Quella canzone rivoluzionaria che parla al femminile e sovverte l’ordine patriarcale, dovrebbe essere la lettura introduttiva alla Bibbia. Ecco perché
Roberto Benigni, ospite al Festival di Sanremo, dichiara di aver portato una canzone per il pubblico: “La canzone più bella che sia mai stata scritta nella storia dell’umanità”, spiega. Dunque, comincia a leggere il Cantico dei Cantici, un inno all’amore, ma, nella sua lettura, inclusivo e senza nessuna discriminazione. “Ci sono cose che fanno più paura della violenza e delle guerre: c’è l’amore, non solo quello fisico ma quello visto come frammento di infinito”, ha detto il comico. Così, vi riproponiamo questo bellissimo articolo di Romano Madera.
Il Cantico dei Cantici è un testo che mi piacerebbe venisse proposto come lettura introduttiva alla Bibbia. Un’idea strana. Dal punto di vista di chi ha studiato seriamente la Bibbia ebraica e la sua estensione cristiana, il Cantico è un testo difficile da collocare in una lettura “religiosa”: parla d’amore, d’amore che sembra proprio un amore, o diversi amori, un amore che non nomina, se non una volta, direttamente “L’Eterno”, il “Signore” o come vogliamo chiamare il Nome di chi è al di là di ogni nome. Le infinite ricerche sul testo ci dicono che comunque si tratta di un canto che segue un modello “profano”, insomma una canzone d’amore. Per questo vorrei che si incominciassse da lì. Perché da lì potremmo davvero, e dovremmo, incominciare per riaprire la strada allo spirito: dalle esperienze che ci prendono, che ci trascinano, che ci sconvolgono, quindi soprattutto dall’amore. E chiederci cosa c’è che ci attira e non ci basta mai e sembra alludere a una intensità, a una profondità di vita che è qui e che da qui ci chiama verso un là che non sappiamo raggiungere.
Perché vorrei che si incominciasse da qui? Perché ho sperimentato – sono cresciuto negli anni cinquanta e sessanta in una famiglia con una forte componenete cattolica, ai tempi della Chiesa preconciliare – l’esatto opposto: una educazione religiosa tutta tesa a un controllo occhiuto delle emozioni amorose che, inevitabilmente, naturalmente, nascono dalle pulsioni sessuali.
La trasformazione del modo di vivere la sessualità ha a che fare innanzitutto con una nuova fase del capitalismo, quella “globale” non solo in senso geografico, e quindi con una estensione, approfondimento, diversificazione dei consumi, del mercato, più largo e più differenziato possibile così che possa assorbire una produzione che riempie ogni interstizio dei bisogni che si possono eccitare. E la materia prima, l’energia fossile dell’eccitazione, è pur sempre il sesso. Per questo la pubblicità è una infinita variazione sul tema della seduzione erotica. Le diverse religioni sono state messe fuori tempo. Così oscillano tra un moderato permissivismo pratico e una stentata riproposizione della loro collezione di divieti.
La definizione dell’amore
Il Cantico, questo ospite straordinario dall’erotismo strabordante, messo al centro del messaggio biblico, deve aver avuto un autore – la datazione è incerta, balla tra decine e decine di anni, ma probabilmente cade negli anni sessanta a. C. con riferimenti tanto ebraici che greco ellenistici – capace di tessere allusioni che mettono in risonanza il genere letterario della poesia d’amore con i temi supremi della ricerca, sì, teologica, della relazione con Dio. La magnificazione dell’amore diventa canto dell’Amore, l’amore per eccellenza che nella sua forma elementare è già presente nell’esperienza dell’esistenza umana. E ne porta tutte le ansie, le speranze, i conflitti. Ma qui c’è un salto implicito, perché il testo procede insieme alla vicenda del cercarsi e del vuoto del desiderio che non si può conchiudere. Il suggerimento è una vertigine: se dell’Amore si parla, e l’Amore è un dio per i greci e per l’area mediterranea, un ebreo che parla dell’Amore sta suggerendo che questo Amore non è un dio fra gli altri e come gli altri, ma è il Dio unico, è l’aprossimazione migliore al Nome Impronunciabile.
L’interpretazione allegorica che vede nelle vicende degli amanti la filigrana della relazione tra la donna Israele ( e la nuova Israele che sarebbe la Chiesa, per i cristiani) e il suo Dio – intepretazione niente affatto disprezzabile, perché è un filo decisivo dell’intera Scrittura che la donna sia la comunità che cerca di seguire l’insegnamento della Torah – rischia di occludere, per un verso, la potenza della vita vissuta e lo slancio amoroso, ma per altro rivela che del compimento impossibile e infinito dell’Amore si tratta. E a questo Amore dà figura plurale, problematica, scandalosa: tre sono le figure dell’amata del Cantico, la sposa, la donna libera e la prostituta. E la prostituta sembra incarnare la perfezione dell’Amore. Qui dovremmo rileggere il libro del profeta Osea e la vicenda di desiderio: amore, prostituzione e ritorno a nuove e più alte nozze con Gomer, la moglie puttana dell’uomo di Dio: in Osea è evidente che il tema è quello della idolatria di Israele. Ma questa è la vicenda di ogni autentico cercatore del volto nascosto di Dio, cioè dell’irraggiungibile pienezza del desiderio infinito che ci spinge a esistere e a sperare e che sempre perdiamo di vista. Sedotti da qualche luccichio di quel lontano splendore, rimaniamo incantati dalle cose, vediamo nelle persone il nostro immaginario completamento. Tradiamo in mille modi la via che va verso quel che ci chiama come decisivo, come criterio e finalità delle nostre vicende biografiche e della storia comune. Perché l’idolatria fa parte dei fantasmi che l’amore si trova ad attraversare per trasfromarsi o per venirne distrutto.
