Cultura
Shlomo e gli altri: la comunità etiope in rivolta

Riflessione sugli ultimi accadimenti di emarginazione della comunità etiope

Damas Pakada, Yosef Salamsa, Yehuda Biadga, Solomon (Shlomo) Tekah. Che cos’hanno in comune le persone che rispondono a questi nomi? Risposta semplice: sono tutti cittadini israeliani di origine etiope. Non basta: sono tutti cittadini israeliani di origine etiope che hanno subito trattamenti “discutibili” da parte delle forze dell’ordine negli ultimi cinque anni, in una preoccupante escalation di violenza. Damas Pakada, l’unico dei quattro a essere ancora in vita, è stato vittima di un brutto pestaggio nel 2015, mentre conduceva la propria bicicletta nella città di Holon. A nulla gli è valso indossare in quel momento la divisa dell’esercito israeliano, del quale è un brillante soldato. Dopo aver esaminato il video dell’aggressione a Pakada, lo stesso Binyamin Netanyahu, si è detto sbigottito per tanta gratuita brutalità. Yosef Salamsa si è suicidato a Binyamina, nel 2016. Da diverso tempo combatteva contro una profonda depressione, nella quale era caduto a seguito di un arresto ritenuto “ingiustificato e violento” da parte dei parenti. Yehuda Biadga, invece, è stato abbattuto in strada a Bat-Yam, nel gennaio di quest’anno. Aveva terminato da poco il servizio militare. Da quando era tornato a casa, aveva cominciato a soffrire di disturbi psichici. “Non ha retto allo stress”, sostiene la famiglia. Nel suo caso, oltre al danno si è aggiunta la beffa. Infatti, era stata la stessa famiglia del ragazzo ad avvertire la polizia. La madre si era accorta che il figlio era uscito di casa con un coltello in mano e non aveva preso le medicine necessarie a placare le crisi di cui soffriva. Di sicuro la donna non immaginava che le sue legittime preoccupazioni avrebbero avuto conseguenze così tragiche. Solomon (Shlomo) Tekah era un ragazzo di diciotto anni. Qualche settimana fa si trovava a Kiryat Haim, un quartiere alla periferia di Haifa, insieme con altri suoi coetanei, quando è stato raggiunto da un colpo di arma da fuoco, sparato da un agente di polizia fuori servizio per ragioni non ancora del tutto chiare. Il poliziotto sostiene di esser stato aggredito a colpi di pietra per aver tentato di sedare una lite furibonda tra i giovani, benché alcune testimonianze sembrino negare questa ipotesi.

Il razzismo
Se, come si dice, una rondine non fa primavera, quattro, invece, sono più che sufficienti per delineare una fosca stagione per la comunità etiope. Non a caso, dopo ognuno degli episodi che abbiamo menzionato, sono arrivate puntuali le manifestazioni di piazza, le proteste. Tuttavia, le reazioni innescate dall’uccisione di Tekah sono state tra le più dure mai viste negli ultimi anni in Israele. Tre giorni di guerriglia urbana, in seguito ai quali più di cento persone sono state ferite e altrettante sono state arrestate. Il presidente Reuven Rivlin e il primo ministro Binyamin Netanyahu hanno più volte richiamato i cittadini all’ordine, invocando la fine dei disordini, ma la sensazione è che un intervento serio e deciso da parte delle istituzioni non possa più essere rimandato. “La comunità etiope-israeliana ha raggiunto il punto di ebollizione” ha dichiarato Michal Avera-Samuel, leader dell’Association for Education and Social Integration of Ethiopian Jews. “La generazione dei miei genitori ha sopportato in silenzio. La mia generazione ha sopportato in silenzio fino a quando non siamo più riusciti a rimanere in silenzio. Le giovani generazioni, che sono cresciute qui, in questa realtà ingiusta, non saranno messe a tacere”. “Razzismo” è stata la parola più frequentemente usata dai manifestanti. Tra le forze di polizia, ma non solo. “Quella della polizia” ha sottolineato Michal Avera-Samuel “è soltanto la punta dell’iceberg”. Il pregiudizio razziale, in particolare nei confronti degli etiopi, sarebbe quindi più diffuso di quanto non si possa immaginare, e i dati di agenzie statistiche ed enti vari sembrano confermarlo.

