Cultura
Storia di Hamas – seconda parte

Origini, strategie e obiettivi del movimento nazionalista e islamista palestinese responsabile dell’attacco terroristico del 7 ottobre

«Il Movimento di Resistenza Islamico crede che la terra di Palestina sia un bene inalienabile (waqf), terra islamica affidata alle generazioni dell’islam fino al giorno della resurrezione. Non è accettabile rinunciare ad alcuna parte di essa. Nessuno Stato arabo, né tutti gli Stati arabi nel loro insieme, nessun re o presidente, né tutti i re e presidenti messi insieme, nessuna organizzazione, né tutte le organizzazioni palestinesi o arabe unite hanno il diritto di disporre o di cedere anche un singolo pezzo di essa, perché la Palestina è terra islamica affidata alle generazioni dell’islam sino al giorno del giudizio. Chi, dopo tutto, potrebbe arrogarsi il diritto di agire per conto di tutte le generazioni dell’islam fino al giorno del giudizio? Questa è la regola nella legge islamica (sharia), e la stessa regola si applica a ogni terra che i musulmani abbiano conquistato con la forza, perché al tempo della conquista i musulmani la hanno consacrata per tutte le generazioni dell’islam fino al giorno del giudizio». Così si legge all’articolo 11 dello statuto di Hamas del 1988, successivamente trasformato nel 2017, quando, in ciò riconoscendo la sua natura di movimento politico territorialista, ha aperto, per così dire, alla possibilità che si dia, nella sua azione, una tappa intermedia, ossia la costituzione di una repubblica islamica nei territori palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. D’altro canto, a suggello del rapporto tra islamismo e territorio, all’articolo successivo dichiara che «nulla è più vero e profondo nel nazionalismo che combattere un jihad contro il nemico».

Vi è un antagonismo che è andato montando negli ultimi due decenni, quello che mette Hamas e Hezbollah direttamente in competizione. Gli eventi accaduti dopo il 2000, a partire dal ritiro israeliano dal Libano, esaltando il ruolo dell’organizzazione di Hasan Nasrallah si sono riflessi sugli equilibri interni all’universo del radicalismo islamico. Creando un nuovo ambito di tensione  – Hamas è sunnita, Hezbollah sciita – per la medesima posta, l’egemonia sul movimento di “resistenza” ad Israele. Proprio perché le due organizzazioni dichiarano di avere lo stesso obiettivo, sono tra di loro anche in competizione. Un confronto che è andato poi incrementando fino ad oggi, posta la diffusione delle organizzazioni salafite e jihadiste nel Sinai e, più in generale, in tutto il Medio Oriente. Con una distinzione fondamentale, ossia che mentre Hamas ed Hezbollah hanno a principio un fondamento territorialista, quindi un insediamento politico consolidato su porzioni di terra nei riguardi delle quali intendono esercitare una sorta di sovranità, il jihadismo, nella sua più intima ragione politica, propende per una lotta “internazionalista”, pressoché senza fine, avendo ad unità di misura la costruzione di una sorta di califfato universale, oppure altra forma di dominio politico, senza il cui raggiungimento – in base alla dottrina dominante – gli altri sforzi sarebbero inutili.

