Cultura
Storia e memoria. La lezione di Yosef Hayim Yerushalmi

A dieci anni dalla scomparsa dello storico una riflessione sul metodo e sul ruolo di chi indaga la storia

Una volta Yosef Hayim Yerushalmi ha detto (probabilmente non senza una certa autoironia), che a suo avviso “uno dei compiti degli storici dovrebbe essere quello di complicare ciò che appare ovvio e semplice”.
Di Yerushalmi, scomparso 10 anni fa, l’8 dicembre 2009, sicuramente il testo più noto è Zakhor. Storia e memoria ebraica, pubblicato in Italia per la prima volta all’inizio degli anni ’80 e poi riproposto da Giuntina nel 2011.
Che cosa gli ebrei “hanno scelto” di ricordare del loro passato e in che modo, “di volta in volta”, l’hanno preservato, trasmesso e rivissuto. Sono i due punti che Yerushalmi consegna nelle pagine di Zakhor. La narrazione del passato è soggettiva, e si compie attraverso due azioni simultanee: la messa in ordine del passato e la costruzione del profilo culturale, emozionale e identitario nel proprio presente. La memoria, per Yerushalmi, non è solo un costrutto: riguarda i meccanismi e le pratiche mentali con cui si pensa il presente sia in relazione a un passato, sia in riferimento a un’idea di futuro che si trattiene.
A suo avviso, dunque, essere ebrei, o forse meglio “riconoscersi come ebrei” non è più solo un dato che discende da un nucleo istituzionale convenzionale (p.e. religione, comunità, nazione,…) ma è conseguente alla coscienza di “sentirsi ebrei” e questa deriva dalla memoria dell’esperienza di essere ebrei.

Zakhor (la prima edizione esce nel 1982), non è un testo improvviso. Yerushalmi, infatti, ha alle spalle vari studi che alludono al laboratorio presente in quel libro, tra cui una lunga monografia sul marranesimo.
Non solo. Yerushalmi, prima del 1982, ha già avviato da tempo le sue ricerche sulle persecuzioni nella penisola iberica tra ‘400 e ‘500 (è del 1976 il suo saggio fondamentale sul massacro degli ebrei di Lisbona del 1506), e ha già aperto il laboratorio di ricerca sulla comparabilità tra antigiudaismo iberico e antisemitismo nazista su cui, nel 1982, costruisce la sua Lectio magistralis al Leo Baeck Institut. Quando dunque esce Zakhor la proposta di Yerushalmi è quella di riprendere il mano quel dossier di storia.
Il significato e la rilevanza di Zakhor non risiedono né solo, né prevalentemente, lì. Quelle pagine attraggono una generazione che è in cerca di un senso storico e allo stesso tempo ha un rapporto inquieto con la propria identità ebraica. Forse in questo caso, più che in altri, è vero che un testo ha “letto una generazione” piuttosto che non il contrario. Zakhor è un testo che coinvolge in prima persona una generazione che ha il problema di ripensare la propria storia e che non riduca la storia ebraica all’antisemitismo e che matura nei primi anni ’80, una problematica d’indagine sull’esperienza ebraica nella storia in cui entrano in gioco molti attori. La memoria è uno di questi. Memoria come categoria storiografica in grado di consentire una rivisitazione complessiva del rapporto che gli storici intrattengono con lo studio del passato. Una presenza rilevante nell’epoca in cui esplode sia l’uso pubblico della storia sia la dimensione “visuale” o emozionale che la storia inizia ad avere, nonché il ruolo che inizia a svolgere, a partire da quel decennio.

