Israele
Quella volta che ho incontrato le capo-vergini del martirio

L’intervista a cinque donne suicide, “kamikaze” che non hanno portato a termine la loro missione e sono state arrestate. L’incontro con loro è avvenuto nel 2005 nelle carceri israeliane

Cinquantacinque anni che vivo in Israele. Cinquantacinque anni di gioie e di dolori, di guerre e intifade, ma anche cinquantacinque anni in cui ho visto crescere e svilupparsi un paese che amo moltissimo, dal quale non posso immaginarmi di vivere troppo a lungo lontana, malgrado tutto. In cui vivono i miei figli e i miei nipoti, in cui è sepolto un altro figlio, morto in un’altra guerra, 25 anni fa. Si chiamava Yehonatan , Yoni, e finché è vissuto ha saputo darci solo gioia.
Conosco bene il suono delle sirene, già sapevo che la nostra casa di Tel Aviv non è dotata di rifugio e che bisogna correre e arrivare al posteggio sotterraneo dei vicini entro un minuto e mezzo. Avevo già protestato in passato contro Netanyahu e di nuovo per 39 settimane fino alla vigilia della guerra. Già sapevo che non c’era nulla di buono da aspettarsi dal capo del nostro governo. Che il processo a suo carico lo terrorizzava al punto che per sfuggirne avrebbe perfino potuto sacrificare la democrazia del paese.

Eppure non ero preparata. Ciò che è successo cinquanta giorni fa è stato come un elettro shock che mi ha lasciato in stato di trauma, incapace di capire, solo di provare dolore, o meglio, vero e proprio terrore, a chiedermi come potesse esistere al mondo tanto odio e perché. Scoprire cosa succede quando l’odio si esprime nella realtà è stato sconvolgente, inaspettato, imprevisto.
Alla ricerca di una risposta sono tornata indietro nel tempo e mi sono tuffata nella mia personale rassegna stampa. Quell’odio ricordavo di averlo già incontrato. E ho trovato un mio articolo che avevo scritto per il settimanale Vanity Fair, era il numero 5 del 2005.  Lo ripubblichiamo qui di seguito (courtesy Vanity Fair Italia).

Gennaio 2005.
Due delle intervistate, Kahira Saadi e Chamor Theoraia, furono liberate nell’ottobre 2011 durante lo scambio per la liberazione di Gilad Shalit.
Non ho cercato di sapere che fine abbiano fatto. Ormai saranno di mezz’età.

Le capo-vergini del martirio
“Doveva essere ben profondo quel pozzo (…) giù giù giù (…) il centro della terra non dovrebbe essere tanto lontano (…) e se attraversassi tutta la terra? arriverei dalla parte opposta (…)”. (Da “Alice nel Paese delle meraviglie”)

Una mattina di metà gennaio, era appena tornato il sole, mi sono trovata catapultata al centro della terra, nel mondo alla rovescia, dalla parte opposta, nel “sancta sanctorum”, la prigione israeliana che custodisce le “suicide”, le donne martiri palestinesi, le “kamikaze” vive. Sono qui, e vive, perché hanno cambiato idea all’ultimo momento o sono state arrestate o non ci sono riuscite. Vivono da allora a poca distanza dalle più belle ville israeliane, nel cuore della zona più fertile d’Israele, il Sharon, nell’omonima prigione. Sono custodite dentro una sorta di labirinto, dietro sette, forse otto tra porte di ferro e cancelli, al di là di lunghi corridoi a cui pochi hanno il permesso di accedere, e ai quali si arriva scendendo e risalendo scale e contro scale.
A ogni porta che si chiudeva, quella mattina di metà gennaio, a ogni giro di serratura, la interprete che avevo accanto si girava verso di me con occhi sempre più spaventati.
B. la guardia non armata (“da noi non usa portare armi”), una giovane donna bionda dall’aria tranquilla, descrive così le sue “ragazze”:
«Sono trenta, tra i 17 e i trent’anni, sposate e nubili, con figli e senza. Le loro sono storie da mille e una notte. Alcune di loro hanno riscattato in questo modo un padre/fratello/marito/amante collaborazionista, altre sono sfuggite così alla morte per delitto d’onore, per altre ancora, psicologicamente fragili, è stato un bel modo di suicidarsi diventando, contemporaneamente, eroine della patria. Quasi tutte provengono da famiglie di livello socio- economico basso.
Per me però sono solo normali ragazze, non voglio sapere che cosa hanno fatto, né giudicarle o tanto meno odiarle, perché non riuscirei più a prendermi cura di loro».

