Voci
Ritorno in Israele: il dolore che si sente sulla pelle

La testimonianza di una donna, Manuela Cantoni Camerini, che torna in Israele da Milano dopo il 7 ottobre e tocca con mano, immergendosi nelle strade e nella vita di tutti i giorni, quello che è cambiato e quante certezze siano state scardinate

Via posta abbiamo ricevuto questa lettera intensa e toccante, la testimonianza di una donna, Manuela Cantoni Camerini, che torna in Israele da Milano dopo il 7 ottobre e tocca con mano, immergendosi nelle strade e nella vita di tutti i giorni,  quello che è cambiato quante certezze siano state scardinate… E scopre “il silenzio, sicuramente causato da un vuoto di presenze, ma forse più ancora dallo stato d’animo delle persone, da una nuova consapevolezza d’impotenza, dall’abbattimento di quella baldanza che ha sempre accompagnato chi vive qui”.
Carissima,
sono passati mesi da quel 7 ottobre che resterà per sempre la cesura fra il “prima” e il “dopo”.  Già l’atterraggio a Lod è stato strano, faceva caldo, all’orizzonte il tramonto era caldo e bellissimo, eppure pioveva. Pochissima gente, un tragitto veloce e senza le usuali code per il controllo passaporti. Ed ecco il primo colpo al cuore: le grandi fotografie dei rapiti, così ignari, così sorridenti, che mi accompagnano durante il cammino verso l’uscita. Sul treno per Gerusalemme ci sono moltissimi soldati, quanti non ne ricordavo da parecchi anni. Ci eravamo abituati alla normalità, ad essere tranquilli e rilassati; ora, invece, la gente sembra stanca e pensierosa. Finalmente il giorno dopo, mentre scendo in rehov Ben Jehuda, via centralissima costellata di caffè, di negozi, di chioschi che offrono di tutto, mi rendo conto di quel qualcosa che mi rendeva estranei luoghi e realtà che conosco come le mie tasche da più di sessant’anni: è il silenzio, sicuramente causato da un vuoto di presenze, ma forse più ancora dallo stato d’animo delle persone, da una nuova consapevolezza d’impotenza, dall’abbattimento di quella baldanza che ha sempre accompagnato chi vive qui. Essere costantemente in pericolo, eppure con la sensazione d’essere al sicuro.
E invece.
Invece no, in due ore tutte le certezze sono state scardinate, ora sappiamo tutta la nostra precarietà. Uno choc collettivo e inimmaginabile. Si crede di sapere già tutto, l’orrore, lo strazio, ciò che le parole – attraverso i media – sono riuscite a rappresentare. Ma quando s’arriva in Israele, le sensazioni non sono più solo uno sforzo d’immaginazione: tutto si materializza, il dolore è palpabile, lacrime, voci, abbracci nei singhiozzi. E – sopra a tutto ciò – questa domanda, che ovunque affiora: come faremo a parlarci ancora? Per quante generazioni, da una parte e dall’altra, vedremo davanti a noi solo il nemico? Perché proprio l’annullamento di qualsiasi minima progettualità comune che è stato architettato e portato a termine mediante la barbarie.
Mi chiedo che cosa posso fare, attivamente, per aiutare il Paese. O meglio: per aiutare me stessa a uscire da quel complesso di colpa, che mi perseguita da molti anni, per essere tornata in Italia in tempi difficili, esattamente quarant’anni fa. Confrontandomi con la situazione politica che in questi decenni si è instaurata, ho sempre l’impressione che abbandonare Israele sia stato l’errore più grave che abbiamo potuto fare, io e il milione di altri che adesso viviamo altrove. La nostra presenza, il nostro voto all’opposizione, sarebbero stati essenziali per tutta un’altra realtà. Ma ora? Ho 76 anni, il Covid m’ha regalato un paio di problemi: di andare a raccogliere insalata e pomodori in kibbuz per ore, come fanno alcuni miei compagni di scuola, arrivati qui di corsa come volontari, non se ne parla proprio.
Ma infine trovo cosa fare: entro nei negozi e compro. Stamattina sono stata da Pinoli, la gelateria-caffetteria di cui in luglio avevo visto metter su l’insegna, approntare il bancone, portare l’arredo…quanta speranza! Era vuoto, ho chiesto al giovanotto, carino e gentilissimo, se facevano anche la cioccolata calda: sì, certo, con le perle di cioccolato al latte…ohibò, troppo dolce, per i miei gusti! Allora m’è venuto in mente d’insegnargli come lo facevano da Grom, sciogliendo col vapore due pallette di gelato nerissimo: una squisitezza! La prossima volta ci aggiungo la panna…Al ragazzo brillavano gli occhi. Poi sono andata da Steimatzki, la cartolibreria, e ho comprato due calendari, uno per qui e uno per Milano. Ho chiesto al venditore se non ne aveva con le foto di “Israele di una volta”, bellissime ed evocative.. M’ha risposto che quest’anno ne avevano stampati pochissimi e che non ne gliene era rimasto neanche uno, e ha aggiunto, con un sorriso amaro, cosa pensi, che per l’anno prossimo li rifaranno? Stavo già per pagare quando mi ha chiesto timidamente se non avevo bisogno d’altro, qualcosa per me, o un regalino per i bimbi…avrei voluto piangere. Infine, mentre uscivo con i miei calendari, mi ha guardato in faccia e m’ha detto “Ti auguro che tu possa contare giorni migliori di questi”.