Come in una serie Tv

Eppure nella primavera del 2018 gli israeliani hanno dato una lezione all’intero mondo occidentale, rifiutando con veemenza la legge che avrebbe cacciato da Israele migliaia di migranti illegali africani e, di fatto, decretandone il fallimento. Com’è possibile che questi atteggiamenti coesistano? Per quale ragione la comunità etiope si sente o è marginalizzata fino a questo punto?
Voglio raccontarvi la storia di Yali ed Esti, due ragazzi su una vespa rosa nel cuore di Tel Aviv. Di lui conosciamo anche il cognome: Baumann. Di lei, al contrario, non sappiamo nulla più di quanto il suo personaggio ci voglia raccontare. Yali è una celeb in crisi. Dopo aver trionfato in un talent show, fatica a riempire le proprie giornate e sente di non riuscire a esprimersi appieno. Esti, al contrario, non ha un minuto libero. Lavora come cassiera notturna in un supermercato, studia giurisprudenza e aiuta le persone in difficoltà: immigrati che non hanno dimestichezza con le leggi israeliane, anziani indigenti sotto sfratto. Non ha paura di lottare per gli ideali in cui crede, non teme nemmeno le manganellate dei poliziotti, che di quando in quando minacciano di sbattere il suo “culo nero” in prigione. Yali è attratto da Esti ma lei lo considera un bamboccio privo di valori. Allora Yali racconta a Esti di essersi sottratto alla leva obbligatoria per ragioni di coscienza. Esti ribatte a Yali che suo fratello, invece, è stato ben felice di andare sotto le armi perché altrimenti non avrebbe avuto di che sfamarsi. Yali è l’ultimo rampollo di una famiglia benestante di Gerusalemme: madre farmacista, padre cardiologo. Esti vive e si mantiene da sola, ed è una coraggiosa attivista di origine etiope. Yali ed Esti non sono personaggi reali, bensì due tra i protagonisti della serie televisiva Mishpahah tovah, “Di buona famiglia”, firmata da Eytan Fox e trasmessa qualche anno fa dal primo canale israeliano. A questo punto voi mi direte: che cosa c’entrano le favolette delle serie televisive con le cronache sanguinose degli ultimi giorni? Le une sono fiction, pura invenzione scenica, le altre sono la cruda realtà dei fatti. E se è vero che è sempre con quest’ultima che ci dobbiamo confrontare, le elaborazioni artistiche e culturali in qualche modo ci aiutano ad avere uno sguardo più ampio sulla e vicende. In primo luogo, la distanza tra le parti o, almeno, la percezione di essa. Uno dei valori fondamentali sui quali Israele è stato costruito è la giustizia sociale. Purtroppo, l’evoluzione storica, sociale ed economica dello stato ebraico ha evidenziato come la realizzazione pratica di questo principio sia molto ardua, se non addirittura impossibile, almeno in un nucleo eterogeneo quale quello israeliano, che per giunta deve affrontare periodicamente situazioni di crisi nazionale e conflitti. Le divaricazioni socio-economiche tra i vari strati della popolazione esistono e sono spesso molto nette, cosa che è andata principalmente a scapito dei gruppi più deboli. Senza dubbio, oggi la comunità etiope è uno di questi, rimanendo per lo più ai margini del tessuto sociale israeliano, all’interno del quale, per cause facilmente comprensibili, ha faticato a integrarsi. Infatti, escluse poche centinaia di persone, la maggior parte degli immigrati di origine etiope è arrivata in Israele tra gli anni ’80 e l’inizio del Terzo Millennio, in una fase storica che ha segnato cambiamenti significativi nella società israeliana, soprattutto per quanto riguarda l’economia, i consumi e gli stili di vita. È possibile affermare che gli etiopi abbiano preso il ruolo che tra gli anni ’50 e ’70 era stato dei mizrahim, i quali, non a caso, a loro tempo dichiararono di essere i “negri d’Israele”, gettando così le basi per il movimento delle Panterim Shehorim, le “Pantere Nere”.

