Cultura
Il lato noir di Israele

Da letteratura di genere clandestina e riservata ai ragazzi a racconto letterario del paese. Con un autore da scoprire

Crimini, misteri e suspense appassionano i lettori di tutto il mondo. Da sempre. O, meglio, da quando Edgar Allan Poe ha inventato il personaggio di Auguste Dupin, detective-criminologo capostipite di una serie infinita di successori. Sebbene nessuno possa dubitare dell’eccellenza dell’arte di Poe, spesso la critica è stata restia ad accogliere nel canone letterario questa narrativa “di genere”, relegandola in una posizione di subalternità rispetto alla cosiddetta “letteratura ufficiale”. Ciò a maggior ragione è avvenuto in Israele, dove a lungo la letteratura è stata considerata innanzitutto uno strumento utile allo sforzo dell’ideologia sionista e alla promozione dei valori nazionali. Eppure, il noir e, più in generale, la letteratura di mistero erano presenti nello Stato ebraico ancor prima della sua fondazione, benché, nella maggior parte dei casi, in forma semi-clandestina. Inoltre, si trattava principalmente di pubblicazioni destinate ai ragazzi e scritte da autori non professionisti, come se agli adulti, i quali stavano costruendo la nazione con le loro mani, non fosse concesso di divagare da temi più seri, d’importanza collettiva e nazionale.

Se, però, osserviamo che il consolidamento della detective story in Europa è avvenuto di pari passo allo sviluppo dei centri urbani con tutte le inevitabili conseguenze del fenomeno, allora riusciamo a fornire a noi stessi un’ulteriore spiegazione di come anche questa letteratura di genere richiedesse un terreno fertile anche da un punto di vista sociale. Non solo: mancavano anche le traduzioni, principale fonte d’ispirazione in ogni ambito letterario. Ebbene i libri di Arthur Conan Doyle, Agatha Christie ecc. furono pubblicati in Israele all’inizio degli anni ’50.
L’esplosione del genere definito in ebraico sipur ha-balash (letteralmente “racconto del poliziotto”) risale agli anni ’80. Ovviamente la data non è casuale. A circa quarant’anni dalla sua istituzione, lo stato possedeva radici abbastanza profonde da affrontare la criminalità domestica e altre patologie sociali. Inoltre, ciò che fu chiaro dal principio è che gli autori di questi romanzi erano tutt’altro che dei dilettanti, capaci sin da subito di ampliare il genere espandendone i confini, in modo da riflettere nelle vicende narrate le tensioni sociali, politiche e demografiche del paese. Basterebbe citare i nomi di Ram Oren e soprattutto di Amnon Jackont, classe 1948, di origine belga, il quale ha reinventato tanto la spy-story, quanto, più recentemente, il giallo inteso in senso più tradizionale. Purtroppo nessuno dei suoi libri è stato tradotto in italiano.

Il caso di Jackont è emblematico. Se sugli scaffali delle librerie italiane troveremo sempre agevolmente l’ultimo romanzo di Eshkol Nevo o di David Grossman, per citare due big a caso, più difficile sarà reperire i testi di molti scrittori di crime-fiction. Anche se, come vedremo, ci sono alcune eccezioni.
Un altro aspetto rilevante è il ruolo delle scrittrici all’interno di questo genere letterario. Sono sufficienti due nomi: Batya Gur e Shulamit Lapid. Purtroppo Batya Gur è scomparsa prematuramente nel 2005, ma ci ha lasciato sei libri straordinari (usciti tra il 1988 e il 2004), il cui protagonista, il detective Michael Ohayon, è una figura di interesse notevole. Alcune sue caratteristiche lo inseriscono nella lunga tradizione d’investigatori che l’ha preceduto: tabagista, separato dalla moglie con una vita sentimentale molto travagliata. Altre, invece, sono del tutto peculiari. Ohayon, infatti, è anche un intellettuale raffinato, amante della letteratura e della musica classica, ma soprattutto è di origine marocchina, cosa che spesso lo identifica come un outsider all’interno della società israeliana. Batya Gur amava esplorare aspetti diversi della realtà israeliana, riuscendone a coglierne con occhio attento i singolari contrasti. Per questo tra i suoi libri ricordiamo in particolare Omicidio nel kibbutz e Un delitto letterario. Soprattutto quest’ultimo ha destato l’attenzione della critica israeliana perché ambientato nel dipartimento di letteratura ebraica dell’Università di Gerusalemme (e chiunque abbia mai frequentato un ambiente analogo sa quanto possano essere letali i rapporti tra gli accademici!).
Se la produzione letteraria di Batya Gur è completamente incentrata su Michael Ohayon, Shulamit Lapid mostra, invece, un percorso del tutto differente. La sua carriera di scrittrice di gialli, infatti, è stata successiva alla sua affermazione come autrice “ufficiale”. Tuttavia, nel 1989 Shulamit Lapid crea il personaggio di Lizzi Badihi, un’investigatrice destinata a essere la protagonista di ben sette romanzi, l’ultimo dei quali uscito quest’anno nello Stato ebraico. Numerosi sono gli aspetti degni d’attenzione. Prima di tutto Lizzi è una donna, la prima eroina di genere in Israele. Inoltre è nubile, ha superato la trentina e conduce una vita molto solitaria. Va notato che Lizzi non è una poliziotta, ma la giornalista di un settimanale di Beer-Sheva, dotata di un occhio eccezionale per i casi più difficoltosi che nessuno vuole risolvere. Anche l’ambientazione nel capoluogo del Negev non è scontata. Estrema periferia della nazione, spesso identificata come fulcro criminale del Paese, alla fine degli anni ’80 la città era per lo più ignorata dalla letteratura ufficiale. Shulamit Lapid ha avuto, tra gli altri, il grande merito di spostare i riflettori dal centro alle zone più disagiate (e spesso dimenticate), molto prima che Ayelet Gundar-Goshen raggiungesse i vertici delle classifiche di vendita con il suo Svegliare i leoni.

