Un incontro con la comunità afroamericana degli “Ivriim Israelim”, conosciuti anche come gli “African Hebrew Israelite of Jerusalem”
Dimona: nonostante sia ottobre inoltrato l’autunno non accenna ad arrivare in questa cittadina nel Negev d’Israele. Come molti altri piccoli centri urbani nel deserto del Paese, anche Dimona è stata fondata negli anni ’50 per accogliere in brevissimo tempo, quanti piu’ profughi ebrei possibili cacciati dai paesi arabi del Nord Africa, ed anche qui, la popolazione affronta molte delle problematiche socio-economiche frequenti nella periferia del Paese.
Poco prima di uscire dalla cittadina e di riprendere le strade brulle del deserto, si trova a Dimona un quartiere nel quale si è catapultati in una realtà del tutto diversa: sembrerebbe quasi di girare per le stradine di Harlem a New York, mentre invece, siamo giunti nel cuore della comunità afroamericana degli “Ivriim Israelim”, conosciuti anche come gli “African Hebrew Israelite of Jerusalem”. Ci accoglie Amalia, un’anziana signora dallo sguardo intenso e dai capelli bianchissimi, che passeggiando nei viali del quartiere indossando un coloratissimo vestito africano, ci introduce in una realtà umana estremamente interessante.
Tutto comincia a Chicago, quando negli anni ’60 il poco piu’ che ventenne Ben Carter, chiamato dalla comunità Ben Ammi HaMasheahk (che in ebraico significa letteralmente “Figlio del mio popolo il messia”), giunge alla conclusione che le religioni, attraverso la loro retorica, avevano cercato nei secoli di mantenere la schiavitù. Nel 1966 Ben Ammi ha una visione che dura solo 42 secondi, ma che cambierà per sempre la vita dei suoi seguaci: è giunto il momento di lasciare l’America e la schiavitù per raggiungere la Terra Promessa della Bibbia, la patria degli Ivriim Israelim.
Seguito da circa 400 persone, Ben Ammi raggiunge inizialmente la Liberia dove resterà per circa due anni in un periodo di vita nella natura selvaggia, un vero e proprio esodo che sia il passaggio dalla schiavitù verso la Terra Promessa; molti non riuscirono a sopportare la durezza del nuovo stile di vita e tornarono agli agi conosciuti in America, altri seguirono invece il leader e nel 1969 arrivarono finalmente in Israele.
Al loro arrivo all’aeroporto di Ben Gurion, furono tuttavia trattenuti per ore e ore: il Governo israeliano, infatti, non sapeva esattamente come comportarsi con i primi 39 Ivrim arrivati, che si dichiaravano al controllo passaporti come figli di Abramo, che affermavano di credere in un unico Dio e di avere come testo sacro di riferimento il libro della Genesi, ma che non si consideravano ebrei dal punto di vista religioso ortodosso. La conversione all’ebraismo non era, e non è a tutt’oggi, una opzione o una necessità. In qualche modo si decise comunque di accoglierli a Dimona, che è così diventato il centro maggiore della comunità dove vivono oggi circa 700 Ivriim: alcuni hanno ottenuto la cittadinanza israeliana, mentre altri sono considerati residenti permanenti; dal 2003 i ragazzi giunti alla maggiore età si arruolano nell’esercito israeliano ed in seguito, la famiglia e loro stessi, possono far richiesta per ottenere la cittadinanza. Esistono però anche le situazioni ambigue: la stessa Amalia, qui dagli anni ’80, ci racconta che tre dei suoi figli sono cittadini, mentre il quarto, seppur nato in Israele, vive qui con una residenza permanente ma senza avere la cittadinanza.
Visto dall’esterno non sembrerebbe che questi problemi legali assillino oltremodo la comunità, che si considera un popolo spirituale e non una religione e che vive secondo i comandamenti della Genesi, in armonia col corpo e con la Terra. Dal momento che credono che non esista determinismo né fisico né spirituale e che sia nelle nostre facoltà cambiare quelle situazioni che sembrerebbero immutabili, gli Ivriim hanno individuato i punti “malati” della società per estraniarli. Due su tutti i comportmenti da evitare, la cultura del consumismo o il mangiare e bere senza coscienza, per adottare invece uno stile di vita che escluda droghe, zucchero, fumo e alchool e che veda nel benessere fisico parte inscindibile del benessere spirituale.
L’intera comunità ha adottato una dieta esclusivamente vegana: è possibile assaggiare da “King” un ottimo gelato vegano, o ordinare al “Miznon Hai” colazioni e pranzi vegani; il “Ministero dell’immortalità divina” si preoccupa della forma fisica dei membri della comunità e che abbiano l’occasione di fare esercizi almeno tre volte alla settimana e che ognuno prenoti il suo massaggio obbligatorio una volta al mese: c’è qui la Spa, lezioni di ballo e ovviamente la palestra. La medicina è preventiva e non curativa: nella farmacia della comunità non si trovano pasticche o pomate, ma tinture con erbe curative e olii per ogni tipo di disturbo; non vanno in ospedale a partorire, ma a detta di Amalia, nel Bet Hai (“Casa della vita”) sono nati oltre 400 bambini.
Infine incontriamo Eitan: un ragazzo dallo sguardo buono che nella sala di incisione sta perfezionando la sua ultima canzone. Eitan ci racconta che come in passato gli Ebrei si recavano al Santuario di Gerusalemme per offrire sacrifici durante i tre pellegrinaggi, lui nelle feste comandate scrive un testo musicato che considera il suo sacrificio spirituale verso la comunità. Con una voce calda e profonda Eitan si esibisce per noi e ci rende partecipi della sua ricerca orientata a Dio e Gerusalemme, la città santa. Un incontro eccezionale, un nuovo tassello, unico, nel mosaico umano che è Israele.
Una storia molto interessante!
Estremamente interessante osservare il caleidoscopio delle comunità presenti in Israele. Non conoscevo nulla di questa popolazione. C’è sempre da imparare. Incredibile che in un paese così piccolo ci sia tanto da scoprire