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“Quella volta che ho abortito”: le donne ortodosse si raccontano

Poche decisioni sono tanto delicate quanto quella di interrompere una gravidanza. Una raccolta di testimonianze

Abortire non è mai semplice, poco importa la situazione, lo stadio della gravidanza, o la ragione. Siamo attratti dai titoli sensazionalistici, pronti a rispuntare ogni volta che un nuovo caso “Roe contro Wade” finisce al centro del dibattito, ma spesso ignoriamo le storie reali delle donne che sono passate attraverso questa esperienza.

Per alcune donne, abortire è una decisione particolarmente carica di tensione: si tratta delle donne delle comunità religiose conservatrici e, nella specie, delle donne della comunità ebraico-ortodossa.

Per le donne di questa comunità, decidere di interrompere una gravidanza è molto complicato, sia perché la Halakhah (legge religiosa) a riguardo è complessa, sia perché la vergogna associata a tale atto è significativa.

Parliamo qui di una storia a due strati. Lo strato superficiale racconta la storia ufficiale di una comunità che pubblicamente si dichiara antiabortista. E poi c’è lo strato segreto. Un non detto formato da tutti quegli spazi bianchi tra le lettere nere – ovvero, ciò che accade quando la Halakhah si scontra con la vita reale. Domande complicate e risposte che lo sono anche di più.

Che cosa succede se una donna viene stuprata? Che cosa succede se il feto viene diagnosticato impossibilitato a sopravvivere alla ventiquattresima settimana? La donna deve portare la gravidanza a termine, come qualcuno sceglie di fare? E il frutto di una relazione extraconiugale (certamente destinato a essere un mamzer, un bastardo secondo la legge ebraica)? E se la donna è mentalmente instabile, impreparata a una nuova gravidanza, e il feto rappresenta una minaccia per la sua vita?

I poskim, decisori halakhici

Molte donne ortodosse si rivolgono ai rabbini non solo per ricevere consigli, ma anche per avere una direzione. Tra le donne religiose è risaputo quali sono i rabbini ortodossi ai quali rivolgersi per questioni di gravidanza ed etica medica. Sono detti poskim, “decisori” halakhici che possiedono una vasta competenza legale. Spesso sono direttori di una yeshivah, passano le giornate immersi nei testi e sono esperti di questo specifico ambito della legge ebraica. I loro nomi sono mantenuti riservati e passati da donna a donna: a una donna disperata della comunità, il rabbino o la rebbetzin (la moglie del rabbino) possono discretamente passare il numero di telefono di un posek. A New York come a Gerusalemme, questi uffici rabbinici, imbottiti di scintillanti volumi talmudici, spesso diventano luoghi per sfogarsi in pianto, mentre si prende una decisione così tormentata.

Abbiamo raccolto in questo articolo le storie delle donne ortodosse che con coraggio hanno condiviso con noi la propria esperienza. Sono protette da totale anonimato. Poche di loro sono riuscite a confidarsi con la propria cerchia, per paura del marchio della vergogna. Alcune si sono rivolte ai poskim; altre, temendo che un rabbino potesse non concedere il permesso (paure fondate in gran parte sulla morale comune), sono andate avanti senza guida rabbinica, spesso vergognandosi in seguito di non aver consultato un leader religioso. Queste storie rappresentano solo una piccola parte di quelle che avvengono intorno a noi.

Il nostro augurio è che queste storie possano far riflettere, sensibilizzare coloro che usano la questione dell’aborto come un’arma politica, e confortare le donne che si sentono sole.

Per esigenze di chiarezza, le testimonianze sono state leggermente modificate e sintetizzate.

“Non ho potuto dirlo a nessuno”

Lakewood, New Jersey, 27 anni. Seconda gravidanza. 21 settimane.

Durante un’ecografia di routine, scoprimmo che il nostro bambino aveva la trisomia 13 nonché numerose deformità: palatoschisi, polidattilia e malformazioni al cervello e al cuore, tra le altre cose. Gli specialisti ci consigliarono di interrompere la gravidanza. Mai nella vita avrei pensato di dover prendere in considerazione l’aborto. Andammo da un posek, il quale concordò che dovevamo farlo, per evitare sofferenza sia alla madre che al bambino. Da lì in poi, ogni minuto fu di nauseante tortura. L’idea di avere il bambino in grembo per altre 20 settimane, solo per doverlo far morire, era terrificante. Quando arrivai in ospedale e dissi perché mi trovavo lì, una delle infermiere mi guardò con uno sdegno tale che desiderai di morire. Un’altra infermiera intervenne e si prese cura di me. Abortire il bambino fu un altro inferno. Il mio rabbino venne e prese il corpo per seppellirlo. A casa, mentii a tutti raccontando che avevo avuto un aborto spontaneo. Anche se sapevo di aver fatto la cosa giusta, di aver chiesto a tutti gli esperti, sapevo che le persone avrebbero inorridito. E così, ho mantenuto il segreto.

