Cultura
28 gennaio, dal dovere della memoria alla memoria del dovere

Analisi filosofica del rapporto tra linguaggio e violenza, per scoprire che la differenza è la prima arma contro l’indifferenza

Ieri, 27 Gennaio, istituito dal parlamento italiano quale “giorno della memoria in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti” – Gazzetta ufficiale del 31 luglio 2000. Giornata, certo, in cui viene posta all’attenzione culturale, istituzionale e mediatica la memoria dei singoli, dei sopravvissuti, in primis, e di coloro che, come si suole, dire, non sono stati presi. Giorno in cui, potremmo osservare, la coscienza ebraica della persecuzione – che attraversa la quotidianità privata e che ha in Yom HaZikaron LaShoah veLaGvurà il suo riferimento nel calendario ebraico – viene sollecitata a iscriversi nella più ampia coscienza della società civile. Lo si evince a partire dalla Gazzetta, dove persecuzione e sterminio del popolo ebraico vengono accostati alle persecuzioni nazifasciste a danno di oppositori politici e militari. Siamo così rimandati a un quadro di analisi più ampio, ove l’antisemitismo di Stato viene colto tanto nei suoi rapporti con la storia dell’ostilità verso ebraismo e popolo ebraico, quanto quale esito radicale del totalitarismo nazifascista e delle diverse forme di razzismo da questi veicolate. Su questo sfondo è possibile individuare un nodo che costituisce parte della possibile eco, a partire simbolicamente dal 28 gennaio e lungo i successivi giorni dell’anno, di alcuni dei temi ricorrenti nel giorno della memoria. Dove con eco si vorrebbe intendere il persistere della coscienza delle persecuzioni quale costante richiamo, momento sorgivo e punto su cui eventualmente tornare, di riflessioni di per loro autonome. È questo ci sembra – oltre a una dovuta esplicitazione della distinzione tra memoria e storia, da una parte, e riflessione teoretica, dall’altra – uno dei possibili modi di non risolvere la coscienza delle persecuzioni né in una sola, pur importante, data, né in (esclusivamente) determinati campi del sapere. Chiedendo viceversa che anche la filosofia, a partire da quella del diritto, si interroghi sui fatti che la memoria e l’analisi storica ci pongono dinnanzi.

Il nodo è quello del rapporto tra linguaggio e violenza, da una parte, e tra linguaggio, diritto, diritti e dovere, dall’altra. Un legame, il primo, noto tanto in sede politica – proprio a riguardo dell’attuale recrudescenza di diverse forme di antisemitismo e razzismo si è richiamata l’attenzione all’uso violento del linguaggio –, quanto al senso comune, al vissuto di ciascuno di noi. Un rapporto in cui la eco di ciò che è stato non potrebbe essere più marcata. Lo mostra il ruolo della propaganda che, come analizzato in LTI La Lingua del Terzo Reich di Victor Klemperer (Giuntina, 1999), è venuta, grazie alla sua penetrazione nel linguaggio ordinario, a farsi capillare veicolo per la legittimazione delle politiche persecutorie. Non solo. La eco della memoria nell’interrogativo attinente al rapporto tra linguaggio e violenza è riscontrabile anche nelle premesse giuridiche che hanno reso via via possibile le persecuzioni – le Leggi di Norimberga e le Leggi per la difesa della razza, dove determinate categorie, nell’occasione designate o ridefinite, vengono, in nome e per mezzo della legge, gradualmente defraudate di qualsivoglia diritto soggettivo, costituendo la premessa per le deportazioni. Non sarà forse un caso che i luoghi, i campi di concentramento e sterminio, posti al di fuori di ogni vincolo di umanità, siano quegli stessi in cui il linguaggio, insieme alla percezione (come emerge in Imre Kertész, Essere senza destino), si degrada.