A tale riguardo qualche nota su Hezbollah potrà tornare utile, per muoversi con più agilità nel ginepraio del radicalismo che circonda Israele. Le origini dell’organizzazione risalgono al 1982, ai tempi dell’operazione israeliana in Libano conosciuta come «pace in Galilea», i cui obiettivo era quello si estromettere l’Olp di Yasser Arafat dal paese. Nell’estate di quell’anno, infatti, un contingente di 1.500 pasdaran iraniani (il «corpo delle guardie rivoluzionarie», una milizia di fedelissimi dell’ayatollah Khomeini) arrivò a Ba’albak e iniziò un training di addestramento rivolto ai giovani sciiti locali. Il precario equilibrio interconfessionale nel quale si trovava il paese dei cedri era già esploso alcuni anni prima, con una violenta e disastrosa guerra civile (terminata solo nel 1989). Ognuno tirava la coperta dalla sua parte, nel tentativo di costruirvi piccole egemonie. Il «partito di Dio», questo è il significato del nome Hezbollah, nasce non a caso dal matrimonio di interessi tra Teheran e Damasco. Sia l’Iran che la Siria sono interessati a garantirsi un’area operativa per esercitare pressione su Gerusalemme. Nel primo caso ciò corrisponde alle mire geopolitiche ed espansioniste della nuova Repubblica islamica; nel secondo, è un valido strumento per cercare di mantenere in tensione Israele rispetto alla alture del Golan, parte delle quali erano state sottratte militarmente a Damasco nella guerra del 1967. L’accordo tra i due contraenti regge e i miliziani iniziano a dare “buona prova di sé”, portando a segno una serie di attentati che li consegnano all’onore della cronaca. La miscela tra preparazione militare, assoluta disinvoltura nel perseguire i propri obiettivi – indipendentemente da qualsiasi considerazione di ordine morale – e un’ideologia di base fondata sul richiamo al simbolismo religioso sciita ma fondata sull’appello agli «oppressi del Libano e del mondo», risulta vincente. Soprattutto tra gli appartenenti al proletariato libanese, perlopiù di estrazione musulmana, che coltivano sogni di rivalsa politica, civile e sociale. Non solo contro i «sionisti». Esaurito il mito comunista, trovano ora in una concezione militante e militarista della fede un’occasione di autoaffermazione. Una sorta di riarmo dello spirito, dove la protesta contro l’indigenza dal rosso della sinistra laica si colora del verde dal radicalismo religioso.

Le aree di insediamento sono quelle dove maggiore è la povertà, corrispondendo essa alla condizione prevalente di buona parte della popolazione sciita: i quartieri meridionali di Beirut, il Libano del sud e la valle della Beqa’a. Se negli anni Ottanta Hezbollah deve onorare i suoi debiti, servendo i due potenti padroni (attraverso, tra gli altri, la pratica dei rapimenti di cittadini occidentali, utilizzato poi in quanto merce di scambio con le cancellerie europee, soprattutto per quanto riguarda la fornitura di armi a Teheran), il decennio successivo si apre all’insegna della sua “libanesizzazione”. Ovvero, perdendo di valore strategico rispetto allo scenario regionale, dopo la conclusione della guerra tra Iran e Iraq, Hezbollah si concentra sugli affari del Paese dei cedri, impegnandosi nella lotta contro la presenza israeliana. È il periodo in cui emerge la figura di un giovane e dinamico leader, Muhammad Hasan Nasrallah, poi protagonista carismatico del movimento, che fa partecipare l’organizzazione alle elezioni libanesi. La competizione è con il partito Amal  («Speranza») di Nabib Berri, formazione anch’essa sciita ma assai più vincolata ai vecchi giochi di potere libanesi. Del pari ad Hamas si impegna sul versante sociale, arrivando a dotarsi di una propria rete televisiva, al-Manar («il faro»), e adoperandosi a fondo, per ciò che riguarda la propaganda al pari del proselitismo, anche in internet. Per tutti gli anni Novanta, così come va facendo Hamas a Gaza, il «Partito di Dio» si concentra sulla preparazione militare, sulle operazioni di infiltrazione in Israele, sul consolidamento dei propri apparati di sicurezza e intelligence. A questo punto, l’appello alla mobilitazione non è quindi più rivolto solo alle componenti più fragili  della società libanese ma anche a quella parte di ceto medio musulmano che vive con disagio le continue tensioni che attraversano il paese. Su Israele Hezbollah è tranciante: «l’entità sionista è stata aggressiva fin dalla nascita e si è espansa a spese del popolo musulmano. Perciò la nostra lotta cesserà solo quando quell’entità sarà cancellata. Non riconosciamo alcun accordo, alcun armistizio, alcun trattato di pace. […] Ogni trattativa non fa che riconoscere la legittimità dell’occupazione sionista in Palestina». Il repentino ritiro israeliano del maggio del 2000 dalla striscia di sicurezza creata a sud del fiume Litani e, infine, le successive operazioni militari, hanno rafforzato in Libano la credibilità e il seguito di Nasrallah.