Lì accanto c’è il ristorante vegetariano. Seduti fuori tre soldati giovanissimi stavano mangiando senza dire una parola, coi loro mitra a tracolla. Uno con la pelle chiara e i capelli rossi, un altro nero come il carbone, certo yemenita, il terzo, magrolino, anche lui un tipo di sefardita. Sembravano davvero affamati, come se non avessero mai visto un piatto di humus, e stanchissimi. Sono andata dritta alla cassa e ho chiesto al padrone se avevano già pagato il conto, altrimenti sarebbero stati miei ospiti. M’ha fatto un gran sorriso, sì, hanno già pagato, ma se vuoi puoi lasciare una cifra a tuo piacere e diremo ad altri che sono stati invitati da…qual è il tuo nome? Ho lasciato la consumazione ‘sospesa’ per 4, gli ho spiegato che si fa così a Napoli…grazie, signora, che tu possa compiere i buoni precetti! m’ha tirato dietro mentre uscivo.
E così via, mezza spesa in un negozio, mezza in un altro. Sono abituata a venire in questo Paese, sempre associandolo alla precarietà della vita, da quando ero ragazzina, ho visto la Guerra dei 6 giorni, quella del Kippur con la morte di quello che era per me un fratello e di altri amici del kibbuz Yavne dove ero di casa, ero appiccicata alla radio – giovane sposa – con mio marito in divisa nell’82, e poi eravamo qui nel ’14, la sirena suonava e lui continuava a tagliare i pomodori, quest’appartamento è un seminterrato, no?, cosa vuoi che succeda? Ma una disperazione simile non l’avevo mai avvertita, si ride e si cerca di fingere una ‘normalità’ così fasulla che fa male al cuore. Otto caduti, stanotte, a Gaza. Il più giovane aveva 19 anni, il più vecchio 35: alla radio hanno trasmesso il suo discorso, così determinato e speranzoso, nella certezza che ‘il bene prevarrà sul male’. Da Anna Frank in poi, nulla è cambiato.
Ho fatto proprio bene a prendere l’aereo, ragazza mia. Domani altre spese, che so, un vestito, dei dolci, qualcosa per la casa…
Sono andata dal parrucchiere Rami, arabo cristiano, che ha bottega in Città Vecchia, accanto alla Porta Nuova, accanto al Convento dei francescani. Come gli dico che sono ‘la mamma di Miriam’ mi accoglie con gran calore e sorrisi. Accende le luci, sono la prima cliente, oggi. Mi racconta che in Città Vecchia sono disperati e impauriti, di solito questa è l’epoca migliore per turisti e pellegrini, ma adesso non c’è nessuno, un vero disastro. “E dire che io, proprio io, ho fatto barba e capelli al Papa tedesco, quello che è morto qualche mese fa…”, e tutto orgoglioso mi mostra un attestato del Vaticano, con tanto di firma di Benedetto XVI. Sono molto soddisfatta del suo lavoro, gli prometto che tornerò anche le prossime settimane.
Poi scendo da Jack, il miglior pasticcere della Città Vecchia (e non solo…). Il poveretto ha dovuto chiudere in tutta fretta il secondo negozio, appena aperto, ed è tornato in quello vecchio. C’era una famigliola francese seduta fuori, con due bimbetti che facevano merenda. Anche a lui ho detto “Sono la mamma di Miriam” e gli ho mostrato una fotografia, al che gli si è spalancata la faccia in un sorriso, ah sì mi ricordo, sei venuta con lei l’anno scorso… Ho bevuto una delle migliori cioccolate calde della mia vita e mi sono fatta impacchettare una fetta di torta di ricotta, freschissima e squisita anche quella. Abbiamo parlato un pò, situazione dura, m’ha detto, e io ho aggiunto che non so come ci si salterà fuori, ma che l’unica cosa che DEVONO fare è andare a votare in massa: se non votano, “quello”…resta lì, ha finito lui. Eh già…Gli ho augurato buon Natale, tanti auguri a tutti, m’ha risposto.
Me ne sono andata per le vie vuote, i cancelli delle botteghe sbarrati, ormai era buio e la Città sembrava spettrale, con pochi passanti lenti e silenziosi. Non so cosa avrei dato per sentirmi chiamare dentro i negozi, fra i tappeti e la paccottiglia più assurda, tutto un tira e molla di prezzi e vediamo chi la spunta…E invece. Il dolore più forte è per il senso d’impotenza, l’imbarazzo reciproco, una gentilezza che spunta fuori e che non sai quanto sia autentica: il timore del ‘dopo’, che chissà quando verrà. Ma alla Città Vecchia io sono infinitamente legata, in pochi metri mi ritrovo con ‘gli altri’, cristiani, armeni, greco-ortodossi, mussulmani, il resto di quel mondo che mi fa verificare la mia identità: sono ebrea perchè ci siete tutti voi, altri da me.