Se dal punto di vista halakhico la questione dell’aborto è complicata,

il tabù di parlarne è pericoloso.

 

“Avevo così tanta paura”

Israele, 31 anni. Terza gravidanza. 9 settimane.

Ero stata stuprata da un conoscente e non volevo dirlo a nessuno, nemmeno a mio marito. Agii da sola. Non ero emozionalmente capace di confidarmi con nessuno in quel momento, le loro “regole” mi avrebbero annichilito.

 

“Dobbiamo insegnare alle donne e agli uomini che i rabbini sono lì per aiutare”

Stati Uniti, 24 anni. Prima gravidanza. 8 settimane.

Fu durante la nostra shanah rishonah (primo anno di matrimonio). Mio marito era già violento all’epoca. Quando gli dissi che ero incinta, mi rispose che avrei abortito e non l’avrei detto a nessuno. Se avessi tenuto il bambino, avrebbe divorziato e non sarei stata in grado di finire gli studi. Avevamo pochissimi amici nella comunità ebraica, non c’era un solo rabbino che a lui piacesse, e quando gli proposi di parlare almeno con quello che ci aveva sposati, rifiutò. Sentii di non avere alternativa. Mi sottoposi ad aborto farmacologico. La sera, lui uscì con gli amici, mentre io, rimasta a casa, portai a termine la cosa con il secondo giro di pillole. Ero sola e cominciai a sanguinare, sangue dappertutto. In quel momento, volevo morire. In seguito, mi sentii isolata nella comunità. Mi vergognavo del mio segreto, di avere abortito, di non aver parlato col mio rav. Mi ci vollero ancora molti anni di violenza prima di riuscire finalmente a lasciare mio marito e a ricominciare. Non sono mai più rimasta incinta, il che ha reso le cose molto più difficili. Ma, baruch Hashem [grazie a Dio] non ho avuto figli da quell’uomo.

Se dal punto di vista halakhico la questione dell’aborto è complicata, il tabù di parlarne è pericoloso. Se hai scelto di abortire, o se ti hanno costretta, non dovresti vergognarti e tacere per paura di essere giudicata e ripudiata. Dobbiamo insegnare alle donne e agli uomini che in una situazione come questa, i rabbini non sono lì per maltrattarvi, ma per guidarvi. Non abbiate paura di cercare la consulenza di un rabbino.

 

“Avevo una relazione abusiva…”

Stati Uniti, 21 anni. Prima gravidanza. 5 settimane.

Ero nubile, avevo una relazione abusiva con un uomo che finì per violentarmi. Solo i miei amici seppero del mio aborto. Non potevo dirlo ai miei genitori o al mio rabbino. Non mi sono mai sentita più sola, umiliata e a pezzi.

 

“È più comune di quanto si pensi”

Monsey, New York, 22 anni. Terza gravidanza.

Mia figlia aveva tre mesi e suo fratello poco meno di due anni. Avevo sofferto di una grave, non diagnosticata depressione post-parto e di occasionali pensieri suicidi quando appresi, durante una visita di routine, di essere nuovamente incinta. Non potevamo permettercelo, e non solo da un punto di vista economico: una nuova gravidanza e un nuovo bambino rischiavano di uccidermi. A malapena riuscivo a prendermi cura dei due che avevo già. Chiesi di essere mandata da un medico abortista. La dottoressa era una frum [ebrea osservante], ma non fece una piega davanti all’oltraggiosa richiesta di una giovane moglie chassidica. “Dev’essere la prima volta che qualcuno chiede una cosa simile in questo studio”, le dissi. “Ti sorprenderebbe sapere quante donne ci sono state prima di te”, mi rispose semplicemente.

Mi richiamò il mattino seguente per informarmi che il test di gravidanza si era rivelato un falso positivo. Non trovo le parole per descrivere il mio sollievo.

