Cultura
Chrismukkah e Festivus: festività alternative per la settimana della luce

Viaggio semiserio nelle serie Tv statunitensi per rintracciare l’origine di due feste di matrice inclusiva

It’s that time of the year again. Le feste bussano ormai alle porte, destando nelle persone sentimenti contrastanti, dall’entusiasmo più acceso al fastidio assoluto. Niente paura: se le feste tradizionali vi deprimono, potete sempre decidere di abbracciare il Chrismukkah oppure il Festivus. Non avete idea di che cosa stiamo parlando? È possibile, soprattutto se non avete relazioni con gli Stati Uniti o non amate le serie televisive d’annata. Temete che si tratti di nuove diavolerie create apposta per spillarvi denaro e/o costringervi all’ennesimo interminabile pranzo festivo con parenti tediosi e molesti? Potrebbe anche essere vero, ma non è questo il punto. Non vi resta che accettare il rischio e leggere questo articolo per scoprire se Chrismukkah e Festivus vi riguardano da vicino.

Partiamo con il più semplice dei due, ossia il Chrismukkah. Come lascia intendere il nome stesso, il Chrismukkah è una celebrazione ibrida delle festività invernali che partecipa tanto delle tradizioni natalizie cristiane quanto di quelle ebraiche di Hanukkah. Espressione di un sincretismo pop tipicamente americano, il Chrismukkah rappresenta una soluzione a quello che già negli anni ‘80 negli Stati Uniti era chiamato il “dilemma di dicembre”, vale a dire l’esasperante serie di ansie e di difficoltà che le famiglie miste spesso sono chiamate ad affrontare in questo periodo dell’anno. Durante il mese di dicembre, infatti, a seconda del grado di osservanza dei loro membri le famiglie di questo tipo possono essere attraversate da dubbi laceranti, capaci di far esplodere tensioni già latenti. Non serve essere uno psichiatra o un consulente matrimoniale per rendersi conto che le discussioni sulle decorazioni domestiche o sui rituali da insegnare ai figli, così come i battibecchi per i cibi tradizionali da servire a tavola o per i parenti da invitare ai pasti della festa possono essere tra le esperienze più logoranti per un nucleo familiare. Sembrerà anche banale, ma basta fare una breve ricerca su internet per rendersi conto che gli americani prendono molto sul serio questo problema, attribuendogli implicazioni socio-psicologiche non di poco conto. A questo proposito, il Chrismukkah rappresenta la soluzione a tutti i mali. Ciascuno, infatti, è libero di stabilire le proprie tradizioni familiari, creando un personale mishmash, una mescolanza dei rituali ebraici e cristiani. Quindi ben vengano le hanukkiot accanto agli alberi di Natale e Santa Claus vada pure a braccetto con i Maccabei: nel Chrismukkah tutto è concesso. Certo, Charlotte York, la più Wasp delle ragazzacce di Sex and the city, convertitasi all’ebraismo per amore, replicherebbe che celebrare il Chrismukkah è come “essere dei vegetariani che mangiano la carne”.
Giacché abbiamo citato Sex and the city, ricordiamo che il Chrismukkah è stato consacrato (e codificato) proprio da una serie televisiva, The O.C., molto popolare anche in Italia, dov’è stata trasmessa per intero dal 2004 al 2007. Ambientata a Newport, nella contea californiana di Orange, The O.C. narra le vicende di Ryan Atwood, un ragazzo dei bassifondi che viene adottato dalla facoltosa coppia di filantropi formata da Sandy e Kirsten Cohen (rispettivamente una Wasp al cubo e un ebreo del Bronx). In un episodio andato in onda negli Stati Uniti nel dicembre 2003, il figlio della coppia, Seth, una sorta di Woody Allen in erba della costa occidentale, introduce il fratello adottivo a una particolare celebrazione familiare, da lui definita appunto il “Chrismukkah”: “la più grande mitica super festa che il genere umano conosca”. Durante il Chrismukkah i Cohen ‒ oltre a decorare l’albero di Natale e ad accendere i lumi di Hanukkah, ovviamente ‒ rimangono a casa, mangiano cibo cinese, si scambiano regali (“otto giorni di regali più un giorno di super regali”) e guardano film insieme, nell’assoluto rispetto delle due fedi: La vita è meravigliosa e Il violista sul tetto.

Bisogna ricordare che il personaggio di Seth Cohen non è stato il primo a onorare in uno show televisivo questo genere di ibridazioni festive, evidentemente già ben radicate nelle famiglie miste americane. L’antesignano assoluto, infatti, è stato il tenero Ross Geller di Friends, il quale travestito da armadillo “festivo”, già nel 2000 cercava di insegnare al figlioletto travolto dal fascino del Natale newyorchese la storia di Hanukkah, perché crescesse in una piena consapevolezza delle proprie origini. Tuttavia, l’influenza che questo episodio di The O.C. ha avuto sulla cultura popolare americana è stata stupefacente, legittimando la realtà di un notevole numero di cittadini americani. Non a caso, nel 2004 “Chrismukkah” è stata citata dal Time come una delle parole dell’anno, entrando poco dopo nel prestigioso Chambers Dictionary. Nonostante l’evidente successo popolare (e commerciale) del Chrismukkah, la festa è stata condannata aspramente dalle autorità di entrambe le religioni coinvolte perché considerata “insultante”. Altri, invece, negli anni ne hanno criticato l’eccessiva mercificazione. Non dobbiamo dimenticare però che nella sede televisiva originale il Chrismukkah trae origine dalla coscienza tipicamente ebraica della propria alterità all’interno di un tessuto sociale a maggioranza cristiana, un sentimento di disagio destinato ad acuirsi principalmente durante il periodo natalizio, come gli studiosi dei vari aspetti del “dilemma di dicembre” hanno più volte messo in luce. Lo ha raccontato lo stesso regista di The O.C., Josh Schwartz, rievocando gli anni del college: “Ero circondato da tutti questi ragazzi di Newport Beach che erano giocatori di pallanuoto e da ragazze bionde che volevano uscire soltanto con loro. Mi sentivo un outsider. Provare a parlare di Hanukkah con alcuni di loro era come dichiarare di provenire da un pianeta alieno e volerne raccontare le usanze.” Se in The O.C. il Chrismukkah evidenzia quindi l’alterità della famiglia Cohen e dei suoi membri in quanto differenti rispetto alla società circostante, nello stesso tempo sottolinea però l’importanza di questa diversità, la quale assume una portata rivoluzionaria, se non addirittura portentosa (i miracoli del Chrismukkah, appunto).

