Cultura
Hitler, colui che ha infranto le Tavole della Legge

La recensione del libro di Massimo Giuliani, “Le terze tavole. La Shoah alla luce del Sinai”

«Non si dovrebbe più scriverne» (p. 17). Così si apre il capitolo introduttivo del libro Le terze tavole. La Shoah alla luce del Sinai di Massimo Giuliani, capitolo che non ha titolo, o meglio che ha per titolo dieci puntini di sospensione racchiusi tra due virgolette caporali: «……….».
Ma esattamente, di cosa non si dovrebbe più scrivere? Della storia di quell’evento che è significato in vari nomi (Cfr. I nomi dello sterminio di Anna Vera Sullam Calimani, Marietti 1820) come per esempio Sterminio/Khurban/Olocausto/Shoah/Catastrofe-e-disastro/Genocidio/Auschwitz?
Della memoria di questo evento? No, in entrambi i casi il silenzio sarebbe colpevole, soprattutto in questi tempi di inaudito ritorno di voci aberranti nel discorso pubblico. Però oltre al pericolo del silenzio, c’è un altro pericolo: quello della retorica della memoria, della banalizzazione del discorso, che sembra non meno insidioso eppure è presente, nonostante e forse proprio a causa della sempre maggiore disponibilità di buoni libri di storiografia accademica, di divulgazione storica, di didattica, di memorialistica e diaristica, di narrativa più o meno avvertita storicamente, e soprattutto nonostante le buone pratiche pubbliche cerimoniali, ufficiali, giornalistiche (soprattutto in siti e testate web), scolastiche, insomma nonostante tutta la politica della memoria avviata, qui in Italia, a partire dalla legge n°211 del 20 luglio 2000. Eppure, non tacere, ripetere, ripetersi in qualche modo è un dovere.

«Mi si chiede invece di riscriverne – continua Giuliani – di ripetermi o solo di ripetere nomi e fatti, storie e interpretazioni, giudizi e sentenze che sono stati, anzi che sono ancora – almeno per poco – l’ethos di questo nostro Paese di quello che chiamiamo “il mondo occidentale”» (p. 18). Ma questo libro non è un libro di storia, e neppure in senso proprio un libro di filosofia rivolto all’accademia, piuttosto è un libro di pensiero rivolto a quello che kantianamente potremmo chiamare “il pubblico”. L’autore è professore universitario di pensiero ebraico, si è formato in Italia e in Israele, ha studiato “Pensiero di Israele” presso l’Università ebraica di Gerusalemme scrivendo una tesi di Ph.D dal titolo Theological Implications of the Shoah. Caesura and Continuum as Hermeneutic Paradigms of a Jewish Theodicy (AUS, New York 2002). Ha pubblicato un numero notevole di studi e di traduzioni, di cui ricordiamo, tra gli ultimi, La Giustizia seguirai. Etica ed Halakhà nel pensiero rabbinico (Giuntina 2016) e, insieme a Marco Bertagna, Il dizionarietto di ebraico (Morcelliana 2019).
Il presente libro rappresenta la terza parte di un trittico in italiano – con Auschwitz nel pensiero ebraico. Frammenti dalle «teologie dell’Olocausto» (Morcelliana 1998) e Cristianesimo e Shoah. Riflessioni teologiche (Morcelliana 2000) – specificamente rivolto al rapporto tra Shoah e implicazioni nel pensiero filosofico e teologico. Come sottolinea nella Prefazione Maria Cristina Bartolomei, «questo libro ha un duplice pregio: da un lato rende accessibile una grande quantità di studi specialistici (spesso non ancora tradotti in italiano) e di piste di ricerca nei quali si è modulato il pensiero ebraico intorno alla Shoah e, insieme (…) dall’altro lato, propone una precisa linea interpretativa, essenziale a guidare il lettore non solo a registrare posizioni di pensiero, ma anche a pensare con esse». Pensare la Shoah con la tradizione ebraica? Cesura e continuità? Sì, ma non solo. Qui si evoca anche il pensiero dell’umanità e la sua etica al cospetto dell’istanza di giustizia che è l’unica risposta ad Auschwitz, e che implica, nello stesso gesto, il ricordo del trauma del corpo dell’umanità nel corpo ebraico e la vicinanza al corpo ebraico vivente da parte del resto dell’umanità.