“Non rimpiango la decisione presa, ma ho continuamenti pensieri del tipo E se…?”

Israele, 32 anni. Prima gravidanza. 20 settimane.

L’ecografia della dodicesima settimana rivelò che il bambino aveva una grave malformazione al cuore e allo stomaco. Dopo aver passato molto tempo a discutere e disperarci, decidemmo di interrompere la gravidanza. Ci consultammo con un esperto in cure mediche e Halakhah, che ci consigliò l’aborto, e poi con un rabbino che non aveva un’opinione specifica ma sostenne la nostra scelta. Furono i mesi più dolorosi della mia vita. La stessa operazione fu surreale e scriverne ancora adesso mi fa piangere. Baruch Hashem [grazie a Dio] ho due figli meravigliosi, ma allo stesso tempo ho anche avuto altri quattro aborti spontanei. Non rimpiango la decisione presa, ma ho continuamente pensieri del tipo “E se…?”. Mai avrei pensato di interrompere una gravidanza. Ma a volte Hashem ci dà delle prove che non ci aspettiamo, e quando capita dobbiamo affrontarle. Nel gruppo di sostegno che ho frequentato, c’erano almeno altre due donne ortodosse che avevano abortito e io ne conosco altre tre. È molto più comune di quanto si pensi.

 

“Fu l’inizio della fine del mio matrimonio”

Teaneck, New Jersey, 25 anni. Seconda gravidanza. 12 settimane.

Mio figlio aveva un’anomalia cromosomica. Fu surreale. Realizzare che le disgrazie possono capitare a chiunque fu uno shock. Fu anche l’inizio della fine del mio matrimonio, poiché mio marito non poté sostenermi come necessitavo, e ciò lasciò un marchio indelebile sulla nostra relazione. Solo perché fuori hai l’aria di star bene, non significa che interiormente tu non stia ancora combattendo con le conseguenze della tua scelta.

 

“So che era la cosa giusta”

Israele, 32 anni. Sesta gravidanza. 9 settimane.

La mia sesta gravidanza si era impiantata sulla cicatrice di un pregresso parto cesareo. A parte quello, il feto sembrava in buona salute, ma avrebbe strappato la cicatrice se avesse continuato a crescere, una situazione potenzialmente pericolosa per la mia vita. Non ci consultammo con autorità halakhiche, ci era ben chiaro quel che dovevamo fare. Presi il metotrexato per interrompere la gravidanza. Alcuni membri della mia famiglia cercarono di dissuadermi, di convincermi ad andare avanti perché i dottori magari si sbagliavano. Nemmeno dopo il loro intervento volli consultare un’autorità halakhica: il corpo è mio, decido io.

 

“Il rabbino scelse di non darci un parere halakhico perché potessimo decidere noi stessi”

Stati Uniti, 30 anni. Prima gravidanza. 23 settimane.

Il dottore individuò gravi problemi cardiaci durante l’ecografia della ventesima settimana, ed esami supplementari rivelarono altre malformazioni anatomiche che avrebbero significativamente inciso sulla vita del nostro bambino. Parlammo con il rabbino ortodosso della nostra comunità, che ci capì e scelse di non darci un parere halakhico, di modo che potessimo decidere noi stessi. Scegliemmo di interrompere la gravidanza. Lo dicemmo ai nostri genitori e alle mie sorelle e, in un secondo momento, a due amici non ortodossi.

Per chi non ci è passato, l’aborto è una faccenda teorica.

Nessuno pensa mai di doverlo affrontare personalmente.

Fino a che non succede.

 

“Il nostro rabbino fu fantastico. Sensibile, rispettoso non cercò mai di influenzarci”

Londra, Regno Unito, 32 anni. 14 settimane.