Il rapporto tra linguaggio e violenza si renderebbe particolarmente evidente nell’ambito giuridico proprio perché qui, più che altrove, il linguaggio svolge un ruolo performativo, essendo – ricalcando il titolo del saggio di J. L. Austin (1962) –, chiamato a fare cose con le parole. La performatività del linguaggio pare la premessa per poter comprendere il suo possibile ruolo di vettore di violenza: è perché, richiamando la duplicità semantica dell’ebraico davar, la parola è anche cosa, che le parole, e nello specifico le proposizioni normative, giocano un ruolo dirimente nel creare la nostra ‘realtà sociale’ (J. Searle). In quest’ottica la performatività del linguaggio giuridico sembrerebbe mezzo neutro, capace di veicolare qualsivoglia contenuto. È possibile però guardare oltre questa considerazione fattuale, quasi tecnica. Scorgere due concezioni, apparentemente in antitesi, del linguaggio giuridico. La prima, secondo cui questo, in quanto linguaggio che opera attraverso categorie astratte, definizioni atte a delimitare gli uomini (e il creato tutto) e a delimitare diritti e dovere ‘nei termini di legge’, reca necessariamente con sé una forma, non fosse che simbolica, di violenza. In questa prospettiva, con Levinas, è possibile riconoscere nel linguaggio giuridico la premessa a forme, anche solo simboliche, di violenza – della categoria astratta, “dell’ordine razionale” dello Stato (Liberté et commandement). La seconda per cui, viceversa, nel linguaggio giuridico sono riconoscibili momenti, e forme, in cui il singolare, il particolare rappresentato da ciascun individuo, trova espressione – vuoi nei principi di carattere morale, sovente ricorrenti nei testi fondativi delle diverse civiltà giuridiche; vuoi nell’ermeneutica e nella giurisprudenza. Queste e analoghe declinazioni del linguaggio giuridico sono riconoscibili – seguendo alcuni momenti dell’analisi di Lorenzo Scillitani (2018) –, quali “tracce dell’infinito”, di quell’esigenza di giustizia, che si inscrive in ciascun individuo, così colto, nella “neutralità” del suo essere, quale portatore di diritti. Aspetti che rilevano sul piano politico e teoretico. Poiché indicano quegli elementi del linguaggio giuridico che possono costituire la barriera a ogni deriva totalitaria. Più ampiamente, perché viene così mostrato come l’infinito – l’essere della persona – condizioni e renda senso al finito, alle proposizioni contingenti del diritto. Il limite del linguaggio, e di quello giuridico in particolare, è così colto come momento tanto di distinzione tra finito e infinito, quanto di refrazione di quest’ultimo, di sua permanente articolazione.
Ma anche parole che, nella misura in cui recano con sé il rinvio all’individuale, all’esigenza di giustizia, lasciano emergere una dimensione altra del linguaggio (tout court) dove questi, in luogo di comprimere nella categoria, si mostra quale momento in cui si esprime la distinzione tra sé e l’Altro, dove quest’ultimo emerge nella sua esteriorità. Singolarità dell’altro – suscettibile di essere ucciso, ma non com-preso – come momento sorgivo di un appello, dovere primo. Non già contenuto in questa o quella proposizione giuridica, o in una determinata cognizione morale, dell’intelletto, ma dovere come scena antecedente. Se in Levinas l’esteriorità del singolo si esprime in obligation, che scompone il nostro essere, in Scillitani, come si è tratteggiato, è l’essere stesso, nella sua figura di singolo individuo che costituisce, in quanto tale, la pretesa e richiesta di un infinito diritto.

È proprio sulla base di questa anteriorità del dovere infinito rispetto ogni sistema giuridico che Levinas sembra condurci a riconoscere la necessità di una soglia, una misura, di violenza – quella sopra indicata in riferimento al linguaggio astratto del diritto, allo Stato in quanto tale. Il dovere verso l’Altro è infatti (necessariamente) limitato da un altro dovere, quello verso la pluralità (il Terzo). Un distinguo che non prelude all’antitesi, bensì alla ricerca di un equilibrio tra la “misericordia” della relazione diretta e il “rigore” della giustizia, come Levinas si esprime (riprendendo due termini della Tradizione) in Entre nous. Dunque se il dovere verso la collettività è limite al nostro obbligo verso l’Altro rimane necessario, per così dire, porre un limite al limite, un argine etico al potere politico. Argine individuabile nella voce dei profeti – appello che da Israel risuona all’umanità, posto che quella voce profetica è intesa quale “categoria dell’anima”. È forse nella eco di questa voce che il dovere alla memoria – il giorno dopo – diviene occasione di inquietudine, rinvio a quel dovere antecedente ogni categoria astratta, a quel linguaggio della distanza, dell’asimmetria, dove la differenza del singolo si ponga, parafrasando Levinas, quale condizione alla non indifferenza: al mio dovere o al suo diritto.

Cosimo Nicolini Coen
collaboratore

Cosimo Nicolini Coen ha studiato alla Statale di Milano, dove si è laureato in Ermeneutica filosofica e Filosofia del diritto, e all’Università Jean Moulin III, a Lione;  attualmente è dottorando a Bar Ilan. Ha pubblicato il libro Il segno è l’uomo per Durango Edizioni.

 


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