Un altro attore regionale, Jihad islamico, infine, compete con Hamas per l’egemonia sul radicalismo palestinese, avendo però un seguito assai più contenuto. Nata a cavallo tra il 1980 e il 1981, a Gaza, come organizzazione armata, di fatto dagli anni Novanta è presente perlopiù in Cisgiordania. Di osservanza sunnita si differenzia da Hamas perché è principalmente una fazione militare, il cui obiettivo è la costituzione di uno stato islamico su tutta la Palestina. Comune alle tre formazioni, è il loro essere prodotto di una esplosiva miscela tra modernità e arcaismo: modernità dei mezzi e degli strumenti di azione, arcaismo delle concezioni ideologiche alle quali si ispirano. Il tratto di unione tra l’una e l’altro è la barbarie culturale e morale che sta dietro alle loro pratiche terroristiche. Tuttavia, ed è questo un fatto ineludibile, sono anche organizzazioni politiche, la cui presa sulla popolazione è oramai assodata. In particolare Hamas aspirata apertamente, e con cognizione di causa, a sostituirsi al declinate potere del vecchio Olp e alla senile e screditata leadership di Abu Mazen. Ad oggi Hamas è considerata un’organizzazione terroristica, in tutte le sue componenti, dall’Unione Europea, dagli Stati Uniti, ovviamente da Israele, dall’Organizzazione degli Stati americani, dal Canada, dal Giappone. È bandita dalla Giordania mentre l’Egitto pratica una politica ambivalente, attraverso alcuni pronunciamenti dei tribunali che ne hanno condannato l’operato. Va ricordato, in questo ultimo caso, che la filiazione dalla vecchia e consolidata struttura-cappello dei Fratelli musulmani non può non esercitare la sua influenza rispetto alle manifestazioni di assenso o di dissenso verso il suo operato. Altri paesi, invece (ad esempio l’Australia, la Nuova Zelanda, il Regno Unito) qualificano come componente terroristica solo il braccio armato, le Brigate Ezzedin al-Qassam.

In linea generale, l’azione contro Israele si è svolta, fino al 7 ottobre 2023, attraverso il ricorso a tre strumenti operativi: il rapimento di ostaggi; i ripetuti attentati terroristici, perlopiù di natura suicida, in territorio israeliano; il lancio di razzi Qassam e Grad. In particolare, durante la seconda intifadah (2000-2005), l’intensificazione degli atti terroristici ha causato la morte di centinaia di vittime civili e militari. Alla tradizionale posizione per la quale «non esiste soluzione alla questione palestinese se non nel Jihad», con ciò sancendo la necessità di «estirpare l’entità sionista» già nel 2009, l’allora capo dell’ufficio politico dell’organizzazione, Khaled Mesh’al, dichiarava la disponibilità ad una qualche ipotesi di negoziazione che garantisse una «soluzione del conflitto arabo-israeliano che includa uno stato palestinese nei confini del 1967». Come condizioni preclusive, di principio, associava il diritto al ritorno (in Israele) dei profughi del 1948 e il riconoscimento di Gerusalemme est come capitale del futuro stato palestinese. Affermazioni in tale senso si sono poi succedute nel tempo ma senza che ad esse si sia accompagnato alcun gesto concreto. Peraltro, l’attenzione di Hamas si è perlopiù concentrata nel cercare di consolidare il suo seguito nella Striscia di Gaza. Se nelle diverse tornate delle elezioni amministrative Hamas ha consolidato la sua presa anche su realtà cisgiordane, come ad esempio Nablus, con le elezioni legislative nazionali del 2006 (le uniche tenutesi ad oggi in campo palestinese) si è garantita 74 dei 132 seggi. Anche da ciò è quindi derivato lo scontro armato, conosciuto come la battaglia di Gaza del 2007, tra Fatah e Hamas. A seguito del quale, di fatto, il movimento che fu di Arafat è stato pressoché del tutto estromesso dalla Striscia di Gaza. In un brutale gioco di reciprocità, Fatah ha cercato di fare la medesima cosa con gli esponenti dell’organizzazione islamista presente in Cisgiordania. Nello stesso anno, infatti, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen ha dichiarato fuorilegge le milizie di Hamas.