Mi ci era voluto più di un anno per riuscire a restare incinta. All’ecografia della dodicesima settimana, mi trovarono una piccola “ombra” sulla parete dell’utero. Era una doppia gravidanza: un feto sano da una parte dell’utero, e una gravidanza molare dall’altra. Nel migliore ospedale di Londra, ricevemmo una prognosi terribile: rischiavo di sviluppare il cancro a causa dell’anormale crescita cellulare. L’esame decisivo dimostrò che il bambino aveva meno del 30% di sopravvivenza se avessi deciso di portare avanti la gravidanza. C’erano alte probabilità di un parto prematuro e di doversi sottoporre a un’operazione, che se fatta prima di aver raggiunto un certo stadio della gravidanza rischiava di compromettere la mia futura fertilità. Ero devastata. Il rabbino ortodosso della nostra comunità ci fu di grande sostegno e fin dall’inizio disse che dovevo essere io a decidere e che la Halakhah legittima entrambe le scelte. Ci mandò anche da un dayan (giudice rabbinico). Il nostro rabbino fu fantastico. Si sedette con noi e ci parlò di un suo lutto personale che non aveva mai confessato a nessuno. Piangemmo insieme. Si dimostrò sensibile e rispettoso, e non fece alcun tentativo di influenzarci o di usarci per secondi fini. Sua moglie fu altrettanto piena di attenzioni, ci portava da mangiare a casa. Mi sottoposi a raschiamento. Due anni dopo, alla fine di una gravidanza ad alto rischio, diedi alla luce due gemelli sani. Mi guardo spesso indietro pensando al bambino sano che decisi di abortire. Mi fa ancora tristezza, benché sappia che probabilmente era la cosa giusta.

 

“Per chi non ci è passato, l’aborto è una faccenda teorica”

Stati Uniti, 35 anni. Terza gravidanza. Quasi 24 settimane.

Durante l’ecografia della ventesima settimana, il sonographer [tecnico di ecocardiografia] trovò tutta una serie di problemi. Fu uno strazio. Quel bambino era più che desiderato. Ma la prognosi era così infausta che sapevamo che lo aspettava una vita d’inferno, ammesso e non concesso che fosse riuscito a nascere. Sapevamo anche che portare avanti la gravidanza avrebbe avuto serie ripercussioni sulla nostra famiglia. Ne parlammo col nostro rabbino, il quale si consultò con un gadol [un rabbino più importante]. Non ricordo esattamente cosa disse, ma il messaggio di fondo era che data la prognosi, non solo l’aborto era halakhicamente permesso, ma anche doveroso. Passai attraverso una tempesta di emozioni: dolore, agonia, disperazione, ansia, accettazione, e poi di nuovo daccapo. L’attimo prima di iniziare l’operazione fu orribile. Sapere di dover stare lì sdraiata, con i dottori che ti fanno abortire mentre tu vorresti quel bambino con tutte le tue forze. Anche se è la decisione giusta, sfugge alla nostra comprensione. Quando l’operazione fu terminata, strinsi il mio bambino. Era senza vita, ma bellissimo. Non si capiva che cosa ci fosse di sbagliato in lui. Lo seppellimmo. La cosa più dura dopo di ciò fu l’aspetto emozionale. Afflizione e dolore. Riprendersi da una gravidanza e da un parto, ma senza bambino. Il latte che ti viene senza un bambino da nutrire. Evitare la stanza dove pensavi che avresti messo la sua culla. Per chi non ci è passato, l’aborto è una faccenda teorica. Nessuno pensa mai di doverlo affrontare personalmente. Fino a che non succede. È cosa buona e giusta avere una propria opinione sull’aborto, ma non si può davvero sapere di che cosa si sta parlando fino a che non lo si vive. La Halakhah è misericordiosa e dovremmo esserlo anche noi.

 

“Ero davvero disperata: stavo perdendo l’uomo che amavo, e non volevo avere un bambino senza un padre”

New York, 26 anni. Prima gravidanza. 8 settimane.