Soffermiamoci dapprima sul titolo: Le Terze tavole. Le Tavole sono le tavole del patto tra il Dio biblico e il popolo d’Israele. Esistono le prime tavole (Es 20) che sono state distrutte da Mosè a causa della frustrazione per un atto di idolatria del popolo ai piedi del monte Sinai (Es 32). Le seconde sono quelle che Mosè, risalito di nuovo sul Sinai e ridisceso, porta al popolo d’Israele (Es 34). Queste, già frutto di una prima cesura, di un primo trauma, costituiscono «un’etica universale idealmente rivolta a tutta l’umanità» (p. 155). Contengono infatti, le stesse dieci parole, «e in particolare quel lo’tirsah , ossia il “tu non ucciderai”, che è il primo della lista dei cinque comandamenti che regolano i rapporti tra gli esseri umani». Ora sono proprio queste tavole (le tavole della Legge) ad essere stati infrante con un atto di idolatria, un «peccato di hybris e di odio antiebraico di Hitler, dei suoi aguzzini e dei suoi complici». Si è trattato di un atto di idolatria commesso dai goijm, guidati da Hitler. Con i frammenti di esse l’umanità deve avere il coraggio di riscrivere , di rifare il patto, e chi detiene la chiave della fedeltà al suo posto? Proprio il popolo ebraico. Terze tavole che «sono immateriali, come immateriali sono le seconde, visibili e tangibili solo con la mente e il cuore nel racconto della Torah e nell’ascolto liturgico settimanale, sabato dopo sabato, in particolare quando si legge la Parashah Jitro». Questa parashah cade nello shabbat che porta il nome di Jitro, il sacerdote madianita, quindi non ebreo, che fu suocero e consigliere di Mosè. In tal modo la tradizione ebraica allude al fatto che quei comandamenti hanno un valore universale e sono rivolti anche ai non ebrei». Le terze tavole della Legge, continua Giuliani, «non sono dunque che una specie di midrash, un’icona pedagogica ricreata per cogliere il senso di un evento straordinario innestandolo sul tronco di una storia e di una memoria sacre ed emblematiche sia per il popolo ebraico sia per la cultura occidentale, cultura che ha tra le proprie radici identitarie tanto il pensiero greco romano quanto l’etica del “grande codice”… la Torah o insegnamento divino».

La meditazione sul rapporto tra pensiero ebraico e Shoah è scandita nel libro da un duplice movimento, di in-spirazione ed espirazione, di sistole e diastole, come il battito del cuore. E questo movimento corrisponde ai primi due capitoli del libro, rispettivamente La stella dell’irredenzione. Il Sinai alla luce della Shoah, e L’Alleanza ritrovata. La Shoah alla luce del Sinai. Il primo capitolo richiama per contrasto il titolo di uno dei maggiori libri di filosofia ebraica del Novecento, La stella della redenzione di Franz Rosenzweig (1921). Qui la stella della redenzione è Israele, il «portatore della figura della verità», «che non è altro che l’amore con cui Egli ci ama». (La stella della redenzione, tr. it. di G. Bonola, Vita e Pensiero 2008, p. 403)
Ora, è evidente che la Shoah non può più essere figura con cui Egli ci ama, e qui risiede lo scandalo per il credente, che è anzitutto il partner del patto. La Shoah, prima di essere per l’etica l’inespiabile/imperdonabile (Jankélévitch) e anche l’impunibile o imprescrittibile (Arendt), è per la teologia ebraica, afferma l’autore, l’irredimibile. «Dunque , ciò che con timore e tremore chiamo l’irredimibile altro non è che il limite stesso e la serietà della redenzione stessa» (p. 67). Ma propriamente qui Giuliani sta parlando della possibilità della redenzione (e del perdono) per i carnefici della Shoah, per i quali sussiste un limite da parte di Dio. Il problema è che sembra che la irredenzione affetti e s’irradi anche e soprattutto sulle vittime. E, sicuramente, anche sui terzi. Su Dio e sui bystanders (umani) della Shoah. Se la Stella di Rosenzweig irradiava redenzione, quella di Auschwitz irradia dunque irredenzione. Non c’è alcuna possibilità di soluzione razionale né di teodicea. Qui si apre solo il regno del silenzio, dell’udire in silenzio la testimonianza, del frammento di senso dell’interpretazione e, eventualmente (nella fede ebraica), della pratica della giustizia e della carità prima dell’ascolto («faremo e ascolteremo», Es 24,7).