Come sono organizzate?
«
Molto bene, con tanto di elezioni democratiche (durante le quali le ci furono feroci risse, raccontarono allora i media n.d.r.); hanno persino scelto due capigruppo che fanno anche da portavoci, una per Hamas e la Jihad, una per Al Fatah e i martiri di Al Aqsa (i due gruppi non vanno d’accordo). Le due cape scelgono anche chi – e se, quando e come – verrà intervistata, e io non assisterò all’intervista.
Lei può chiedere e scrivere tutto quello che vuole. Adesso esco, ma solo per cinque minuti, per portare uno dei loro bambini dal pediatra.
Questa è la cucina dove si fanno da mangiare, questa è la lavatrice, potete fotografare ovunque tranne che nelle celle per una questione di privacy… se ha bisogno di me, mi chiami pure».

Non ne ho avuto bisogno.
Per convincerle mi ero portata due Vanity Fair con copertine maschili (le donne senza velo, pensavo, non sarebbero state particolarmente gradite). Richard Gere è stato subito riconosciuto (Mentana, mi dispiace, no) e gli incontri sono stati autorizzati molto rapidamente. Gere è poi sparito misteriosamente in una delle celle, da cui non è più riapparso.
Con le intervistate – che, di due che erano in programma, sono diventate, cinque ore dopo, otto – mi sono incontrata nella saletta del direttore, senza alcuna guardia visibile, e poi fuori, nel cortile interno accanto alle celle. L’atmosfera era tranquilla, senza drammi.
A casa, la sera, sono crollata.
E queste sono alcune delle loro storie.

Gruppo A: Hamas-Jihad

Ayat Allah (miracolo di Dio) Kamil, di Kabatya, 20 anni.
Baid Yaam, Campo profughi “Ballata”, 26 anni.
Haula Hashash, 19 anni, di Nablus e Raida Jadana,

Ayat:
«Sono nata a Kabatya, ma ho vissuto tutta la mia infanzia in Arabia Saudita. La vita in Saudia era magnifica per una donna, lì sì che si vive nello spirito dell’Islam, li sì che la donna viene trattata come la più preziosa delle pietre. Poi, dopo un anno in Giordania, sono tornata in Palestina, con i miei otto fratelli e sorelle».

Come sei diventata martire?
«Per la mia religione. Sono molto religiosa».

Ma il Corano non parla di donne shaid (martire).
«Per la guerra santa (Jihad) non c’è differenza tra uomini e donne».

Secondo il Corano il martire maschio verrà accolto in paradiso da settantadue splendide vergine, e la martire femmina?
«La martire femmina sarà la responsabile, la direttrice, l’ufficiale delle 72 vergini, la più bella delle belle».

E come e quando ti è venuta l’idea di immolarti per la patria e diventare la capo-vergine?
«Ho chiesto a Dio misericordioso, di aiutarmi, e lui mi ha mandato l’idea di fare ufficiale richiesta alla persona giusta, la mia richiesta è stata accettata e mi sono arruolata».

E quindi, se ci fossi riuscita, avresti potuto uccidermi…
«Avrei preferito uccidere soldati, non civili, non mi sarei mai fatta esplodere apposta tra malati, in un asilo o in un gruppo di anziani».

Ma io non sono malata né vecchia né bambina, e poi quando esplode la bomba non guarda tanto per il sottile, avresti potuto uccidermi facilmente…
«Pazienza. Vuol dire che era il tuo destino, o quello del fotografo o dell’interprete che sono con te, dipende… io non posso cambiare il destino…».