È difficile per me scriverne; anche dopo molti anni, è una storia sconclusionata e che mi fa male. Avevo perso la testa per lui. Era intelligente, bello, sul tipo tenebroso. Non ero vergine, ma essendo diventata più religiosa non avevo fatto sesso con nessuno nei cinque anni precedenti al nostro incontro. Ero la tipica modern orthodox, che osserva lo Shabbat, la Kasherut, e indossa solo gonne. Pensavo che presto ci saremmo sposati. Ma poi rimasi incinta. Fu irremovibile sul fatto che non dovessi tenere il bambino. Sentiva di avere appena cominciato a vivere e di non essere pronto a diventare padre. Io invece sentivo che interrompere la gravidanza era sbagliato: avevo un lavoro, degli amici e una famiglia a sostenermi, ero pronta. Eravamo in un vicolo cieco. Mi portò al consultorio “giusto per prendere informazioni”. C’erano solo adolescenti lì dentro. Feci un esame e mi parlarono della possibilità di assumere la pillola RU-486. Mi rifiutai. Lui allora pensò che un dottore diverso mi avrebbe fatto cambiare idea, così mi prenotò una visita da un ginecologo. Lo studio era pieno di donne incinte e foto del dottore in posa con bimbi sorridenti. Fu un incubo. Piansi per tutto il tempo nella sala d’aspetto. Mi sfogai con l’infermiera, che mi disse che non dovevo farlo per lui, che lei aveva cresciuto suo figlio da sola e che era la cosa migliore che avesse mai fatto. Disse che capiva che la nostra religione lo proibiva, e che dovevo restarle fedele, restare fedele a me stessa. Aggiunse che amava il suo lavoro, aiutare le donne che avevano bisogno di abortire, ma io non ero una di quelle. Sentii che aveva ragione. Pregavo febbrilmente in quel periodo; recitavo io più Tehillim [Salmi] di dieci nonne messe insieme. Dissi al mio ragazzo che avrei tenuto il bambino. Lui continuò a spingermi in direzione contraria. Mi disse che tra noi era finita, che non saremmo mai stati una famiglia e che il bambino non meritava un padre che non avrebbe mai potuto amarlo. A quel punto, ero davvero disperata: stavo perdendo l’uomo che amavo, e non volevo avere un bambino senza un padre. Per le cinque settimane successive parlai con una rebbetzin con la quale ero in confidenza. Cercò di aiutarmi, mi ripeteva continuamente che mi avrebbe sostenuto se avessi tenuto il bambino. Il mio ragazzo divenne sempre più spietato; mi disse che dovevamo sbarazzarcene subito, che non sarebbe stato un grosso affare, non era altro che “una sacca d‘acqua”. Alla fine, logorò la mia resistenza.

Il ginecologo disse che avrei dovuto sottopormi a una procedura di aspirazione. (Considerato il dolore che ho dovuto affrontare, sarebbe stato cento volte peggio se non avessi potuto fare affidamento su un buon sistema sanitario). Tremavo, e continuavo a pensare: “È troppo tardi per tornare indietro? Se mi fermo ora, il bambino starà bene? E ora?”. Mi diedero un colpo all’interno. E poi ci fu molta pressione e un forte ronzio come di sottovuoto…

Cercate di non giudicare le persone delle quali non conoscete la storia.

Ne conoscete eccome che ci sono passate, anche se pensate di no.

Non mangiai né bevvi per alcuni giorni. Non accesi una sola candela di Channukkah quell’anno. Ero devastata. Di proposito non mi ero rivolta a un rabbino. Sapevo che il mio ragazzo non si sarebbe curato di ciò che avrebbe detto, e io cercavo ragioni per tenere il bambino, non per terminare la gravidanza. Diversi mesi dopo l’operazione, un’amica mi portò da un rabbino ortodosso per vedere se avrebbe potuto farmi star meglio. Fu davvero imbarazzante. Ci sedemmo nel salotto di questo rabbino, circondate dai giocattoli dei suoi bambini, e io gli raccontai la mia storia, con gli occhi bassi e le lacrime che mi scorrevano sulle guance. Mi disse che ormai non poteva più darmi un parere decisorio, ma se avessimo dovuto considerare la faccenda in teoria, era prevista tolleranza in caso di “rodef: il feto avrebbe potuto attentare alla mia vita? Se sì, ero legittimata a ucciderlo. Il bambino avrebbe forse potuto diventare un rodef che avrebbe perseguitato il mio ragazzo? Può darsi, ma allora mi sarebbe stato permesso ucciderlo? Il rabbino non rispose, ma io ne sapevo a sufficienza per capire che in base a quel ragionamento, la risposta era no.

Mi ci volle un anno buono prima che fossi nuovamente pronta a frequentare qualcuno ed essere me stessa. Mi ci sono voluti anni per recuperare il mio iniziale livello di osservanza, ancora adesso chiedo agli altri di recitare per me i Tehillim piuttosto che farlo da sola. Non sono mai più stata la stessa. Nemmeno ora, che sono di nuovo una persona osservante e attiva. So che se non avessi preso quella decisione, oggi non avrei questa vita: non avrei incontrato il miglior marito del mondo e insieme non avremmo avuto i nostri magnifici bambini. La mia vita sarebbe diversa, probabilmente più dura, e il peggio è che sarei ancora legata al mio ex, con il quale ora naturalmente non ho contatti. Sono grata per come le cose vanno adesso, ma inutile girarci attorno: è difficile vivere con la consapevolezza che avrei potuto distruggermi in così tanti modi. Cercate di non giudicare le persone delle quali non conoscete la storia. Ne conoscete eccome che ci sono passate, anche se pensate di no.

