviluppo e la modernizzazione del paese!

Il Piano Fugu
Questo gruppo influente, che divenne noto con il nome di “esperti di ebraismo”, elaborò dunque un piano, che secondo il rabbino Marvin Tokayer, autore insieme a Mary Swartz dell’appassionantissimo The Fugu Plan: The Untold Story of the Japanese and the Jews During World War II, veniva chiamato segretamente “Piano Fugu”. I giapponesi avrebbero convinto gli ebrei a trasferirsi in Manciuria per creare industrie e infrastrutture. L’economia ne avrebbe tratto giovamento; dal canto loro gli ebrei sarebbero sempre rimasti moralmente debitori nei confronti di chi dava ospitalità ai profughi incalzati dal nazismo. Ma perché quel nome di “Piano Fugu”? Perché gli ebrei erano come un piatto di fugu, prelibata pietanza a base di pesce palla, le cui carni se non ben trattate erano e sono letali a causa di una neurotossina potentissima. Dovevano essere accolti a braccia aperte e favoriti in tutti i modi, ma tenuti d’occhio, affinché non si impadronissero delle leve del potere, stringendo il Giappone in un abbraccio mortale.

Una bella e strana storia
Il Piano Fugu non fu mai adottato ufficialmente. La situazione internazionale era troppo complicata, e ci si misero di mezzo anche le comprensibili resistenze di alcuni membri influenti della comunità ebraica d’America, sdegnati di fronte al militarismo e alla politica aggressiva dell’impero. Tuttavia molti ebrei europei trovarono riparo in Giappone, che fugu o non fugu non cedette mai alle richieste dell’alleato nazista, rifiutandosi di mettere in atto persecuzioni e stermini.
È nel complesso una bella e strana storia, dove si mescolano in modo inestricabile furbizie e lealtà, motivi di interesse e considerazioni umanitarie. Il bene prende strade tutte sue, e a volte, incredibilmente, perfino quelle di un falso disgustoso come i Protocolli.

P.S. Vi consiglio caldamente di leggere il libro, che si divora come un romanzo.

Marina Morpurgo
Redazione JOI Mag

È nata a Milano nel 1958 e da allora ha deluso quasi tutte le aspettative, specie quelle relative a peso e altezza. Manca di senso del tragico, in compenso riesce a far ridere – purtroppo anche quando non è nelle sue intenzioni. Ex giornalista (“l’Unità”, “Diario”), ora traduttrice, ha scritto sette libri per ragazzi e alcuni manuali scolastici. E quattro libri per adulti, di cui l’ultimo è “È solo un cane (dicono)”, pubblicato da Astoria, e in cui racconta come la sua famiglia si salvò dal nazifascismo.


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