Come molti altri, israeliani e palestinesi, sono anni che lavoro per un futuro migliore, anche vostro. Io faccio il possibile per aiutarvi, per aiutarti, mi uccideresti ugualmente?
«Il destino è destino, non guarda a quello che fai o sei…».

Qui s’intromette la amica Yaam, fazzoletto nero, occhi di fuoco:
«Anche l’esercito israeliano non distingue tra uomini e donne, vecchi e bambini, noi non abbiamo un esercito organizzato, non ho nulla contro di te personalmente, ma la guerra è così, e ogni palestinese, uomo o donna, è un soldato».

Avete sogni per il futuro? E che sogni?
Ayat:
«Che il mondo diventi islamico, un mondo in cui vivremo tutti in pace gioia e armonia, tra esseri umani, animali, fiori, piante e pietre. L’Islam porterà la pace persino tra i vegetali e gli animali , l’erba e i sassi …. E tu potrai rimanere ebrea, quello che vuoi, non importa, ma in un mondo islamico».

E come passano, nel frattempo, aspettando il perfetto mondo islamico, le vostre giornate?
Yaam:
«Ci alziamo alle cinque e preghiamo cinque volte al giorno: la preghiera della mattina, di mezza-mattina, di mezzogiorno, di metà-pomeriggio e sera. Tra una preghiera e l’altra leggiamo versetti del Corano; e poi abbiamo i nostri digiuni, non tutti importanti come il Ramadam, ma pur sempre digiuni. Oggi, per esempio, siamo a digiuno, che tra l’altro fa anche molto molto bene alla salute. Nel tempo libero studiamo ebraico e anche russo da una ragazza russa che si è convertita all’Islam.

Ayat:
«L’importante è fare sempre qualcosa, non stare senza far nulla, essere sempre attive».

È proprio quello che mi preoccupa. Sono contenta di avervi incontrate qui e non per la strada.
Le due sorridono:
«È il destino».

E non riesco proprio ad accettare che con quel viso angelico e quegli occhi innocenti siate capaci di esplodere in mille pezzi e uccidermi…
Yaam:
«Se ti avessi incontrata per la strada e ti avessi vista ferita o bisognosa di aiuto ti avrei aiutata. Anche con le guardie, qui, siamo in ottimi rapporti, ma fuori è un’altra storia, è un campo di battaglia. Nulla di personale, ripeto. E la risposta è la conversione all’Islam».

C’è chi crede la stessa cosa della Bibbia, del Vangelo, di Budda…
Ayat:
«Si sbagliano».

Haula:
«Sono figlia del mio popolo e, fino a quando ci sgozzerete, noi dovremo reagire. Questo è il nostro paese, non il vostro, è tutta lì la differenza» dichiara.

Raida (l’unica con il capo scoperto) :
“«o in verità non ho fatto niente. E se avessi saputo come andava a finire non avrei fatto neanche quel niente che ho fatto. E adesso mi sono pentita. No, non è la prigione che mi ha cambiata. Sono cambiata io, da sola. E poi ho tanto nostalgia della mia mamma. Sono la più giovane della mia famiglia e malgrado abbia 22 anni, adoro dormire raggomitolata nel suo grembo. Mi manca tanto. Quando mi hanno arrestata ero proprio nel suo letto, accanto a lei… non vedo l’ora di tornarci, di tornare a dormire lì nel lettone con lei.
Prima, io facevo l’estetista, e a dir la verità ho anche orrore del sangue».

Qualcosa di grosso deve aver pur fatto anche lei per essere qui , mi dicevo poco convinta, mentre mi avviavo verso il secondo gruppo, quello delle meno religiose, le Fattah.