Ma che ne è di Dio? Questo sarebbe il domandare filosofico della teodicea, però la prospettiva del pensiero ebraico, sembra avvertire Giuliani, non lo tematizza. Propriamente parlando, questo libro non è un testo di teodicea filosofica, alla Jonas ad esempio, ma sul pensiero ebraico a partire dal plesso Sinai-Shoah-fede ebraica.
L’autore percorre dunque una serie di figure di pensiero che si confrontano con tale intreccio, e lo fa dando una prospettiva interpretativa, quella del midrash. Si tratta cioè di rinunciare alla linearità dualistica del pensiero logico, e di ascoltare il conflitto delle interpretazioni ebraiche: «Dentro ogni testimonianza, dietro ogni frammento interpretativo e attraverso ogni voce ebraica che cerchi un senso nel dolore della storia sta veramente una “lingua di fuoco”, secondo un’immagine mistrashica antica, che rifrange il fuoco dell’esperienza d’Israele al Sinai e a quegli eventi biblici», e «ebraicamente la Shoah ha senso solo nella prospettiva del Sinai». Conflitto di interpretazioni, che, come dice Ricoeur, «“dà a pensare”: che cosa significa continuità nonostante il trauma di Auschwitz? Che cosa significa il silenzio di Dio nell’ora più buia della storia alla luce del fuoco del Sinai?».
In fondo, afferma Giuliani, tutte le risposte del pensiero ebraico alla Shoah sono midrashim: «Il midrash sulla Shoah costituisce l’estremo tentativo per salvare la fede nonostante l’evidenza dell’insanabile divario tra rivelazione e ir-redenzione».
Esistono due tipi di midrashim:
Quelli che rileggono testi antichi in una nuova prospettiva. Esempio il midrash riportato da Neher in riferimento al cantico di Mosè (Es 15,11) dove il distico del trionfo della provvidenza si trasforma nel suo opposto («non leggere mi-kamokah ba-‘elim, (“chi è come te tra gli dei”) ma leggi piuttosto: mi-kamokah ba-‘illemim – ossia “chi è come te tra i muti” –»).
Esistono poi quelli che sembrano scaturire ex novo dall’impatto della fede con una realtà inimmaginabile e potenzialmente distruttiva di quella fede stessa, cioè affermazioni di tipo nuovo a partire da un evento nuovo, che in questo caso è la Shoah. Si tratta di «affermazioni di tipo nuovo che predispongono a un inedito sguardo sulla fede ebraica o provocano il pensiero a misurarsi con i paradossi di un’identità ebraica che non può più restare quella di prima. Queste nuove immagini e queste nuove narrative hanno lo scopo di instillare una fedeltà più grande, perché ispirate a una cesura percepita come più profonda e a un trauma creduto più radicale». Esempi di questo secondo approccio sono rappresentati dalle posizioni di Emil Fackenheim (1916-2003) e di Elie Wiesel. Quest’ultimo racconta il midrash di un ebreo che irrompe in una sinagoga durante la preghiera pubblica e vuole zittirla per timore che Dio possa sentire accorgendosi che vi sono ebrei superstiti in Europa. Midrash costituito sulla base dello schema del rib, della tenzone o contesa giudiziaria tra l’uomo e Dio, che ha nella figura del Giobbe biblico il suo archetipo.
Emil Fackenheim avanza invece il midrash della cosiddetta 614a mitsvà, che comanda al popolo ebraico di «non dare una vittoria postuma a Hitler, ma vivere e ricordare».
Altre posizioni, in continuità o contrapposizione con Wiesel o Fackenheim, sono di seguito presentate da Giuliani, ad esempio quella di Michael Wyschorgrod, filosofo ebreo emigrato in Usa, che critica l’approccio midrashico perché «mettere Auschwitz al cuore del giudaismo, come il Sinai, è il più grave degli errori teologici»; infatti, per questi il messaggio fondamentale del giudaismo sarebbe l’affermazione che «il Dio d’Israele è un Dio che redime». La Shoah, secondo Wyschorgrod, come del resto anche altri, è un evento negativo della storia, evento certo estremo, un pogrom d’inaudita grandezza, ma non in grado di intaccare il cuore della fede ebraica, la rivelazione del Sinai; l’unico modo di parlarne quindi è «difendendo le ragioni del silenzio, ossia quel naturale pudore – interiore e comunicativo – con cui una tragedia come la Shoah andrebbe trattata».

