Cultura
Legge e morale, un dialogo tra valori ed emozioni

Dal caso SeaWatch a Caino: considrazioni sul concetto di Giustizia e la sua applicazione

Su La Stampa del 29 giungo scorso, a commento del caso Sea Watch, Domenico Quirico – solidale con il destino di chi sulla nave si trovava e piuttosto critico rispetto alle scelte della capitana (Carola Rackete) – giudicava la “compassione” e le “reazioni di natura animale” come ormai inefficaci di fronte al fenomeno dei flussi migratori. Per affrontare tali aspetti vi sarebbe piuttosto bisogno di “giuristi attenti e implacabili”, capaci di individuare il nucleo normativo e politico del problema, ossia la mancata attuazione del diritto (diritto del mare, internazionale, e costituzionale). Ciò che serve, concludeva Quirico, è applicare la “Legge più alta, che è diritto positivo e non vuota retorica”, dove con questo termine il lettore veniva rimandato a proposizioni – con cui l’articolo chiudeva – echeggianti quelle della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti: “tutti gli uomini hanno diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità”. L’implacabile giurista sembra presentarsi su un’altra testata, Il Manifesto del 5 luglio. Qui Luigi Ferrajoli, uno dei più importanti filosofi del diritto italiani contemporanei, da una parte esprime un giudizio sull’operato di Rackete molto differente da quello di Quirico; dall’altra, analogamente a questi, fa riferimento alle tre declinazioni giuridiche sopra richiamate per ricordarci che il problema è costituito dalla mancata applicazione delle leggi, e dei principi ivi ricorrenti, da parte delle istituzioni. Il punto soggiacente è il grado di conflitto tra i doveri enunciati negli ambiti del diritto del mare, internazionale e costituzionale rispetto a quelli via via formulati da leggi e disposizioni volute da una data maggioranza parlamentare. Un conflitto già in atto e che non potrà perdurare nel tempo.

Alla ricerca della giustizia

Il punto è teorico e politico. Teorico, in quanto in tale conflitto tra norme di diversa provenienza si fronteggia il diritto inteso come dimensione costituita da principi inderogabili e il diritto pensato come forma vuota, riempibile dei contenuti voluti da questa o quella maggioranza. Politico, poiché in tale distinzione si pone il problema dell’erosione dell’eredità costituzionale postbellica, ossia di quella concezione che conscia dei pericoli di un potere politico (anche democraticamente eletto) assoluto, ha posto a questo precisi limiti. Su questo sfondo è possibile distinguere – volendo così intervenire sul dibattito, circa la denominazione di Rackete quale contemporanea Antigone – due o tre scenari. Da una parte il diritto in quanto tale, nell’eterogeneità che si è tratteggiata, si presenta come campo dove l’applicazione della legge è anche e allo stesso tempo applicazione dei principi di giustizia in questa eventualmente (come nel caso della nostra Costituzione) contenuti. Un aspetto che interessa anzitutto chi, per professione, si occupa di applicare la legge ma che riguarda anche le parti in causa che possono argomentare a favore delle loro istanze rifacendosi a principi già contenuti nel diritto vigente. In questo scenario la ricerca della giustizia avviene attraverso la legge e in nome della legge. Dall’altra parte può avere luogo la contrapposizione, in virtù di un determinato ideale di giustizia, a una o più norme in vigoreè il caso evocato attraverso il riferimento ad Antigone o, come fatto da Anna Segre su moked.it, alla figlia di faraone. Ma su quali basi si sorregge questa contrapposizione? È possibile distinguere diverse forme. Qualcuno potrà contrapporsi al diritto vigente in nome delle cosiddette ‘abitudini dei padri’, ossia del diritto consuetudinario del luogo e gruppo di appartenenza. Altri potranno rifiutare la legittimità di un intero sistema giuridico in nome di ciò che è – sul piano della definizione ideale – il diritto: così Gustav Radrbruch definì il sistema giuridico nazista unrecht, non diritto, in quanto non rispettava il principio di eguaglianza tra gli uomini. Vi è, poi, la possibilità che chi si renda autore di una contrapposizione a una legge data (o a un intero sistema giuridico) lo faccia mosso proprio da quelle “passioni” e “reazioni di natura animale” cui si faceva riferimento con Quirico. Forse per empatia, come diceva questi. Forse perché la sofferenza di qualcuno che ci è di fronte si presenta a noi quale ordine, ancorché vorremmo sfuggirne – “Sono forse il guardiano di mio fratello”? protestava Caino di fronte al Signore.

Emozioni, valori e leggi

La distinzione tra la contrapposizione a una data legge ingiusta in nome della Legge (che sia la Dichiarazione di Indipendenza, la Costituzione o un principio evocato a partire dalla Torah) rispetto alla contrapposizione alla stessa in nome della ragione o, ancora, della pura emotività sembra netta. Tuttavia esistono punti di contatto. Tra ambito giuridico ed emozioni, come in diverse occasioni ha indagato la filosofa del diritto Lucia Corso. Tra ordini consegnati dalla Torah e principi che la attraversano: “Se non ci fosse stata data la Torah avremmo imparato la modestia dal gatto…” – così inizia Rabbi Yohanan, ripreso dal filosofo israeliano Moshe Halbertal (1997, p. 24) come un esempio di riconoscimento, da parte della Tradizione, di doveri morali non dipendenti, per la loro esistenza, dall’esperienza della rivelazione. Legge, emozioni, valori sono elementi distinti. E, in quanto tali, in possibile rapporto.

Cosimo Nicolini Coen
collaboratore

Cosimo Nicolini Coen ha studiato alla Statale di Milano, dove si è laureato in Ermeneutica filosofica e Filosofia del diritto, e all’Università Jean Moulin III, a Lione;  attualmente è dottorando a Bar Ilan. Ha pubblicato il libro Il segno è l’uomo per Durango Edizioni.

 


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