Gruppo B: Al Fatah, Martiri Al Aqsa

Kahira Saadi e Chamor Teoraia

Nel cortile del secondo gruppo mi aspettava Kahira Saadi, una delle celebrità locali.
Kahira, velo grigio, occhi tristissimi, ha ventisette anni ed è già madre di quattro figli.
È la responsabile di un attentato in cui sono morte quattro persone e ne sono rimaste ferite ottanta. Tra i morti, Zipi Shemesh, incinta di cinque mesi, e suo marito Gad. Erano andati a fare una seduta di ultrasound, e avevano lasciato a casa, con la baby sitter, le loro due bambine : Shoval, sette anni, e Shahar, tre. I visi delle due bellissime bimbe bionde, così piccole e così disperate, li ho ritrovati in un’antica pagina d’archivio in internet.
Kahira è stata condannata a tre ergastoli e altri ottant’ anni.

Kahira, dimmi la verità, i morti non ti perseguitano la notte?
«No, e poi l’attentatore si sarebbe fatto esplodere anche senza di me, io, fisicamente non ho ucciso nessuno».

Quanti anni hanno i tuoi figli?
«Sei, otto, undici e dodici anni».

E con chi vivono adesso?
«Con mia suocera, anche mio marito è in prigione».

Non sei pentita di aver rovinato, oltre alla tua, la loro vita?
«L’ho fatto per difenderli. Non sono pentita, siamo in guerra. Però, forse non lo rifarei. È stato un impulso» mi ha risposto Kahira con aria truce.

Perché mi odi?, le ho chiesto in quel momento , spaventata da quegli occhi e da quello sguardo.
«Ma io non ti odio . Ma tu, invece, tu mi odi?»

No. Neanch’io.
«Eppure dovresti… perché?»

Credo che la vera ragione di quello che hai fatto sia diversa da quella ufficiale.
«E hai ragione, anche se le ragioni non te le dirò».

E poi penso che tu stia pagando abbondantemente. Chi viene qui a trovarti?
«Per i primi due anni non è venuto nessuno, adesso stanno cominciando a venire i miei figli».

Hai avuto il coraggio di dirgli che da qui non uscirai mai?
«No, e confido che Dio in qualche modo risolva il mio problema; io, ripeto, non ho ucciso fisicamente nessuno, quel giorno».

Che cosa hai fatto?
«Ho aiutato l’attentatore ad entrare a Gerusalemme, gli ho dato dei fiori da tenere in mano».

Quando?
«Non mi ricordo la data esatta , mi ricordo solo che era il giorno della festa della mamma, per quello gli avevo preparato i fiori».

Allora era febbraio, era lamed b’shvat “secondo il calendario ebraico”.
«Come fai a ricordartelo così bene?».

Perchè mio figlio è stato ucciso di lamed b’shvat , il giorno della festa della mamma.
L’ho vista impallidire, quasi barcollare.
No , non sei stata tu, era il 1998, ho aggiunto, e mio figlio era soldato, era in Libano; il tuo attentato è stato nel 2002. Di certo, però, abbiamo un anniversario in comune.
Khaira mi ha guardato con uno sguardo che non riuscirò mai a descrivere e non ha aggiunto una parola. Anche il lnguaggio umano ha i suoi limiti.

Chamor Theoraia
L’ultima intervista, alla giovane donna che nella mia memoria è rimasta impressa come “la suorina” per la sua aria dimessa e il suo modo di portare il fazzoletto come il velo delle suore di una volta (tutta una questione di moda, mi ha spiegato lei), è stata per me anche la più difficile.
Credo che mi abbia colpito e spaventato soprattutto il contrasto tra il suo viso da bambina, tutto un sorriso, con le fossette e le guance paffute , e le sue convinzioni, totali, estreme, crudeli. Mentre la intervistavo, Khaira, in piedi, accanto a lei, ascoltava e ogni tanto mostrava segnali di disapprovazione. Poi di tanto in tanto si allontanava per tornare con un bambino in braccio, un’amica, un’altra “martire” o aspirante martire da intervistare.
Chamor Theoraia, crede con assoluta convinzione che tutti gli ebrei israeliani debbano tornare ai Paesi da cui sono arrivati. «Tu in Italia, tu in Germania, tu in Marocco!», punta il dito su di me (Italia), sul fotografo (Germania) e sull’interprete (Marocco).

