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Le risposte ebraiche al razzismo negli Stati Uniti

Giustizia sociale, dialogo e partecipazione. Un confronto a partire dalla disuguaglianza

NEW YORK — Il video dell’assassinio di George Floyd ha fatto il giro del mondo, scatenando proteste non solo negli Stati Uniti, ma perfino in Italia, Giappone e Nuova Zelanda. Quegli 8 minuti e 46 secondi, il tempo che Floyd è stato trattenuto a terra, immobilizzato e col ginocchio di un poliziotto pigiato sul suo collo, sono rappresentativi di un razzismo sistematico e di un uso della violenza, troppo spesso impunito, da parte della polizia americana.
«Black Lives Matter», il grido disperato dei manifestanti contro la police brutality negli Stati Uniti, è il nome di un movimento che esiste già da quasi sette anni; i primi di giugno, le tre parole sono state dipinte in caratteri cubitali sulla Sedicesima Strada a Washington D.C., a due passi dalla Casa Bianca. Donald J. Trump, finora, si è rifiutato di affrontare il tema del razzismo e della violenza da parte della polizia. Quando Yamiche Alcindor, corrispondente alla Casa Bianca per la PBS News, ha chiesto al presidente come intende affrontare il problema, lui si è messo l’indice sulle labbra, invitandola a stare in silenzio. Questo è ciò che fa infuriare i manifestanti: il dibattito viene soffocato nei lacrimogeni, nessuna soluzione in vista; solo tweet di «thoughts and prayers», un dito sulle labbra, silenzio.
Anche a New York, per giorni, le proteste hanno infiammato la città; nonostante diversi sgradevoli episodi di vandalismo, le manifestazioni sono state perlopiù pacifiche. Per quasi una settimana, il sindaco Bill De Blasio — criticato per aver difeso alcune aggressioni da parte della polizia contro manifestanti e giornalisti — ha imposto un coprifuoco; per notti intere, elicotteri della polizia hanno sorvolato la città, monitorando una situazione a dir poco esplosiva.
Sono moltissime le comunità e organizzazioni ebraiche che si sono espresse a favore delle manifestazioni pacifiche contro il razzismo.

La manifestazione davanti a «770»
Domenica 7 giugno, un gruppo di giovani del movimento chassidico Chabad Lubavitch ha organizzato, nel cuore di Crown Heights, una manifestazione di solidarietà nei confronti della comunità afroamericana e dei correligionari di colore. Hanno partecipato oltre un centinaio di persone, inclusi numerosi bambini, che hanno marciato passando di fronte a 770 Eastern Parkway, sede dei quartieri generali del movimento Chabad. Durante l’evento, sono intervenuti diversi personaggi politici locali, tra cui Jesse Hamilton, ex senatore statale.
Avraham Yosef Baez, 34enne newyorchese, è tra gli organizzatori. «Siamo un gruppo di amici ebrei ortodossi politicamente attivi» spiega. «Siamo molto consapevoli di ciò che sta avvenendo intorno a noi e abbiamo già partecipato ad altre manifestazioni in città. Abbiamo sentito che era nostro dovere, come parte di questa comunità, organizzare una manifestazione per i residenti di Crown Heights, alla quale potessero partecipare anche i bambini».
«Il nostro movimento chassidico è giunto negli Stati Uniti dalla Russia, fuggito da un regime oppressivo. Non possiamo dimenticare che una discriminazione nei confronti di qualsiasi persona è una discriminazione contro tutti», continua Baez. È facile, dice, in una comunità come questa rimanere isolati e distanziati da ciò che avviene fuori. «In qualità di ebreo ortodosso, credo fermamente nei valori della pace, della giustizia e della serenità per tutti i popoli. Il Rebbe diceva: un po’ di luce può dissipare la più grande oscurità. Gli atti di gentilezza possono cambiare il mondo; io sono ottimista».

Rav Isaiah Rothstein | Courtesy of Isaiah Rothstein

Rav Rothstein: Affrontiamo la conversazione sulla diseguaglianza coi nostri cari
Isaiah Rothstein è un rabbino ortodosso che si occupa di equità razziale nella comunità ebraica. Nato e cresciuto a Monsey, New York, ha studiato alla Yeshiva University e vive a Harlem con sua moglie. In un’intervista telefonica con Joi Magazine, dice: «Tengo dentro di me voci diverse, quelle dei miei antenati fuggiti dai pogrom russi e quelle dei miei antenati afroamericani. I miei antenati, da entrambe le parti, hanno conosciuto il dolore dell’essere oppressi e alienati. Ogni singolo giorno, provo a trovare la mia voce».
La giustizia è un valore molto importante nell’ebraismo, spiega Rav Rothstein; la settima legge di Noè impone l’istituzione di «tribunali giusti». «Esodo 22:21 recita: “Non maltratterai lo straniero e non lo opprimerai; perché anche voi foste stranieri in terra d’Egitto”. L’intera prospettiva ebraica è fondata sul riconoscimento dei diritti umani, dell’ecosistema sociale e della nostra responsabilità di mantenere la giustizia».
«Proprio oggi ho tenuto una lezione sul tema della Shemittà (anno sabbatico) e del Yovèl (giubileo). Nell’ebraismo, il sette è il numero dell’equità; queste regole ci ricordano che Dio è l’unica forza che ha diritto ad avere il controllo su tutto. Anche lo Shabbat ha la funzione di ricordarci che il nostro lavoro è subordinato ad un’entità più alta, la spiritualità».
Queste ultime settimane, dice Rothstein, non sono state facili; in questo momento ogni americano è chiamato a scendere in campo per la giustizia razziale. «La “promessa americana” è cominciata con “Tutti gli uomini sono creati uguali”, trascurando moltissimi individui». Con i successivi provvedimenti legislativi, c’è stato un progresso, ma la strada da percorrere è ancora lunga.
Cosa si può fare per affrontare le piaghe del razzismo e dell’ingiustizia?
Rav Rothstein delinea tre punti principali: «Innanzitutto, ciascuno di noi deve decidere di unirsi alla conversazione; ma non per finta, o si è dentro o si è fuori. Dobbiamo accettare che la disuguaglianza razziale è una questione di diritti umani. Unirsi alla conversazione significa affrontarla coi propri cari, inclusi i bambini».
«Poi, consiglio di sostenere la National Association for the Advancement of Colored People (NAACP). E infine, interroghiamoci sul tema del potere e del privilegio: non si tratta di rinunciare al proprio potere, ma di condividerlo. Chiediamoci: come posso usare la mia voce, la mia piattaforma, per dar voce all’altro?».
Rav Rothstein è ottimista: «Mi pare che stiamo vivendo una nuova era dei diritti civili», dice. «Dobbiamo affrontarla con umiltà, se vogliamo davvero che il mondo cambi».

Simone Somekh
Collaboratore

Vive a New York, dove lavora come giornalista e scrittore. Insegna al Touro College di Manhattan. Ha collaborato con Associated Press, Tablet Magazine e Forward. Con il suo romanzo Grandangolo (ed. Giuntina), tradotto in francese, tedesco e in prossima uscita in russo, ha vinto il Premio Viareggio Opera Prima. 

@simonesomekh


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