Altri pensatori (rabbini, scrittori, filosofi) che hanno enfatizzato l’aspetto irredentivo della Shoah, pur cercando di «salvare la continuità con la tradizione includendovi la sua stessa rottura» sono Arthur Cohen e David Weiss Halivni.
Cohen nel suo Il Tremendum. Un’interpretazione teologica dell’Olocausto (1981) riprende il termine di Rudolf Otto per interpretare la Shoah, connotandolo di una valenza simbolica che «crea una provocazione dalla forte carica euristica»: la Shoah costituisce il tremendum, l’Anti-Sinai, e proprio per questo sarebbe quell’evento che dischiude simbolicamente la possibilità di pensare in modo nuovo l’abisso, il tehom, il caos primordiale pregno di anomica distruttività cosmica e umana, il cui ritorno è sempre possibile, di fronte alla quale Israele può cor-rispondere, e con esso le nazioni, con la pratica della giustizia pur nella memoria del male. «Nel suo narrare di Dio, del mondo e dell’uomo, la realtà ebraica deve riuscire a rendere conto del tremendum, deve sapere esporre il credo e la prassi del giudaismo in modo da renderli significativi anche in un universo che ha esperito il tremendum, coniugandolo anzi con la fede in un Dio che ha creato un universo dove è possibile tanta distruttività. Se uno dei due poli – il tremendum e la fede in Dio – cede, tutto collassa». (Cohen, il Tremendum, cit. p. 85).
Weiss Halivni, sopravvissuto ai campi di sterminio e poi rabbino e professore in Usa, nel suo Breaking the Tablets (2007), interpreta la Shoah come «“evento di rivelazione” messo in rapporto dialettico con la teofania del Sinai». Durante la Shoah «è come se Dio fosse rimasto, kivjakol [se così si può dire], senza potere dinanzi a quei terribili eventi». Durante quel tempo fu rivelata l’assenza di Dio, laddove al Sinai ne fu rivelata la presenza. Superando la vecchia categoria teologica della remunerazione per interpretare il male storico (nel caso della Shoah essa infatti si rivelerebbe blasfema), Weiss Halivni recupera la categoria qabbalistica dello tzimztum, che però non sarebbe avvenuto – come suggeriva da ultimo Hans Jonas – una volta per tutte, ma avviene sempre di nuovo, configurando un “vuoto di Dio” come unica condizione per il darsi dell’agire libero e responsabile del popolo ebraico, a partire da un rinnovamento ermeneutico nella lettura dei testi della sua tradizione. L’approccio di Weiss Halivni sfocia quindi in una teologia della responsabilità alla luce della duplice rivelazione.

