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I nuovi volti dell’ebraismo americano

Alla scoperta delle comunità indipendenti, fenomeno di un ebraismo giovane che non accetta etichette

NEW YORK—Stando ai numeri, la comunità ebraica degli Stati Uniti è la più grande al mondo; si parla di circa sette milioni di ebrei. Ma parlare di ebraismo americano come di un monolite è una forzatura, date le mille sfaccettature, movimenti e identità che lo compongono.

Fino a pochi decenni fa, risultava forse più facile distinguere tra le tre correnti di ebraismo principali negli Stati Uniti, ovvero ebraismo riformato, conservative e ortodosso. All’interno di queste tre denominazioni, però, vi sono miriadi di sfumature, gruppi, organizzazioni differenti; esistono poi altri movimenti, come l’ebraismo ricostruzionista e quello renewal. Negli ultimi anni, con l’emergere di nuove comunità che non si identificano con alcun movimento e si definiscono «non-denominational», se non addirittura «post-denominational», risulta ancora più difficile compartimentare l’ebraismo americano.

Nasce così il fenomeno degli independent minyanim, gruppi di preghiera indipendenti, ovvero comunità pop up fondate dal basso, gestite per lo più da volontari, sintomo di un ebraismo giovane che non accetta etichette. Spesso non vengono create per carenza di sinagoghe, ma, al contrario, per il desiderio di alcuni ebrei di distaccarsi dai modelli istituzionalizzati e tradizionali di comunità.

Upper West Side

Il primo esemplare nasce forse in un piccolo appartamento sulla 110ima strada dell’Upper West Side, a Manhattan, nell’aprile del 2001, quando sessanta giovani ebrei si stipano in un bilocale per recitare insieme la preghiera mattutina dello shabbat. È questo l’esordio di Kehilat Hadar, un gruppo di preghiera egalitario e indipendente che oggi conta almeno 200 partecipanti e che si riunisce quasi ogni venerdì sera e sabato mattina all’interno di uno spazio affittato dalla scuola Solomon Schechter. Negli anni, Hadar è diventato una vera e propria comunità basata su tre valori, la preghiera, lo studio e il volontariato. Oggi, oltre a lezioni e teffillot, organizza cene di shabbat e un ritiro annuale nella natura durante la festa di Shavuot.

Nel suo libro Empowered Judaism: What Independent Minyanim Can Teach Us about Building Vibrant Jewish Communities, il rabbino Elie Kaunfer, uno dei tre fondatori di Hadar, definisce il concetto delle comunità indipendenti: sono gruppi di preghiera che si riuniscono regolarmente, spesso in spazi affittati per l’occasione, organizzati e gestiti da volontari, non affiliati ad alcuna denominazione o movimento religioso. Spesso vengono finanziati tramite donazioni piuttosto che da tasse annuali. Negli ultimi vent’anni ne sono emerse più di cento, tra New York, Washington D.C., Chicago, Los Angeles e San Francisco, in aree che attraggono giovani ebrei che, terminato il college, desiderano far parte di una comunità religiosa ma non si identificano nelle istituzioni più stagionate, che di solito attraggono famiglie e anziani.

Mission District

Una di queste comunità è il Mission Minyan, gruppo fondato nel 2003 nel Mission District di San Francisco, in California. Ogni sabato, una cinquantina di persone si riunisce in una stanza del Women’s Building, a due passi dal Dolores Park, per una tefillà pluralistica vagamente simile al modello «partnership» di Shira Hadasha a Gerusalemme.

Il Mission Minyan è egalitario, ma si pone la sfida di rispettare la halacha per quanto riguarda il ruolo delle donne nel rito della preghiera. I suoi fondatori hanno trovato un’interpretazione innovativa del termine minyan: se per gli ortodossi significa un gruppo di dieci uomini adulti e per i riformati un gruppo di dieci adulti (senza distinzione di genere), allora al Mission Minyan si raggiunge il minyan solo quando sono presenti dieci uomini adulti e dieci donne adulte.

«Abbiamo fondato questo minyan perché non vi erano altre sinagoghe nella zona», spiega David Henkin, professore di storia presso l’università di Berkeley. Nato come ritrovo di dieci amici in un appartamento privato, grazie al passaparola, ha attratto col tempo molti sconosciuti, desiderosi di far parte di una comunità ebraica in cui studio, preghiera e spiritualità ricoprono un ruolo centrale.