 

“Non avevo altra scelta”

Stati Uniti. Seconda gravidanza. 31 settimane.

La gravidanza stava andando bene, ma alla trentunesima settimana sentii che il bambino si muoveva in modo strano. L’ecografia mostrò che il feto aveva le convulsioni e un’ampia emorragia cerebrale. Il bambino avrebbe riportato gravi danni al cervello, una prognosi orribile. Forse soffriva, o forse no, non lo so, non ci voglio pensare. Il neuropediatra ci consigliò di abortire. Ci rivolgemmo a un importante rabbino ortodosso, che si consultò sia con medici specializzati che con esperti di Halakhah, e ci diede il suo benestare. Mantenemmo un profilo basso, viviamo in una comunità ebraica conservatrice di periferia, eravamo preoccupati dei giudizi. Siccome eravamo oltre il termine massimo previsto dal nostro Stato, dovemmo andare in una clinica del Colorado. Una clinica minuscola con un dottore che non sapeva minimamente trattare i pazienti. Ci presentò un conto di oltre diecimila dollari; lo pagammo con l’American Express. Disse che di Ebrei osservanti ne aveva già visti; non eravamo i primi a entrare lì con una kippah. Mi portarono al piano interrato, a mio marito non fu permesso di starmi accanto durante l’operazione. Mi fecero un’iniezione e aspettai che il battito cardiaco cessasse. Tornai a casa per espellere il feto. Avvenne tre giorni dopo, con una stimolazione. Fu un sollievo. Il mio rabbino decise che non dovevamo vederlo né sapere se fosse maschio o femmina, e che non dovevamo essere coinvolti nella sepoltura.

Baruch Hashem, questo Rav ci fu meravigliosamente vicino per l’intero periodo, ci aiutò a capire questa esperienza attraverso la Halakhah. Trovammo grande conforto nel fatto che la Halakhah avesse una risposta, che potesse indicarci la via per affrontare la perdita. Prima di ciò io avevo sofferto di infertilità e avuto diversi aborti spontanei. Ma al ricovero in una clinica abortista non eravamo proprio preparati. Viaggiare al di fuori del proprio Stato, andare in una clinica con un dottore del quale non ci fidavamo, perché non avevamo alternativa, abortire nel sottoscala di un edificio che non era il nostro ospedale, senza il personale che conoscevamo, fu così difficile. Fu indecoroso. Per un’operazione di due secondi, perché me ne sono dovuta andare fino in Colorado? Dio non voglia, ma se capita, a chi ci dobbiamo rivolgere? Dove dobbiamo mandare le donne? Ancora un po’ e dobbiamo andare in Israele per riuscire a seguire la Halakhah…Israele riconosce questa possibilità, all’interno della Halakhah.

Quando l’alternativa non c’è, non c’è. Io volevo quella gravidanza. Siamo una famiglia osservante che segue la Halakhah (ho domandato a un rabbino il permesso di usare gli anticoncezionali). Per fare questa scelta siamo andati da un rabbino e sappiamo di aver ricevuto la risposta halakhicamente più appropriata. Il problema più grosso è stato il sistema legale americano, che ci ha reso difficile seguire la Halakhah. Se l’aborto diventa illegale, il nostro diritto religioso di ricorrervi quando necessario è a rischio.

Avital Chizhik-Goldschmidt
Giornalista presso The Forward

Avital Chizhik-Goldschmidt è responsabile per gli articoli d’inchiesta e approfondimento presso The Forward. Già corrispondente per Haaretz da New York, i suoi pezzi sono stati pubblicati dal New York Times, Salon e Tablet. Insegna giornalismo alla Yeshiva University’s Stern College for Women. Potete seguirla su Twitter o Instagram.


1 Commento:

  1. Ho il ricordo di queste solitudini tremende, quando all’ Alba della 194 , ho fatto per un periodo la volontaria in un Consultorio . Non erano ebree, isentimenti erano gli stessi , senza neanche il ” decisore” con il
    Quale parlare. Sono ancora oggi ricordi dolorosi.


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