Il secondo capitolo del libro di Giuliani, L’alleanza rinnovata, prosegue a partire da questa prospettiva la presentazione di alcune figure rilevanti del pensiero ebraico contemporaneo, testimoni e interpreti della Shoah alla luce del Sinai. Tra i testimoni – anche in senso di martiri – il capitolo precedente ricordava il rabbino Kalonymus Kalman Shapiro (1889-1943): «Se il mondo udisse la voce del Signore che piange , se così possiamo esprimerci, esploderebbe.… Ora è Israele annega nel sangue e il mondo continua a esistere». Qui ne sono evocati altri: Elchonon Wassermann (1874-1941): «Teniamo a mente che davvero siamo tra coloro che devono “santificare in Nome divino”. Andiamo a morire a testa alta…»; Etty Hillesum (1914-1943), che rivolgendosi a Dio nel suo Diario di domenica 12 luglio, scriveva: «Tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare Te, difendere fino all’ultimo la tua causa in noi»; Ysachar Shlomo Teichthtal (1885-1945), che interpretava le sofferenze che il popolo ebraico stava vivendo come «le doglie del parto del messia, il quale sembra tardare, ma questo ritardo è un invito agli ebrei a prendere l’iniziativa – a smettere di essere passivi – e a dare l’avvio a una redenzione non improvvisa ma graduale», che si traduce con il dovere di tornate in ‘eres jisra’el.

Tra le figure di pensatori e teologi, Giuliani ricorda poi Joseph B. Soloveitchick (1903-1993) il quale, distinguendo tra esistenza-destino (quella nella quale siamo vincolati per natura dalle circostanze esteriori) ed esistenza-missione (la nostra dimensione attiva-volitiva), vede nella missione di Israele di ritornare nella terra il complemento dell’accoglienza su di sé del giogo della Torah. Da una parte la Shoah sarebbe stata espressione dell’ hester panim (nascondimento del volto di Dio), inspiegabile dal punto di vista razionale nel suo “perché” – ma teologicamente interpretabile come «temporanea e parziale regressione del mondo al suo stato precedente la creazione, quando prevaleva il tohu wabohu» – d’altra parte il popolo ebraico ha potuto vedere nella stessa generazione il ritorno di Dio alla provvidenza attiva nell’istituzione dello Stato di Israele».
Eliezer Berkovits (1908-1992) utilizza i temi dello tzimztum, dell’ hester panim e del «servo sofferente» di Isaia (52,13 – 53,12) per interpretare la Shoah alla luce del Sinai, riconoscendo in tale evento un’ambivalenza o paradosso costitutivo, quello di tenere insieme tragedia e promessa, disperazione e speranza.
Nessun senso se non nella testimonianza etica, è quello che sembra emergere nella riflessione di un altro grande filosofo e talmudista al cospetto del trauma della Shoah, Emmanuel Levinas, che in un testo la chiama «passione delle passioni». Categoria, quella di passione o martirio – in ebraico kiddush haShem – da trattare con cautela, ricorda Giuliani: «è un terreno impervio, che merita approfondita trattazione ben oltre i confini di queste riflessioni». Proprio le suggestive pagine su Levinas, alle quali seguono quelle, non meno importanti, su colui che l’autore riconosce suo maestro, Paolo de Benedetti, costituiscono in qualche modo il centro etico-filosofico del libro. Non c’è nessuna possibile risposta razionale alla Shoah, sembra dirci l’autore, ogni teodicea fallisce, come già aveva visto Kant; è possibile solo rispondervi con la povertà di un senso frammentario, attraverso l’impegno proattivo della responsabilità: «come se il Signore di tutte le forze [Dio] dipendesse da un “nutrimento fornito dall’uomo”, nutrimento fatto di azioni conformi alla volontà [divina] espressa nella Torah» (Levinas, cit. p. 125).
La constatazione della frammentarietà del pensiero dinanzi all’assurdità del trauma storico, corrisponde d’altro canto alla consapevolezza della frammentarietà e dell’impotenza – kivjakol – di Dio stesso. Corrispondere al Suo pianto, «simile al tubare di una colomba che si nasconde nelle fenditure di una roccia» (Ct 2, 14, cit p. 122), attraverso la pratica della giustizia e della carità, significa, ci insegna Paolo de Benedetti, ripristinare l’unità di Dio, in base all’interpretazione del versetto del profeta Zaccaria (14, 9).
Un’altra ed importante figura, che conclude questo secondo capitolo, è quella di Irving Greenberg, che con i suoi due testi più importanti – Cloud of Smoke, Pillar of Fire: Judaism, Christianity, and Modernity after the Holocaust (1973) e Voluntary Covenant (1993) – parla di Auschwitz come di «evento rivelativo» (sia pure di una rivelazione ambigua e tremenda) dal quale si dischiude , come un’unica possibile risposta, una «alleanza in pezzi o alleanza tra pezzi», un broken Covenant, nella quale il popolo di Israele assume la senior Partnership nei confronti del suo Dio. Nell’ambito di questo patto ricostituito, prende anche rilievo la presenza dello Stato di Israele, e l’autore ricorda in numerose pagine le diverse posizioni di pensiero ebraico che annettono valore – di volta in volta iperpositivo, negativo, moderato – all’evento politico della sua nascita, nel rapporto vivente del popolo ebraico con se stesso e con le nazioni.