La persistenza del Chrismukkah negli Stati Uniti testimonia dunque in maniera evidente la capacità delle serie televisive di dare forma alla realtà odierna. Tuttavia, ancor più sorprendente è la storia del Festivus. Questo nome bizzarro definisce una festività laica, da celebrarsi rigorosamente il 23 dicembre come alternativa al consumismo di massa del Natale. A dire il vero, in origine il Festivus non aveva alcuna relazione con la festa cristiana, essendo stato inventato nell’ormai lontano 1966 dal padre di Daniel O’Keefe, uno degli autori della serie-cult Seinfeld, per commemorare la moglie defunta. Nel 1997, però, lo stesso O’Keefe ha deciso di rielaborare quest’aspetto così peculiare della propria infanzia, inserendolo nell’episodio “natalizio” di Seinfeld intitolato The strike. Nella sitcom la paternità della festa è attribuita a Frank Costanza (alias lo strepitoso Jerry Stiller), padre del nevrotico George. Frank spiega con dovizia di particolari gli usi e i costumi del “suo” Festivus, una festa concepita per chi si sente (o è) escluso dal delirio natalizio: a Festivus for the rest of us, “un giorno festivo per il resto di noi”, è il fiero motto della sua celebrazione. Date le premesse ideologiche del Festivus, questa occasione non prevede regali né dispendiose decorazioni. Al contrario, la famiglia colloca in casa un’asta di alluminio completamente spoglia, ma soprattutto partecipa a un pranzo festivo il cui inizio è segnato “dall’ora delle lagnanze” un momento durante il quale ognuno ha il diritto di esprimere la propria insoddisfazione nei confronti degli altri. “Ho un sacco di problemi con voi, gente, e ora dovrete ascoltarli tutti!”, esordisce Frank di fronte al figlio e ai suoi invitati. Inutile dire che si tratta di uno degli episodi più esilaranti dell’intera serie, che potete facilmente ritrovare su Amazon Prime, come abbiamo ricordato qualche tempo fa.
Tuttavia, se nella puntata in questione la festa servirà allo strampalato Kramer come scusa per indire uno sciopero al lavoro (ovviamente per sostenere i propri diritti di osservante del Festivus), il sospetto che qui essa abbia una qualche funzione in chiave ebraica è assai forte. Nonostante i richiami al consumismo di massa, nel corso dell’episodio gli autori sembrano voler alludere piuttosto ai sentimenti di frustrazione manifestati da molti ebrei americani ‒ grandi e piccini ‒ durante il Natale. Si tratta di sfumature, talvolta anche molto velate, ma del resto anche i personaggi coinvolti, George e Frank Costanza, sono dei crypto-Jew, ebrei non esplicitamente dichiarati. Oltre a ciò, l’intera puntata rivela un chiaro intento parodico nei confronti del “dilemma di dicembre”, come lascia intendere il ridicolo ammonimento di Frank al figlio a non abbandonare quelle che, dal suo bislacco punto di vista, sono le tradizioni familiari: “Il Festivus è il tuo retaggio, figlio!”. Che ci crediate o no, il Festivus ha preso piede negli Stati Uniti ‒ in particolare tra gli ebrei ‒ ed è tuttora celebrato, benché in maniera semiseria. Com’era prevedibile, anche questa ricorrenza non è stata molto apprezzata dalle autorità religiose. Recentemente, però, alcuni opinionisti hanno voluto spezzare una lancia a favore del Festivus, la sola festività a essere realmente inclusiva e rispettosa dei sentimenti di tutti, almeno da un punto di vista confessionale. Vale la pena allora di parafrasare una famosa di citazione di Woody Allen e di affermare che, nel caso del Festivus, la vita non ha saputo imitare l’arte, bensì la buona televisione.

Sara Ferrari
Collaboratrice

Sara Ferrari insegna Lingua e Cultura Ebraica presso l’Università degli Studi di Milano ed ebraico biblico presso il Centro Culturale Protestante della stessa città. Si occupa di letteratura ebraica moderna e contemporanea, principalmente di poesia, con alcune incursioni in ambito cinematografico. Tra le sue pubblicazioni: Forte come la morte è l’amore. Tremila anni di poesia d’amore ebraica (Salomone Belforte Editore, 2007); La notte tace. La Shoah nella poesia ebraica (Salomone Belforte Editore, 2010), Poeti e poesie della Bibbia (Claudiana editrice, 2018). Ha tradotto e curato le edizioni italiane di Yehuda Amichai, Nel giardino pubblico (A Oriente!, 2008) e Uri Orlev, Poesie scritte a tredici anni a Bergen-Belsen (Editrice La Giuntina, 2013).

 


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