Joi in
Le radici di noi ebrei laici

Dialogo con Rosita Luzzati in occasione dei trent’anni di Shorashim

Quando eravamo piccoli il sabato andavamo a Shorashim. Si arrivava alle dieci di mattina, i primi anni nella storica sede di via San Gimignano e più avanti all’Umanitaria; ci si divideva per gruppi di età e con i propri madrichim si entrava in classe e si imparavano vicende bibliche e qualche parola di ebraico, si faceva merenda con i popcorn e la coca cola, si cantavano canzoni con il madrich Alex (Soria) che suonava la chitarra – cantavamo le canzoni delle feste ebraiche ma anche il gatto e la volpe di Bennato o Gam Gam – e infine si scendeva in cortile a giocare a pallone o a go-go-go. Ci accompagnavano e ci venivamo a riprendere, a turno, i miei genitori, i genitori dei Benveniste, degli Alazraki o dei miei cugini Beilin, tutti nomi che Rosita Luzzati ricorda bene.

Vado a farle visita una domenica pomeriggio di settembre, poco prima di Rosh Hashanà, per ascoltare la sua storia e quella di Shorashim, di cui quest’anno ricorre il trentesimo anniversario. Raggiunto il palazzo, salgo le scale di quella che mi pare essere la scala G (“come Guido, mio marito”, mi aveva precedentemente spiegato Rosita nelle sue istruzioni telefoniche) e sul pianerottolo suono il campanello della porta con la mezuzà, ma nessuno viene ad aprire. Dopo qualche minuto in cui inizio a dubitare di trovarmi al posto giusto e suono di nuovo invano, Rosita compare dietro le porte dell’ascensore: “Hai sbagliato!” mi dice senza rimprovero “Questa non è la scala G!”. La seguo allora e le spiego che mi ero lasciata ingannare dalla mezuzà sull’uscio.
Entriamo in casa e mi siedo sul divano sotto le stampe di Egon Schiele, di fronte alla padrona di casa. Chiacchieriamo, lei mi parla dei suoi nipoti, io le racconto di Israele, ci scambiamo qualche opinione sullo stato attuale delle cose e dopo un breve intermezzo in cui compare sua nipote Lea con una scatola di aringhe dell’Ikea (proprio come a casa nostra, è come se non avessimo mai lasciato la Russia!), inevitabilmente, arriviamo a parlare di radici.

Rosita è nata nel 1925 a Buenos Aires da genitori russi fuggiti da Ovruch, in seguito all’omicidio di suo nonno materno durante un pogrom. Scapparono di notte su un carretto che li portò in Polonia. Da lì, grazie anche agli aiuti finanziari degli zii americani (gli Stati Uniti però, si rifiutarono di concedere loro il visto), arrivarono in Argentina, dove con l’aiuto di un altro zio riuscirono a ottenere il visto. Non sapevano una parola di spagnolo e non avevano un lavoro, ma si arrangiarono vendendo colchas e carpetas, centrotavola e copriletto, “come quelli che oggi arrivano qui in Italia e vendono abiti in spiaggia”, mi dice, e “come il personaggio della famiglia Karnowski di Singer” (qui ricevo un rimprovero per non aver ancora letto il capolavoro dello scrittore polacco). Pian piano si stabilirono nel nuovo paese, trovarono un lavoro più stabile, comprarono casa e impararono lo spagnolo, mantenendo sempre però la cadenza e l’accento yiddish, lingua che continuarono a parlare tra di loro. “Hasta loigo”, dicevano, al posto di “hasta luego” ed era facile intuire le loro origini, per le quali poteva capitare che venissero nuovamente discriminati. “Russos de mierda”, li chiamavano i locali, e con “de mierda” intendevano sottolineare che erano ebrei, perchè i russi venivano chiamati semplicemente “Russos de russia”. A Rosh Hashanà andavano in Sinagoga, mentre Pesach si festeggiava a casa loro con una Haggadah tutta in ebraico, che è tutt’oggi a casa Luzzati. Erano una famiglia tradizionalista.