E che fare di chi viene dall’Iran , dalla Siria, dal Libano, dalla Libia, Paesi che di certo non accetterebbero noi ebrei indietro?
«Quelli che vadano in America! Anzi, meglio che ci andiate tutti, in America», risponde senza alcun dubbio.
Poi aggiunge che lei non crede in alcuna probabilità di accordo tra i due popoli, che gli ebrei sono tutti traditori, che va bene fare la pace, ma perché a sue spese? E che riprendersi la terra rubata dai sionisti è molto più importante della vita dei suddetti o della sua stessa. E che, purtroppo, l’hanno presa prima che potesse esplodere, però…

Poco importa che avessi letto la sua storia vera, quella per la quale era stata processata (niente di particolarmente patriottico, si era data al martirio per una storia di amore contrastato dalla famiglia e poi all’ultimo momento, quando era già pronta , vestita con la cintura esplosiva con l’aggiunta di 35 chili di chiodi, ha cambiato idea ed è stata arrestata), a quel punto non ce l’ho fatta più.

Ho spiegato alle ragazze che mi attendevano per chiacchierare (compresa la madre del bambino appena tornata dal pediatra) che ero stanca e che “sarà per la prossima volta”. Alcune mi sono sembrate persino deluse. Poi ho promesso di spedire l’intervista a una delle martiri e mi sono segnata con cura il suo numero di cellulare al campo profughi (tra pochi mesi sarà libera).
Il mio non gliel’ho dato; non mi sembrava il caso, viste le circostanze. Sono ottimista, ma non pazza.

Fuori, mai ho tanto goduto l’improvvisa pioggia come quel giorno, e più tardi, a casa, il mio letto dove ho dormito, quella notte di metà gennaio, per ben 14 ore di fila, senza un sogno.

Manuela Dviri
collaboratrice

Nasce a Padova nel gennaio del 1949, ma vive in Israele dal 1968.
Inizia i suoi studi universitari in Israele e si laurea all’Università Bar-Ilan in letteratura comparata già madre dei primi due figli, Eyal (nato nel 69) e Michal (nel ’72). Jonathan, il terzo figlio, nasce nel 77, ma il 26 febbraio 1998 cade in combattimento durante uno scontro con gli Hezbollah in Libano. Era in servizio militare di leva. Da allora Manuela Dviri si dedica ad attività per la pace, inizialmente chiedendo il ritiro dell’esercito israeliano dal territorio libanese. Quella campagna verrà poi ricordata con il nome delle “Quattro Madri” e viene coronata dal successo.

Giornalista, scrive per tre testate israeliane, “Maariv”, “Yediot Aharonot” e “Haaretz” e per diverse italiane come  Corriere Della sera,  Vanity Fair, la Gazzetta dello Sport, Oggi , Il Fatto Quotidiano. Come scrittrice ha pubblicato tra gli altri un libro di racconti in ebraico dal titolo “Beizà shel shokolad” (L’uovo di cioccolata) e un testo per il teatro, “Terra di latte e miele”,  in scena nel 2003 con Ottavia Piccolo e Enzo Curcuru, per la regia di Silvano Piccardi. È Stata insignita di vari premi per la pace e giornalistici tra cui il Premio “Peace and Reconciliation Award” del Centro Peres per la Pace, e il Premio Viareggio Repaci Internazionale.

La sua attività per la pace comprende moltissime iniziative di collaborazione attiva e continua con i palestinesi, nella convinzione che i due popoli potranno salvarsi e sopravvivere solo se lo faranno insieme. Tra i progetti, molto importante è  “Saving Children”, nato nel novembre 2003 con l’obiettivo di curare bambini palestinesi negli ospedali israeliani.con la collaborazione del Centro Peres per la Pace, organizzazioni mediche israeliane e palestinesi, pediatri israeliani e palestinesi, e grazie a un consistente aiuto finanziario italiano (proveniente in gran parte da varie regioni) e attualmente riesce a occuparsi di più di 13000 bambini palestinesi, in diversi ospedali israeliani.

È fiera nonna di sette nipoti e vive con suo marito, Avraham, a Tel Aviv, poco lontano dal mare.


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