Tuttavia non è solo su questo che Yerushalmi vuole invitare a riflettere. Sono le fonti, il loro uso e soprattutto le suggestioni che esse provocano, – p. e. il concetto di spazio/tempo – a costituire la forza di Zakhor.
Le prospettive di apertura che Zakhor prefigura riguardano una possibile scrittura della storia degli ebrei che non risieda nei processi migratori o nella produzione testuale o nella discussione, ma nel riordino del tempo storico, e dunque non nel “dizionario” ovvero nell’accumulo nel tempo di significati, bensì nella definizione di un’“enciclopedia”, ovvero di un costrutto gerarchico, orientato e soprattutto soggettivo di un sapere (che è anche un “agire” o meglio un “fare”). Un sapere dunque che si costruisce “nel tempo”, attraverso salti di discontinuità, e nella ricostruzione artificiale di continuità. In breve nelle procedure che un attore collettivo attiva allorché prova periodicamente a ripensare e riscrivere, e dunque a riordinare consapevolmente, ciò che eredita dal passato. Non solo. Chiedendosi e indagando anche ciò che nel passato è stato espulso e che per molto tempo non è stato considerato oggetto d’indagine storica, ma solo storia normativa o giudiziaria.
Si consideri, per esempio, la questione del marranesimo. Un tema su cui Yerushalmi ha lavorato soprattutto tra gli anni ’60 e i ’70, e che contemporaneamente s’incrocia con le ricerche storiche che Nathan Wachtel avvia negli stessi anni.
Una ricerca che tiene conto non già dei meccanismi di espulsione, ma di quelli di ricollocazione dell’esperienza marrana, p.e. analizzando il contesto iberico-americano, soprattutto a partire dall’analisi della mentalità degli sconfitti, ovvero degli attori passivi che subiscono la “conquista”, per come la rileggono e quali processi mentali, ma anche quali procedure comportamentali, ovvero quali codici, attivano. In breve la condizione marrana come “storia di resistenza”. Una vicenda storica, soprattutto quella collocata nel continente iberico-americano, che spesso è rimasta sottotraccia. Quella storia, che Wachtel ha messo particolarmente al centro della sua ricerca, ha una profonda connessione, per esempio, sia con le pratiche delle memorie di gruppo, sia con le molte fisionomie delle identità, temi che costituiscono un enorme campo di ricerca e d’indagine sugli ebrei moderni.

“Molti ebrei di oggi sono in cerca di passato, ma ovviamente non del passato che può offrire loro lo storico”. È una delle conclusioni a cui arriva Yerushalmi nel capitolo finale di Zakhor. Ma è anche una “preoccupazione” che ha accompagnato gran parte della sua ricerca storica e uno dei punti qualificanti della sua proposta interpretativa. Strettamente connesso a questa questione, è il fatto che l’offerta di un ordine del passato proposto dallo storico ha l’effetto di riscrivere una memoria e dunque in un qualche modo se non di rifondarla, certo di contribuire a complicarla.
Yerushalmi propone varie chiavi di accesso per affrontare e scrivere la storia degli ebrei. Una, per esempio, è rappresentata dalla coppia speranza/disperazione e dal ruolo che essa ha svolto nella loro esperienza storica. La speranza per Yerushalmi, prima di tutto, è la spia non solo di un sentimento, ma anche di un atteggiamento e, soprattutto, di una modalità che dà luogo a un atto.