Riprendo l’autobus, rehov Strauss in salita, ed ecco che si scende a Mea Shearim, il quartiere dei ‘religiosi’ che in genere vengono definiti ‘ultraortodossi’. Il paragone col resto della città è davvero stridente, tutto un brulicare di vita come se nulla fosse accaduto: la guerra non è un fatto che li riguarda, è qualcosa di marginale e lontanissimo, i loro figli non servono nell’esercito, in tanti non hanno nemmeno la cittadinanza israeliana. Le strade sono come sempre gremite di giovani spose incinte o coi mocciosi nelle carrozzine, e poi nugoli di ragazzi, matrone indaffarate, macchine che strombazzano e intasano le strade strette. In due negozi ho trovato piccoli oggetti per i nipotini, sono stata servita, anche qui, con gentilezza e sollecitudine: non voglio neanche immaginare i pensieri delle signore imparruccate che mi hanno accolto.
Eppure, nonostante la disperazione che mi prende quando sento i notiziari alla radio e quando poi ne parlo con gli amici, mi sento ringiovanita di molti anni, partecipe, attiva come di certo a Milano me lo sogno. Da due giorni la radio trasmette molta musica natalizia, poco fa perfino un Bianco Natale e le carole in arabo, e gli speakers, alla fine, aggiungono “Ai nostri ascoltatori cristiani, buone feste”, e nonostante la mia perdurante e convinta opinione sfiduciata sulle religioni, sento che sono a casa.
Scendo due volte a Tel Aviv, la prima per incontrare un compagno di scuola che è venuto a fare un po’ di volontariato in kibbuz. Andiamo al mare, mangeremo in un piccolo locale. La spiaggia è vuota e bianca, pochissimi nuotatori fra le onde, la temperatura è quasi estiva. Anche qui mi colpisce il silenzio, assolutamente innaturale – o forse solo per me inedito – nel luogo che conosco da sempre abitato dal frastuono. Parliamo della situazione così tragicamente stagnante nelle prospettive politiche, e finalmente diciamo ad alta voce quello che ormai siamo in tanti a pensare: ci vorrebbe un bel colpo di Stato, l’esercito in questo momento è l’unica soluzione per tirar fuori dalla Keneset questo governo…lo fanno in tutto il Sud-America, perchè non si può fare qui? Grande, grandissima parte della popolazione starebbe dalla parte dei soldati.
Torno a Tel Aviv pochi giorni dopo, per incontrare due amiche che lavoravano con me nel laboratorio generale della mutua, con una delle due ho sempre mantenuto i contatti, l’altra non la vedo da quarant’anni: tutt’e tre siamo ormai nonne. Chiacchieriamo del più e del meno, mentre facciamo colazione, come se ci fossimo lasciate pochi giorni fa. E poi, naturalmente, salta fuori la guerra. I loro genitori sono fuggiti, negli anni ’50, dall’Algeria e dallo Yemen, sono arrivati in Israele con poche valigie e tanti sogni, qui si sono sposati, hanno cresciuto figli e nipoti. Oggi, ciò che si domandano le loro figlie è “Ma perchè ci odiano tanto? Perchè vogliono cancellarci dalla carta geografica? Mai, mai abbiamo sentito, in famiglia o a scuola, un simile odio nei loro confronti”. E’ il mio stesso sentire, mai riuscirò a provare odio per loro.
Infine, l’ultimo shabbat che passo qui. Vado a cena dai miei cugini, hanno quattro figlie, tutte nate in Israele. Stasera è invitata la più giovane con tutta la sua famiglia. Si ride, si benedice, si canta, ci si gode l’ottima cena. E, improvvisamente, il genero dice che ha pensato che “così non si può andare avanti, e allora perché non prendiamo noi in casa i gazawi? Al sud, nel Neghev, c’è ancora spazio libero, organizziamo una cittadella, sorvegliata, ovviamente; ma facciamo che chi vuole (e promette che poi non tornerà indietro a dare informazioni precise) venga, ci conosca, capisca che non vogliamo il loro male, non li odiamo, che possiamo vivere insieme”. Non è un ragazzino, Nir, ha 42 anni, padre di quattro figli, gran lavoratore. Un sognatore? Forse. Ma in questo momento capisco che il mondo non ci conosce affatto. Che vuole vederci quali non siamo.
Sono arrivata alla fine del soggiorno, torno all’aeroporto, fra poche ore troverò mio marito in attesa a Malpensa. Credo che mai come questa volta mi sia stata dura la partenza.
Manuela Cantoni Camerini,
Tel Aviv, 1 gennaio 2024   

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.