Rosita frequentò la scuola pubblica dove ottenne la medaglia all’onore come miglior allieva dell’istituto. Nel 1950, finito il corso di studi in ingegneria civile, lei e il suo neo-marito Guido, anche lui ebreo e anche lui ingegnere, arrivarono a Milano. Avevano venticinque anni, una laurea in tasca e un futuro davanti da costruire. Abitavano allora in una stanza di tre metri per tre, con uso di cucina e bagno senza acqua calda. Come i genitori, Rosita arrivò in un paese nuovo, ma pian piano lei e Guido si stabilirono in Italia, si integrarono e a loro volta ebbero dei figli, Sandro e Silvia. Guido e Rosita erano completamente laici, si sposarono senza chupà e avevano pochi rapporti con la comunità. Eppure non persero mai di vista le proprie radici.

Mandarono i figli alla scuola ebraica alle elementari ma in seguito li trasferirono alle scuole pubbliche, “così che vedessero il mondo”. Se con Sandro e Silvia non fu difficile portare avanti il DNA ebraico della famiglia, con i nipoti, tutti figli di matrimoni misti, le cose si fecero più complicate. Le istituzioni ebraiche erano diventate sempre più rigide e i bambini di madre non ebrea non potevano frequentare la scuola ebraica. In generale le dinamiche della comunità erano ben lontane dall’approccio universalista e laico della famiglia Luzzati. Fu per questo che dopo diverse ricerche sul campo a Parigi, Bruxelles e anche in Argentina e a seguito di vere e proprie battaglie, nel 1989 Rosita fondò Shorashim, associazione di educazione ebraica tradizionalista per bambini, di cui la mia famiglia fu tra i primi soci. Le critiche arrivarono fin da subito, a molti membri della comunità l’iniziativa risultava scomoda, in particolare perché le attività si svolgevano di sabato. “Non sopportavano che i bambini colorassero di sabato”, mi racconta Rosita.

Ma l’ingegner Luzzati, determinata e forte dei propri principi, non si lasciò intimidire e con Shorashim è riuscita a far sì che non solo i suoi nipoti, ma anche centinaia di bambini ebrei milanesi, abbiano mantenuto vivo un legame con le proprie radici ebraiche, creando un punto di riferimento per tutte le famiglie che non si sono mai riconosciute nell’approccio ortodosso ed esclusivista della comunità. Tutti noi che da bambini abbiamo frequentato Shorashim ci ricordiamo dei rimproveri severi della nonna Rosita: “bambini, silenzio!” ma sappiamo che è grazie a lei se oggi conosciamo la storia di Caino e Abele, del Golem di Praga e sappiamo perlomeno riconoscere le lettere ebraiche.

Prima di salutarci, Rosita mi chiede curiosa e serissima il menù della nostra cena di Rosh Hashana e mi racconta che come ogni anno, a casa loro sarà lei a cucinare per tutta la famiglia: blintzes, gefilte fish e chrein bianco e rosso. Tutte ricette che preparava uguali mia nonna Ruth. Dopo quest’ultima conferma che le tradizioni passano forti anche tramite le abitudini culinarie, saluto Guido e Rosita, fiera delle nostre radici laiche.

Bianca Ambrosio
Collaboratrice
Nata e cresciuta a Milano, dal 2009 al 2017 ha vissuto a Tel Aviv dove ha conseguito due lauree in ambito politico/sociologico, lavorato a progetti sociali e preso parte alle attività del partito Meretz.
Dal 2018 è di nuovo Milanese e lavora per il Teatro Franco Parenti.
Ha scritto di politica e società per diverse testate e ha qualche racconto ancora nel cassetto.

6 Commenti:

  1. Quando la CEM capirà l’enorme valore di Shorashim sarà sempre troppo tardi…
    Grazie Rosita per quanto hai fatto con coraggio e determinazione.

  2. Una grande e meritoria istituzione Shorashim, in seno ad una Comunità che per suo incisivo demerito, ha allontanato, creato problemi, discriminato, achi non ha la madre e ebrea, ed ha lasciato “fuori” molti Ebrei discriminati da Ebrei.


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