Descrivere la storia ebraica attraverso la categoria di speranza, implica, allora, affrontare alcuni snodi e momenti della storia degli ebrei, non solo sulla base dei comportamenti, ma anche delle convinzioni.
Per esempio, si chiede Yerushalmi, che connessione ha l’insorgenza di movimenti messianici con la speranza? E i processi di emigrazione sono interpretabili solo come un atto di disperazione, o anche come un investimento di speranza verso il futuro? In questo senso la domanda da porre non è da dove vanno via gli ebrei ogni volta che si spostano, ma verso dove si dirigono e perché scelgono o si indirizzano verso quel luogo. Per esempio è certamente improbabile oggi, sostiene Yerushalmi, ritenere che la Polonia sia un luogo di speranza, ma per gli ebrei che si insediano a Cracovia nel XIV secolo, e anche per coloro che vi arrivano nel XVI, la Polonia aveva questa funzione e rispondeva a questa immagine.
Oppure quale rapporto si è dato nella storia degli ebrei, nel loro agire concreto, tra memoria e speranza, ovvero tra percezione del passato e investimento in un futuro? Perché si chiede Yerushalmi, a lungo nella permanenza dell’esilio gli ebrei hanno eretto il loro luogo di esilio a nuova Gerusalemme, salvo poi spesso dover intraprendere la strada della fuga, ma senza mai intraprendere in massa, un ritorno fisico a Gerusalemme se non nel XX secolo?
Dunque qual è il rapporto tra l’esperienza storica e il profilo della speranza? Per esempio, sostiene Yerushalmi, molti hanno sostenuto che il movimento sionista, abbia rappresentato un’esperienza di rivolta contro il messianesimo ebraico, ovvero un atto di rovesciamento e di rifiuto nella fede e la convinzione di assumere un confronto stretto con la storia. Ma è proprio così? Yerushalmi ne dubita e infatti conclude: “Dubito che il sionismo avrebbe mai potuto essere in grado di divenire un movimento di massa se non avesse assimilato le energie messianiche tradizionali, se non avesse impiegato una retorica messianica propagandistica”.

Zakhor, dunque nasce come discorso critico sulla memoria collettiva. Più precisamente: su come quella memoria “schermi” il passato, ma anche “lo ricostruisca”.
La prima questione riguarda in che dimensione e per quali vie si assume la storia del passato e quale sia il rapporto con il passato che ha il mondo ebraico; la seconda questione riguarda come e quando sorga la questione di un rapporto con il passato così come lo pratichiamo oggi, nonché come funzioni quel ricordo.
Il passato per Yerushalmi non solo si ripensa, ma va ritrovato e una delle funzioni dello storico è quella di indurre il suo lettore a ripensarlo. Questo aspetto che dà allo storico una responsabilità pubblica, ma anche riconosce la soggettività della sua ricerca, e dunque la sua discutibilità, costituisce uno dei punti salienti del suo esercitare il “mestiere di storico”.
Per comprenderlo considero uno scritto successivo di circa 20 anni a Zakhor, capace a mio avviso di illustrare più efficacemente di altri il principio della sua riflessione nonché l’origine metodologica.