Nel 2005, il gruppo ha deciso di affittare uno spazio nel Women’s Building, un centro comunitario di quartiere, dove tenere preghiere, lezioni ed eventi; talvolta, il venerdì sera, vi si riuniscono 90 partecipanti, che per Yom Kippur diventano quasi 300. Per permettere a tutti di partecipare, gli organizzatori hanno trovato un compromesso che accoglie sia gli ortodossi più liberali che coloro che provengono da ambienti più progressisti. Vi sono tre sezioni diverse in cui i partecipanti possono prendere posto durante la preghiera: una per gli uomini, una per le donne ed una mista.

«Non vi è una struttura gerarchica», dice Henkin. La gestione dei diversi aspetti della vita comunitaria è affidata a gruppi di volontari. «Anche i giovani possono partecipare e ricoprire ruoli di leadership». La comunità è formata, tra gli altri, da professionisti della Silicon Valley, accademici e rabbini progressisti; le occasioni di studio e di confronto non mancano. La sfida? «Dipendiamo più dal volontariato e dalla manodopera dei partecipanti che dalle loro donazioni», dice Henkin.

La preghiera e lo studio sono i due elementi che legano i partecipanti. «Tipicamente, queste sono attività che dividono gli ebrei piuttosto che unirli. Ciò che lega altre comunità—il Sionismo, la politica, le raccolte fondi—non ricoprono un ruolo centrale nella nostra».

Washington Heights

All’estremità nord di Manhattan, a pochi passi dalla Yeshiva University—una delle più grandi istituzioni del mondo ebraico ortodosso modern negli USA—nel 2014 è spuntata una nuova sinagoga «pop up». Situata all’interno del basement di un palazzo residenziale, la Beis Community è nata più come un esperimento della Orthodox Union che come vera e propria comunità indipendente. L’idea era quella di creare un nuovo modello di sinagoga ortodossa modern che includesse giovani professionisti provenienti da background religiosi differenti. La sinagoga segue la prassi ortodossa, ma si è distinta subito per la sua apertura, in netto contrasto con altri ambienti ortodossi che adottano l’etichetta modern.

Forse proprio per via di questa «apertura», a un paio di anni dalla sua nascita, nel 2017, il Beis si è distaccato dalla Orthodox Union ed è diventato una comunità indipendente, finanziata dalle donazioni dei suoi partecipanti e gestita interamente dal basso. Tra la famosa musical havdalah, programmi di studio e di volontariato, lezioni sulla sessualità e sugli stereotipi di genere, il Beis certamente si distingue da una qualsiasi comunità ortodossa tradizionale.

«Il nome parla chiaro. Volevamo creare una casa», dice Nathaniel Moldoff, uno dei giovani leader comunitari. «Altre sinagoghe sono molto istituzionalizzate. Noi volevamo creare uno spazio dove i partecipanti fossero anche coloro che organizzano le attività. Volevamo fare più spazio per le donne, che spesso si sentono marginalizzate in altre comunità, ma anche per le persone LGBTQ, per i convertiti e per gli ebrei di colore. Uno spazio che fosse ortodosso, ma dove tutti si sentissero benvenuti».

Creare il Beis, continua Moldoff, ha permesso ai suoi leader di essere creativi e di inventare un concetto unico e nuovo, ispirato ad altre comunità sperimentali, come il Lab/Shul di New York e il Kitchen di San Francisco. Pur seguendo il rito ortodosso, il Beis non è formalmente affiliato al movimento ortodosso americano.

Nonostante le ovvie differenze, in ognuna di queste comunità vige lo stesso mantra: Be the change you want to see. Sii il cambiamento che vuoi vedere. Questo è il motore che permette a queste piccole comunità indipendenti di sopravvivere e crescere, grazie all’impegno di ogni singolo partecipante.

 

 

Simone Somekh
Collaboratore

Vive a New York, dove lavora come giornalista e scrittore. Insegna al Touro College di Manhattan. Ha collaborato con Associated Press, Tablet Magazine e Forward. Con il suo romanzo Grandangolo (ed. Giuntina), tradotto in francese, tedesco e in prossima uscita in russo, ha vinto il Premio Viareggio Opera Prima. 

@simonesomekh


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