Considerando gli ultimi dieci anni di crime fiction in Israele, non possiamo prescindere dal nome di Dror Mishani. Quarantacinquenne di Holon, esordisce nel 2011 con Un caso di scomparsa (Guanda, traduzione italiana di Elena Loewenthal), nel quale compare per la prima volta l’ispettore Avraham “Avi” Avraham. Il suo nome, che assomiglia più a un antico richiamo biblico che a un nome reale, è il risultato dell’unione tra un padre iracheno e una madre ungherese, una mescolanza di provenienze profondamente simbolica in Israele. Ad Avraham Avraham Mishani affida spesso le sue considerazioni sul genere, rendendolo il portavoce perfetto dei suoi romanzi. “Israele” dice Avraham Avraham-Mishani “non produce romanzi simili a quelli di Agatha Christie o a La ragazza con il tatuaggio del drago, perché non abbiamo crimini simili. Non abbiamo serial killer; non abbiamo rapimenti; e non ci sono molti stupratori che attaccano le donne per strada”. O ancora: “Quando un crimine viene commesso di solito è il vicino, lo zio, il nonno e non c’è bisogno di un’indagine complessa per trovare il criminale e chiarire il mistero. Semplicemente non c’è mistero qui. La spiegazione è sempre la più semplice.” L’ultimo romanzo di Mishani, Tre (edizioni e/o, eccellente traduzione italiana di Alessandra Shomroni), pubblicato in Italia nel marzo di quest’anno, sembra rispondere a questa definizione, seppur ampliandone appena i confini. Tre donne, tre storie di solitudine e disagio, un solo assassino, ma non solo. Tre è anche una sola città e i suoi sobborghi: Tel Aviv, che si conferma capitale indiscussa del noir israeliano. Tre è un romanzo avvincente, straordinario, in grado di catturare anche chi non ama per niente il genere (come la sottoscritta). E ciò che appare ancora più importante è che la scrittura di Mishani non ha nulla da invidiare agli autori più acclamati. Al contrario: Mishani è forse lo scrittore più completo e convincente degli ultimi anni. Fedele a se stesso, ma capace di trasformarsi. Capace di un ebraico limpido e tagliente. Da non perdere ‒ sul serio.

 

Dror Mishani, Tre, edizioni e/o

pagg.256, 18 euro

Sara Ferrari
Collaboratrice

Sara Ferrari insegna Lingua e Cultura Ebraica presso l’Università degli Studi di Milano ed ebraico biblico presso il Centro Culturale Protestante della stessa città. Si occupa di letteratura ebraica moderna e contemporanea, principalmente di poesia, con alcune incursioni in ambito cinematografico. Tra le sue pubblicazioni: Forte come la morte è l’amore. Tremila anni di poesia d’amore ebraica (Salomone Belforte Editore, 2007); La notte tace. La Shoah nella poesia ebraica (Salomone Belforte Editore, 2010), Poeti e poesie della Bibbia (Claudiana editrice, 2018). Ha tradotto e curato le edizioni italiane di Yehuda Amichai, Nel giardino pubblico (A Oriente!, 2008) e Uri Orlev, Poesie scritte a tredici anni a Bergen-Belsen (Editrice La Giuntina, 2013).

 


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