Alla fine degli anni ’90 Yerushalmi scrive la prefazione alla versione francese di Galut, la monografia che Yitzhak Baer pubblica in tedesco nel 1936.
Dove risiede l’interesse di Yerushalmi per la monografia di Baer, una monografia, s’intuisce in vari passaggi di quella prefazione, su cui dissente, ma che è funzionale al suo ragionamento sul “mestiere dello storico”? In linea di massima il tema è quello della comparabilità tra la condizione del giudaismo iberico nel corso del XV e XVI secolo con quella propria del mondo tedesco tra fine del XIX e prima metà del XX secolo, ma il rovello di Yerushalmi è lo stesso che ha motivato le sue affermazioni in Zakhor. Perché riprendere il ragionamento comparativo sul passato? Per proporre un atto nel presente. In questo caso per Baer il problema è rompere con un processo di inerzia. Rientrare nella storia, significa uscire dalla ripetizione di una procedura del passato.
Baer lo scrive chiaramente descrivendo il processo che conduce tra Settecento e Ottocento all’emancipazione e poi alla sua chiusura, e dunque all’abbandono di un‘idea di liberazione messianica come processo lento di emancipazione e di assorbimento.
Il riferimento implicito di Baer è alla parabola rappresentata dal processo d’inclusione del mondo ebraico in Germania poi risolto tragicamente (e ancora mentre scrive, siamo nel 1935, non definitivamente).
Il riepilogo di quella storia dunque, secondo Baer, dovrebbe essere di stimolo a eliminare le ultime illusioni. Conservare memoria del passato consente di agire nel presente. Non la persecuzione che si ripete fa sì che il popolo ebraico sopravviva, ma la decisione di andare via, di non sottostare al ricatto. La persecuzione come la fuoriuscita fanno parte della conservazione della memoria.
Il profilo del ragionamento di Yerushalmi è opposto, proponendo un diverso modo di intraprendere la scrittura della storia ebraica, aprendo un cantiere di ricerca che configura la storia degli ebrei non come eccezione rispetto alla storia generale, ma anzi avendo davanti le stesse questioni. La storia degli ebrei per Yerushalmi, infatti, non parte dalle persecuzioni, ma deve mettere al centro la storia dei sentimenti e delle sensibilità secondo le sollecitazioni già avanzate da Lucien Febvre intorno ai possibili territori di ricerca da aprire per studiare la storia della mentalità. E così Yerushalmi, riecheggiando Febvre, sottolinea come per comprendere gli ebrei nella storia, si debba intraprendere una storia dell’amore, della morte, della pietà, della crudeltà (aggiungendovi, appunto, una storia della speranza).
Da quelle pagine, tuttavia, egli riprende anche un altro tema significativo nella sua ricerca: il fatto, – è ancora Febvre in quelle stesse pagine a richiamarlo – che “in ogni sentimento umano c’è ambivalenza”. Ovvero “che ogni sentimento umano è se stesso e il suo contrario; che una specie di comunità fondamentale unisce sempre i poli opposti dei nostri stati affettivi”.
È a partire da questa premessa che Yerushalmi si chiede fino a che punto, nell’esperienza storica ebraica anzi, più precisamente, nel vissuto degli ebrei, la condizione dell’esilio sia percepita come una maledizione.
Perciò si domanda: se vivere in esilio era intollerabile, perché la maggior parte degli ebrei non ha mai tentato un ritorno in massa in terra di Israele? Per due motivi, si risponde:
la convinzione radicata dell’ipotesi messianica che lentamente, a partire dall’esperienza di massa dell’esilio, tende a collocarsi nell’idea che essa coincida con un intervento di Dio nella storia, e dunque autonoma e indipendente dall’azione dell’uomo;
il fatto che la vita in esilio nel complesso fosse una “vita ebraica di successo”.
Per Yerushalmi ciò implica un nuovo modo di interpretare il vissuto dell’espulsione: ovvero il rammarico di doversi allontanare da un luogo percepito come “proprio luogo”. Nel senso che esso rappresenta un luogo della propria identità – lì si è “a casa” – ma anche un luogo attraverso il quale si costruisce e si definisce la propria continuità nella storia. Più in particolare un luogo da cui l’atto di espulsione obbliga a confrontarsi non tanto con un tempo passato lì, ma con la rilevanza che quella permanenza lì ha avuto rispetto alla storia della propria personalità culturale. Un’espulsione dunque non è rilevante per la fuga, ma il peso specifico che ha avuto l’esperienza in quel luogo nella memoria collettiva.
Osservazione che riapre il problema di che cosa implichi l’indagine sul passato, come questo si codifichi, quali procedure statuisca. Da una parte è il problema della commemorazione, dall’altra è quello della ricostruzione del passato, dei momenti costitutivi dell’identità collettiva.