A dispetto del carattere saggistico in cui il volume di Giuliani si presenta, questa è un’opera di pensiero, e che «dà a pensare». Unico rilievo, forse critico, che mi sento di avanzare è che l’autore sembra non tenere intenzionalmente conto (in questo libro, almeno), all’interno della disamina delle varie posizioni ebraiche di fonte alla Shoah, di quelle che costituiscono una radicale rottura. Rottura dell’alleanza, rottura del discorso, rottura del pensiero, rottura della fede, e che invece a me sembrano ancora una risposta possibile: risposta umana, personale, volontaria, e talvolta ebraica – davanti alla Shoah.
Nella tradizione giapponese, esiste la pratica artistica del Kintsugi, consistente nel riparare con polvere d’oro le parti frantumate di un vaso o di un artefatto di terracotta. Come se la ferita, trasparendo evidente, rendesse ancora più vitale e saldo – nella sua finitudine e fragilità ontica – quel corpo che ha attraversato il trauma. Le terze tavole mi ha fatto pensare anche a questo. Eppure, forse, vi sono state esistenze che non poterono e non possono più «urlare al cielo» solo per «ricomporre l’infranto» (Benjamin). Vi sono fratture che non si ricompongono. Il poeta e martire Itzhak Katzenson nel Canto del popolo ebraico massacrato, scritto nel campo di transito di Drancy prima di essere trasportato ad Auschwitz, non ha urlato ai cieli – mentre «poco lontano aspetta[va] il treno» (P. Levi) – quel suo «andate via, andatevene via voi ci avete ingannato!», solo perché voleva, come afferma Giuliani «sollecitare gli insegnamenti e la fede tradizionali».
Esistono lacerazioni che non si ricuciono in nessuna nuova alleanza. Si può restare uomini, ebrei, se stessi, o diventare altri. Vivi e viventi, o sopravviventi – necessariamente da soli? Non so – oppure incapaci di continuare a vivere dopo aver talvolta anche teorizzato e praticato l’amidah (Améry, Bettelheim, e – purtroppo – anche lo stesso Primo Levi, tra gli altri).

Giuliani cita e commenta una intensa poesia di Dan Pagis. I nomi scritti in minuscolo non sono lasciati per accidente. Come dice André Neher, «Auschwitz è, prima di tutto silenzio», vi corrisponde solo silenzio. E interruzione:

qui, in questo trasporto
io eva
con mio figlio abele
se vedete il mio ragazzo più grande
caino, figlio di adamo,
ditegli che io

«……….»

Massimo Giuliani, Le terze tavole. La Shoah alla luce del Sinai, Prefazione di Maria Cristina Bartolomei, EDB, Bologna 2019.

Alessandro Paris
collaboratore

Dottore di ricerca in filosofia , cultore della materia studi ebraici Università di Trento e insegnante in un liceo


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