Amore, sostantivo femminile, antipatriarcale
Anche in queste metafore traspare la lucidità del Cantico, inevitabilmente sospeso tra il retaggio patriarcale (fedeltà-prostituzione), e un’energia che sconfina da ogni parte e travolge le regole della sottomissione femminile. Perché il Cantico dà voce al protagonismo di un desiderio femminile non confinabile dentro le rassicurazioni della morale patriarcale. La donna assume le diverse forme delle possibilità della relazione, non riproduce la scala di valori che la assegnerebbe alla stabilità della ripetizione. E peraltro non possiamo dimenticare il più semplice dei dati: di nuovo, questa è letteratura ebraica, in ebraico l’amore è Ahavah, femminile. Se si dice poi che l’Amore è Dio, che Dio è Amore, si sta dicendo Dio al femminile. Un gigantesco controbilanciamento alle metafore maschili che alludono alla divinità. E ancora, questa divinità non predilige il bigottismo delle apparenze religiose. Al contrario. Sembra che il Dio d’Israele sia l’unico vero amante senza riserve della vita. Sembra fatto della vita stessa. E sceglie il suo cantore, predilige il poeta e il saggio che è frutto di adulterio e assassinio e tradimento, Salomone. Così l’astuzia della tradizione ha assegnato il posto dell’autore del Cantico a Salomone, figlio del peccato di Davide con Betsabea, per la quale Davide mandò a morire il suo fedele comandante Uria – peccato per il quale gli si attribuisce anche il salmo del Miserere, il senso inestinguibile dell’errore e della misericordia alla quale si anela. Dunque il Cantico dice nell’autore il senso di un cammino: da Davide, attraverso desiderio, assassinio, adulterio, conversione e misericordia, si genera la sapienza e la poesia di Salomone: e indica così, la finalità dell’amore per e della Shulammita, la donna – anche la comunità – dello Shalom, della vita intera nella pace. Non sarà questa la via di tutti, della comunità umana come avventura indivisa?
Libertà di amare, amarsi ed essere amati
Per questo è un inno profetico, utopistico se si intende l’utopia come il sempre non ancora dell’eutopia, del buon luogo che può guidare il cammino, dicendoci se stiamo costruendo bene la vita nostra insieme e dentro la storia degli umani e della terra che abitiamo.
Dunque vorrei che si ripartisse dal Cantico per non perdere il tesoro più vicino, la possibilità di rifiorire dalle radici antiche della nostra formazione: quali che possano esserne gli sviluppi e anche gli allontanamenti, essi saranno vivi o sterili, a seconda che sappiano o no rimanere in qualche modo comunicanti con le radici.
Certo tutto questo rappresenta anche, ma ridice infinitamente meglio, la minuscola storia personale, il ritorno alle fonti spirituali dell’ebraismo e del cristianesimo: mi sembra di aver rivisto, nei miei allontanamenti giovanili, i movimenti dei cercatori che tradiscono perché sono innamorati del sogno biblico e non lo trovano da nessuna parte. Ma perdersi fa parte del viaggio, e in realtà lo arricchisce, scopre nuovi territori e nuove prospettive che renderanno viva la parola antica.
Solo poche righe sulla questione infinita dell’ebraismo e del cristianesimo di fronte all’amore: ecco il Cantico propone perfettamente il fondamento ben piantato nella terra e nella storia, nel vivo dell’esperienza concreta, di una spiritualità che si voglia intera e non amputata della corporeità, dell’emozione, dell’affettività, della concretezza della vicenda umana. Questo è il fondamento ebraico al quale un cristiano – proprio meditando la sua storia – deve saper sempre tornare, reinnestando il suo ramo sul tronco originario. Si tratta di una conversione dello sguardo e di un cammino consapevole delle distorsioni del passato e del presente.
E poi, a cosa potrebbe servire oggi, in un tempo dove tutto sembra non solo possibile e lecito, leggere il Cantico? A farci riscoprire che il desiderio infinito, su cui si basa ogni spiritualità, è carne della nostra carne, nervo dei nostri nervi, è nascosto in ogni incontro e, tuttavia, spesso non incontriamo nessuno, tanto meno noi stessi, nelle nostre voglie di stordimento. Anzi, forse lo stordimento è proprio come fare un gran rumore per non sentire il sussurro del nostro incolmabile bisogno di essere amati e di amare, di esprimerci, riconoscere ed essere riconosciuti. Un’intuizione che suggerisce quale genere di amore stiamo cercando.
Chapeau!
Interessante modo di definire l’amore un po’ troppo basato sul senso di pratica sessuale