La commemorazione, lungi dall’essere un esercizio sterile, o esclusivamente pedagogico, è una procedura attraverso cui si produce memoria storica. Dentro vi convergono vari percorsi. Quello della memoria obbligata, ma anche quello della memoria a lungo impedita, repressa o svalorizzata. La commemorazione in altre parole vive di molti atti: indica una scelta; individua una sensibilità; è un indizio rilevante su un torto o un’omissione di atto a cui si vuol (o si sente la necessità di) riparare.
La commemorazione non parla mai, o solo indirettamente, dell’oggetto. Essa, invece, esalta sempre l’ente o l’attore collettivo che la promuove. Rispetto sia ai temi, sia ai tempi.
Si potrebbe concludere che al centro delle pratiche contemporanee commemorative del passato c’è una volontà di rottura con la tradizione, più che un assoggettamento al passato. In questo senso l’utilizzo dell’occasione della ricorrenza, più che una riconciliazione con il passato, è un modo nel presente di proporre un ordine del passato per prefigurare l’avvenire.
Più precisamente: un’operazione che sceglie nel presente, il progetto culturale per l’avvenire riordinando il passato. In questo senso la commemorazione costituisce un tratto proprio della costruzione dell’identità. Ha un carattere prescrittivo, pur presentandosi come descrittivo. La commemorazione ha un triplice carattere: storiografico, monumentale, cerimoniale. E ha una legge di funzionamento: la storia propone, il presente dispone.
Qui si apre il problema di come un attore collettivo ripensi se stesso; quali storie rilegga e come; quali date scelga; da quali icone si faccia rappresentare.
E’ il corpo di suggestioni e di questioni che Yerushalmi affronta avendo come riferimento la riflessione di Maurice Halbwachs sulla memoria collettiva.

Ci sono tre principi di riflessione sul tema della memoria proposti da Halbwachs.
Primo. Ogni atto di memoria ha un fondamento sociale. La memoria non è un dato solo cerebrale o un prodotto solo individuale, ma vive in un contesto e si riferisce a un contesto di cui è espressione. Il concetto di “quadro sociale” richiama questa questione.
Secondo. La memoria è un’operazione paradigmatica. In altre parole non fa risorgere il passato, ma lo ricostruisce in un modello coerente. In questo senso l’atto del ricordare ha un valore ermeneutico, ovvero è una raffigurazione che si riempie di passato, ma che si costruisce attraverso un processo ermeneutico collocato nel presente.
Terzo. La memoria sceglie nel flusso di immagini del passato quella che meglio si adatta ai bisogni del presente.
Il meccanismo che mette insieme questi tre diversi principi ha il suo massimo di espressione nella macchina della commemorazione.

Questo passaggio è illustrato da Halbwachs in particolare nel saggio sulla topografia dei vangeli in Terra Santa. Ciò che Halbwachs analizza è la sovrapposizione sulla dimensione reale dell’immaginario medievale. Gran parte dei luoghi della Terra Santa si riferiscono a un tempo di azione, ma sono costruiti o descritti in un tempo diverso, quando gli elementi che vengono descritti non ci sono più. Ciò che è denominato “Terrasanta”, più che una scoperta, è una “ricostruzione immaginativa” di coloro che vanno verso la Palestina. La Palestina, in altre parole, è un costrutto di coloro che la immaginano prima e la visitano poi. In questo senso è un prodotto dello sguardo dei pellegrini.
Questo aspetto, tuttavia ha per Halbwachs un valore generale e non riguarda solo quell’esperienza. In apertura di Memorie di Terrasanta, riflettendo sui “luoghi santi” come costruzione, ma non solo riferendosi ad essi.
Ma questa condizione, vive con un’altra che le è contigua.  Anch’essa contribuisce a definire la conoscenza della storia attraverso l’attivazione della memoria nel confronto/scontro con la tradizione ebraica, fino al punto che l’indagine storica sia vissuta come destabilizzante rispetto alla propria identità.
È un aspetto che sollecita Yerushalmi a riprendere in mano quanto Halbwachs aveva affermato nelle sue riflessioni intorno alla memoria collettiva: da una parte il fatto che la memoria si costruisce nel tempo, nello spazio, ma soprattutto attraverso gruppi sociali. Dall’altra il fatto che il problema della ricostruzione del passato, della sua rievocazione e dunque della sua valorizzazione non nasce da un’operazione di apprendimento, ma di collocazione scalare di valore. “…non è sulla storia imparata, bensì sulla storia vissuta che si basa la nostra memoria”, scrive Yerushalmi. Non solo: la memoria riguarda, anche quando si apprende il passato e chi racconta il passato che “apprendiamo”.

