Cultura
“I Netanyahu”: il romanzo estremo dell’americano Joshua Cohen

Stati Uniti e Israele, il sionismo e la vita nei campus americani nella narrazione del Premio Pulitzer Narrativa 2022, che spinge la storia e il lettore oltre i confini della sopportazione, della logica e della satira

Come le cronache degli ultimi travagliati anni della politica israeliana hanno dimostrato, se esiste in Israele un nucleo familiare vagamente paragonabile a un “clan”, con i benefici e le amarezze che una simile definizione comporta, questa è senza dubbio la famiglia Netanyahu – Binyamin detto “Bibi”, la moglie Sarah e, non da ultimo il maggiore dei loro figli, Yair. Il nome dei Netanyahu è il protagonista anche di un singolare romanzo dello scrittore ebreo americano Joshua Cohen, I Netanyahu. Dove si narra un episodio minore e in fin dei conti trascurabile della storia di una famiglia illustre, insignito quest’anno del premio Pulitzer per la narrativa, e da poco uscito in Italia per la casa editrice torinese Codice – che ha pubblicato anche le opere precedenti dell’autore – nell’accurata traduzione di Claudia Durastanti. Nel romanzo Joshua Cohen si spinge però più indietro nel tempo, alla generazione precedente, quella dei genitori del Primo Ministro, Ben-Zion e Tzila e dei loro tre figli – oltre a Binyamin, Yonatan, meglio conosciuto come l’eroe di Entebbe, e Iddo. Ciò nonostante, è evidente che Joshua Cohen guardi al passato non con l’intento di riportare fedelmente uno spaccato di vita reale, ma di comprendere il presente, nello specifico i rapporti tra Israele e l’ebraismo statunitense, dei quali costruisce una colta allegoria.

Come ha riportato il Guardian, il romanzo di Cohen trae le proprie origini dall’ammirazione suscitata dai suoi primi lavori. Nel maggio 2018, infatti, Cohen ha ricevuto un’e-mail nientemeno che da Harold Bloom (1930-2019), acclamato critico letterario e professore di lunga data a Yale, il quale lo invitava nella sua casa di New Haven nel Connecticut. È stato durante questo incontro che Harold Bloom ha raccontato l’episodio al centro della trama.

Siamo nell’inverno del 1959, al Corbin College, nel cuore della sonnolenta periferia americana. Ben-Zion Netanyahu, docente di storia ebraica medievale – specializzato nello studio dell’Inquisizione spagnola – arriva nell’istituto universitario insieme all’irrequieta famiglia. Netanyahu sta cercando di ottenere un impiego nell’ateneo e mentre i membri del personale accademico valutano le sue capacità, il collega americano Ruben Blum (dietro il quale si nasconderebbe lo stesso Harold Bloom) viene incaricato di ospitare il candidato per la sua breve permanenza, con esiti che rasentano la comicità. Il motivo per cui la scelta delle autorità universitarie ricade su Blum è presto detto: studioso della storia della tassazione, egli è il solo ebreo dell’intero corpo docente.

Nel corso del romanzo apprendiamo, infatti, che Blum è un ebreo nato nel Bronx nel 1922, figlio di immigrati di Kiev, ma la sua ebraicità è scricchiolante, perennemente vissuta sul filo dell’assimilazione, così come quella della figlia, Judy, una liceale ansiosa di scrollarsi di dosso i presunti segni della propria appartenenza, anche ricorrendo alla chirurgia estetica. Fin qui niente di nuovo, potremmo dire: la sola opera di Philip Roth basterebbe a coprire ampiamente l’argomento. Il colpo di genio di Joshua Cohen risiede però nella capacità di creare un incontro tra questo ebreo americano e uno storico israeliano formatosi in seno al sionismo revisionista di Jabotinsky. Benché molto lontano dal mestiere di storico Blum si predispone a leggere l’opera di Netanyahu e non la comprende. Ritiene che abbia un carattere più fideistico che storiografico, ravvisando nel tempo una serie di cambiamenti provenienti dalla volontà divina. È però l’odio dei gentili nei confronti del popolo ebraico a generare la maggiore spinta verso l’evoluzione del mondo. “Netanyahu ha dimostrato una tendenza a politicizzare il passato ebraico, trasformando i suoi traumi in propaganda”, recita la lettera del professor Peretz Levavi dell’Università ebraica di Gerusalemme, un attacco ad personam in piena regola, benché dissimulato dall’aspetto di una lezione di storia. Si tratta di una definizione piuttosto comune dell’attitudine di molti sionisti revisionisti nei confronti della storia ebraica; tralasciando il fondatore Vladimir Jabotinsky, penso al principale interprete letterario di questa corrente, Uri Zvi Grinberg (1896-1981), come Netanyahu figlio della Polonia dei pogrom, che già nel 1923 nel poema In malkhes fun tseylem, (“Nel regno della croce”) tramite apocalittiche e inquietanti visioni di morte, annunciava la catastrofe che attendeva gli ebrei in Europa e indicava il Sionismo come unica possibilità di salvezza. Un Sionismo praticato a ogni costo, senza distinguere tra le ferite inferte dai criminali nazisti nella Diaspora e quelle perpetrate dagli arabi in Terra d’Israele. Nello stesso modo, secondo Ben-Zion Netanyahu ogni sofferenza che gli ebrei hanno attraversato nella storia – incluse le persecuzioni dell’Inquisizione spagnola – è riconducibile alla natura tragica del destino ebraico.

Per queste ragioni l’incontro con Netanyahu non può lasciare indifferente Ruben Blum, il quale è costretto a interrogarsi sulla propria identità e sulla natura dell’esperienza ebraica negli Stati Uniti. Lo stesso Cohen considera il romanzo “un libro sulla politica dei campus e sulla politica dell’identità”. Sebbene ambientato più di sessant’anni anni fa, Cohen ha affermato che la sua trama ha implicazioni notevoli per le complicate questioni che si verificano oggi nei campus, su argomenti come la diversità intellettuale, i valori liberali e la preoccupazione sugli spazi sicuri.
È difficile stabilire se il romanzo sia un’opera effettivamente riuscita o addirittura geniale, come sostengono alcuni. I risvolti più sottili della narrazione sono difficilmente comprensibili a chi non possieda con sicurezza i temi trattati. In ogni caso I Netanyahu rimane un’opera da leggere, che spinge il lettore, così come i suoi protagonisti, ai limiti estremi: della logica, dell’umana sopportazione, della satira.

Joshua Cohen, I Netanyahu, traduzione di Claudia Durastanti, Codice edizioni, pp.272, 20 euro

Sara Ferrari
Collaboratrice

Sara Ferrari insegna Lingua e Cultura Ebraica presso l’Università degli Studi di Milano ed ebraico biblico presso il Centro Culturale Protestante della stessa città. Si occupa di letteratura ebraica moderna e contemporanea, principalmente di poesia, con alcune incursioni in ambito cinematografico. Tra le sue pubblicazioni: Forte come la morte è l’amore. Tremila anni di poesia d’amore ebraica (Salomone Belforte Editore, 2007); La notte tace. La Shoah nella poesia ebraica (Salomone Belforte Editore, 2010), Poeti e poesie della Bibbia (Claudiana editrice, 2018). Ha tradotto e curato le edizioni italiane di Yehuda Amichai, Nel giardino pubblico (A Oriente!, 2008) e Uri Orlev, Poesie scritte a tredici anni a Bergen-Belsen (Editrice La Giuntina, 2013).

 


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.