Il vocabolario della coesione

Nonostante le analogie, la condizione degli etiopi sembra essere molto più grave. Se, contemporaneamente al caso Damas Pakada, qualcuno ha ipotizzato che la comunità etiope in Israele stia attraversando i “dolori della crescita”, vale a dire una fase difficile ma necessaria per raggiungere uno sviluppo positivo, le morti degli ultimi due ragazzi rimettono tutto in discussione. Torniamo però al punto di partenza: chi è responsabile di questa situazione, gli immigrati stessi o la società che avrebbe dovuto accoglierli?
Sin dagli albori della sua formazione la società israeliana ha voluto rappresentare se stessa in termini di assoluta e profonda coesione. Haver, haverim, hevre, “amici”, “compagni”, “compagnia”; kol Yisrael ahim “tutti in Israele sono fratelli”, attah ehad mishelanu “tu sei uno di noi”. Il lessico del riconoscimento reciproco vanta un vasto e vario catalogo. Ma chi sono questi “fratelli” e chi è questo “noi”, soprattutto oggi, a più di settant’anni di distanza dalla fondazione dello Stato? Dalle raffigurazioni tradizionali dello halutz o del sabra, entrambi comunque legati alla cultura europea, ne è passata di acqua sotto i ponti, ma neanche troppa. E certe immagini sono dure a morire, soprattutto se ancora emanano il fascino dei bei tempi andati, quando si faceva Israele e, nello stesso tempo, gli israeliani. Quanto all’agognata concordia tra i fratelli (se mai c’è stata davvero), essa ha resistito con difficoltà alle ondate migratorie che si sono susseguite nei decenni, mutando radicalmente il volto della società originale. La società israeliana di oggi è totalmente multiculturale e multietnica, molto di più di quanto non avvenga in molte aree del mondo occidentale. Tuttavia, ciò non significa che le divisioni interne, i “tribalismi” come sono stati spesso definiti, abbiano cessato di esistere, con tutto ciò che questo comporta. Qui però stiamo parlando della più classica delle situazioni: l’uomo bianco di fronte all’uomo nero. Non serve attraversare il Mediterraneo per rendersi conto che l’europeo, o l’occidentale in generale, spesso guarda con sentimenti contrastanti alla persona di colore. Sospetto, paura, superiorità: “e lui sarebbe uno di noi?” C’è soltanto una risposta al pregiudizio ed è la stessa offerta di recente dal giornalista del Jerusalem Post Yaakov Katz: “noi dobbiamo fare meglio”. La società civile deve fare meglio, attraverso un lavoro capillare di educazione reciproca e di rimozione immediata dell’odio.

Sara Ferrari
Collaboratrice

Sara Ferrari insegna Lingua e Cultura Ebraica presso l’Università degli Studi di Milano ed ebraico biblico presso il Centro Culturale Protestante della stessa città. Si occupa di letteratura ebraica moderna e contemporanea, principalmente di poesia, con alcune incursioni in ambito cinematografico. Tra le sue pubblicazioni: Forte come la morte è l’amore. Tremila anni di poesia d’amore ebraica (Salomone Belforte Editore, 2007); La notte tace. La Shoah nella poesia ebraica (Salomone Belforte Editore, 2010), Poeti e poesie della Bibbia (Claudiana editrice, 2018). Ha tradotto e curato le edizioni italiane di Yehuda Amichai, Nel giardino pubblico (A Oriente!, 2008) e Uri Orlev, Poesie scritte a tredici anni a Bergen-Belsen (Editrice La Giuntina, 2013).

 


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