Ne discende una prima conclusione di Halbwachs che Yerushalmi fa sua e che sintetizza in due criteri.
Da una parte il fatto che “la storia non è tutto il passato, ma non è nemmeno tutto ciò che resta del passato. Diversamente, se si preferisce accanto a una storia scritta c’è una storia vivente che si perpetua o si rinnova attraverso il tempo e dove è possibile ritrovare un gran numero di queste vecchie correnti che erano scomparse solo in apparenza”.
Dall’altra, la reciproca estraneità e talora l’opposizione tra storia e memoria.
La questione si precisa dunque come conflitto con la memoria. E’ la conclusione di Halbwachs nel suo La memoria collettiva ed è uno degli aspetti essenziali e costitutivi della storiografia di Yerushalmi.

“Non diremo che, a differenza della storia – o se si vuole della memoria storica – la memoria collettiva non trattenga se non le somiglianze. Perché si possa parlare di memoria, bisogna che le parti del periodo su cui essa si estende siano differenziate in qualche misura. Ciascun gruppo ha una storia. Al suo interno si distinguono personaggi ed eventi. Ma ciò che ci colpisce è che, nella memoria, le somiglianze passano comunque in primo piano. Nel momento in cui prende in considerazione il proprio passato, il gruppo sente bene di essere rimasto lo stesso, e prende coscienza della propria identità attraverso il tempo. La storia, lascia cadere questi intervalli dove in apparenza non succede nulla, dove la vita si limita a ripetersi, sotto forme un po’ diverse, ma senza variazioni essenziali, senza rotture né rivoluzioni. Ma il gruppo che vive innanzitutto e soprattutto per se stesso, tende a perpetuare i sentimenti e le immagini che formano la sostanza del suo pensiero. Proprio il tempo che è scorso senza che niente lo abbia modificato profondamente che occupa il posto principale della sua memoria.

È un aspetto che non riguarda solo il gruppo ebraico. La necessità della storia e il ricorso all’impalcatura della storia come discorso e palinsesto esplicativo divengono impellenti e necessari allorché un complesso sociale si spezza e non garantisce più di un racconto avvolgente e protettivo.

La discussione e l’incontro con la storia avviene dunque sulla base di una mancanza o di un’orfanità, comunque della fine di un sistema protettivo? Se è così, allora il problema è anche avere chiarezza della funzione dello storico, un intellettuale che non deve né pensare di essere né proporsi come un dissacratore del passato, proprio perché consapevole delle potenzialità che l’indagine storica apre, e al tempo stesso della delicatezza con cui quell’indagine vada condotta e i suoi risultati vadano proposti.
Anche questa, ovvero la dimensione della discrezione, è una lezione di storia che dobbiamo a Yosef Hayim Yerushalmi.

David Bidussa
Redazione JOI Mag

Classe 1955, nato e cresciuto a Livorno, studia a Pisa dove inizia la facoltà di Filosofia, ma si innamora di quella di Storia. Ha insegnato al liceo e all’università, da anni lavora alla Fondazione Feltrinelli in quanto Direttore dei contenuti editoriali. Si definisce uno storico sociale delle idee (ci ha assicurato essere una vera specialità, benché nessuno finora abbia capito cosa sia). Scrittore e giornalista, dicono che il suo branzino al sale sia leggendario.


1 Commento:

  1. Limpida pagina ricostruttiva della direzione di senso, verso cui si orienta l’operazione storiografica di Yerushalmi. Molto utile per differenziare le categorie esplorative, rispetto ad esempio a quelle della “storia mondiale” e della “microstoria”. Rispetto al marranismo mi fa ripensare al recente saggio di Donatella Di Cesare, che tanto deve a Yerushalmi..Grazie David!


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