Ritratto dello scrittore che ha affrontato la tragedia della Shoah quando era giovanissimo. E che l’ha raccontata al mondo non con lo sguardo di un adulto che rielabora le proprie vicende, ma con con la sensibilità di un bambino
Si è spento un mese fa nella sua casa di Gerusalemme Uri Orlev, acclamato scrittore israeliano di libri per ragazzi, amatissimo, a dire il vero, da lettori di ogni età. Nato come Jerzy Henryk (Jurek) Orłowski nel 1931, a Varsavia, in una famiglia di ebrei assimilati – da piccolo, ha raccontato, non sapeva nemmeno di essere ebreo, tant’è vero che la bambinaia era solita portarlo in chiesa per insegnargli a pregare – l’autore ha affrontato da ragazzino le esperienze più tragiche della Shoah: l’allontanamento del padre, catturato sul fronte russo, il ghetto, l’omicidio della madre, le fughe, la deportazione. Come numerosi altri bambini privati dei genitori, dopo la guerra Orlev è giunto in Israele insieme al fratello, è stato adottato da un kibbutz e ha iniziato un’esistenza nuova nello Stato ebraico. Ha potuto riabbracciare il padre, sopravvissuto anch’egli al conflitto, soltanto nel 1954.
Orlev ha inaugurato la propria felicissima carriera letteraria nel 1956 con il romanzo, parzialmente autobiografico, Chayalei oferet (Soldatini di piombo, Rizzoli 2010), incentrato sulle esperienze vissute col fratello durante gli anni delle persecuzioni. Soldatini di piombo è stata, tuttavia, solo la prima di un lungo elenco di opere narrative, tra cui ricordiamo ancora Chayat ha-choshekh (La bestia d’ombra, Salani 2008), Ha-yi bi-rchov ha-tziporim (L’isola in via degli uccelli, nuova edizione Salani 2017), dal quale il regista danese Søren Kragh-Jacobsen ha tratto il film omonimo, Mischak ha-chol (Gioco di sabbia, Salani 2013) e Rutz, yeled, rutz (Corri, ragazzo, corri, Salani 2014).
Accanto ai testi narrativi, che costituiscono la maggior parte della produzione di Orlev, nel 2005 presso la casa editrice dell’Istituto Yad Vashem di Gerusalemme è uscito Shirim mi-Bergen-Belsen 1944, (in italiano: Poesie scritte a tredici anni a Bergen-Belsen, 1944, Ed. La Giuntina, Firenze 2013, a cura di chi scrive) un volume bilingue che raccoglie quindici liriche scritte in polacco dal giovane Jurek/Uri durante la prigionia nel campo tedesco e la loro traduzione ebraica, a cura dello stesso autore. È un’opera esile ma preziosa, una testimonianza rara di scrittura dentro le fabbriche dello sterminio nazista, le cui pagine includono anche le immagini del taccuino originale usato dall’autore per annotare i testi, un documento unico e di rara bellezza. Questi e altri volumi hanno reso Uri Orlev uno degli scrittori israeliani più apprezzati e tradotti nel mondo, l’unico, sinora, a essere stato insignito dell’importante premio Hans Christian Andersen per la letteratura per l’infanzia, nel 1996.
Se alcuni dettagli della storia personale di Orlev sono stati condivisi da molti, del tutto straordinaria è, invece, la sua prospettiva sulle atrocità vissute durante gli anni dalla Shoah. Il suo, infatti, non è lo sguardo di un adulto che ricompone, ricostruisce e rielabora le proprie vicende, bensì quello di un bambino. Così Orlev ha scelto di affrontare il fardello della memoria, “Non sono capace di pensarci o di scrivere su questo argomento o di raccontare ciò che è successo dal punto di vista di un adulto. È un trauma che non sono pronto ad affrontare. Per me è co-me camminare su una sottile lastra di ghiaccio. Se il ghiaccio dovesse rompersi, non sono sicuro che sarei capace di tornare indietro”. Sebbene sia costretto a vivere esperienze tremende, impossibili da dimenticare, il “bambino Orlev” riesce comunque a costruire un ricco mondo interiore, in cui trovano spazio lo stupore, la speranza nel futuro e la gioia di vivere tipici dell’infanzia. È lo sguardo esterrefatto e un poco divertito del bimbo del ghetto che, davanti a un uomo spinto dalla fame a rubargli il panino, inghiottendolo senza nemmeno scartarlo, non può fare a meno di domandarsi come questi sia riuscito a mandar giù anche lo spago.
Gli stessi occhi vividi, sempre accesi sui dettagli più minuti del reale Uri Orlev li possedeva anche nella vita. Ricordo con grande nostalgia il breve tour di presentazione delle Poesie scritte a tredici anni che abbiamo condotto insieme nel 2013 in alcune città del Nord Italia. Uri Orlev amava incontrare il pubblico, soprattutto i ragazzi delle scuole, cui si raccontava con sincerità, condividendo gli aneddoti più significativi e divertenti della sua gioventù. Come a Piacenza, quando davanti a un’aula gremita di liceali e di autorità, a uno studente che gli chiedeva come si fosse adattato a una lingua nuova in Israele, Orlev rispose gaio che per lui l’ebraico puzzava di cipolla.
Di fronte allo sconcerto del suo interlocutore Orlev spiegò che nel kibbutz di Ginegar, dove aveva vissuto durante i suoi primi anni di permanenza in Israele, quella che era la morah di ebraico aveva anche l’incarico di raccogliere le cipolle nei campi: “le lezioni si tenevano subito dopo il lavoro diurno e spesso non c’era il tempo di lavarsi, così la donna arrivava portandosi ancora addosso l’odore forte delle cipolle in mezzo alle quali era stata tutto il giorno”.
Tuttavia, l’immagine di Uri Orlev che più amo ricordare, perché rappresenta per me l’essenza del suo spirito di eterno fanciullo, è legata alla presentazione milanese. Eravamo nella splendida Sala Napoleonica a Palazzo Greppi, a due passi dall’università. L’evento volgeva al termine e una giornalista dal piglio sussiegoso, seduta in prima fila, stava formulando quella che verosimilmente sarebbe stata l’ultima domanda della serata. Una domanda seria, importante – l’ennesima, in verità – sul tema della memoria. Non fu per disinteresse, né di sicuro per scortesia, ma mentre la donna parlava, Orlev si accorse di colpo che i meravigliosi stucchi neoclassici della Sala Napoleonica si specchiavano nel grande tavolo di vetro di fronte a noi, creando un mirabile gioco di immagini, reso ancor più emozionante dalla luce crepuscolare. Sporse adagio il busto sul tavolo e rimase così per diversi secondi, incantato. Poi si girò verso di me, mi toccò il braccio e mi chiese, “Rait? Hai visto?” “Sì” gli risposi con un sorriso “ho visto”, nel frattempo la giornalista si era interrotta, senza capire, forse pensando che fossimo impazziti tutti quanti: non era così. “Kama yofi” mi disse raddrizzandosi “quanta bellezza”. Quanta bellezza ha saputo cogliere nel mondo Uri Orlev, quanta ha saputo infonderne.