A tutto ciò tuttavia, si legano anche dei precedenti storici che non possono essere dimenticati. È già stato detto che Hamas nasce dalla penetrazione e dal consolidamento della presenza dei Fratelli musulmani nei campi profughi palestinesi. Dopo l’acquisizione militare da parte d’Israele della Striscia di Gaza, a seguito della guerra del 1967, una parte delle restrizioni che gli egiziani avevano posto all’azione della fratellanza decadde. Per Gerusalemme, infatti, la fisionomia dell’organizzazione – ufficialmente dedita ad attività filantropico-caritativa, rivolte alla religiosizzazione della popolazione gazawi, risultava rassicurante rispetto all’attività politica promossa invece dalle formazioni laiche legate all’arcipelago dell’Olp. In Israele, la «al-Mujamma’al-Islami» (Associazione Islamica), movimento collegato ai Fratelli Musulmani e fondato dallo sceicco Ahmad Yasin, futuro artefice del terrorismo anti-israeliano, fu riconosciuta come ente legale. La strategia di penetrazione di Hamas, basata sull’«islamizzazione dal basso», si basava all’epoca su tre assi portanti: astensione dalla partecipazione diretta alle competizioni politiche, presentando la propria azione di proselitismo come un’attività di carattere universalista rivolta alla società musulmana; spiccato ricorso al corpus religioso per connotare la propria presenza, adoperandosi nell’associazionismo comunitario; costante denuncia della corruzione praticata da parte delle autorità amministrative e politiche di contro alla «purezza» morale che, secondo la retorica del discorso pubblico, avrebbe accompagnato la società civile nel momento di una sua completa re-islamizzazione. Nei primi anni Ottanta, le frizioni tra gruppi palestinesi contrapposti andarono accompagnandosi agli echi crescenti della crescita internazionale dei movimenti islamisti. A guidare a Gaza tale percorso era lo stesso sceicco Yasin, in un’azione di contrasto che aveva ad obiettivo l’Olp di Arafat. Il ricorso esplicito alla forza è tuttavia ascrivibile ai tempi della prima intifadah, con il 1987. È anche in quel tempo che il nome di Hamas inizia a comparire sui primi documenti pubblici. Un tema che l’organizzazione viene sviluppando è quello della compattezza morale, ossia della necessità, soprattutto tra i giovani palestinesi  – all’epoca attivamente coinvolti nei sommovimenti civili – di aderire all’islamismo come vera ed esclusiva radice dell’opposizione allo sviluppo della presenza israeliana. Parallelamente a ciò, si intensifica l’ossessione nei confronti del «collaborazionismo», inteso non solo come una resa politica nei riguardi dell’occupante ma anche in quanto indice di perversione etica individuale. Non a caso, alle campagne contro le “spie interne” si accompagna l’avvio di una spirale terroristica che passa dagli obiettivi militari a quelli civili, indicando gli uni e gli altri come omologhi.

Plausibilmente, a metà degli anni Ottanta il movimento jihadista inizia a porsi l’obiettivo non solo di raggiungere il potere bensì di farsi esso stesso potere in sé. Se a Gaza l’evoluzione di Hamas è tanto progressiva quanto costante, non la stessa cosa può essere detta di quanto avviene in Cisgiordania, posto che in quest’ultimo caso i Fratelli musulmani rimanevano legati al movimento islamico giordano, sostanzialmente fedele alla casa regnante hashemita. Sta di fatto che anche in questo secondo caso, nel conflitto per il controllo delle moschee e degli spazi di socializzazione religiosa, saranno gli islamisti ad avere la meglio. Peraltro, ad oggi, è dato conoscere un elevato numero di sovventori internazionali delle attività di Hamas, a partire da interlocutori sauditi, dagli iraniani, da organizzazioni più o meno mascherate o coperte sotto il volto di associazioni caritative e così via, in Europa così come negli Stati Uniti. Ed è proprio in ragione del suo essere un’organizzazione radicata nello specifico territorio di Gaza, tuttavia proiettata verso un appello universalista, capace quindi di costruire link internazionali, che Hamas da sempre utilizza i temi antisionisti in chiave antisemita, sposando le teorie complottiste e negazioniste che circolano anche al di fuori dell’arcipelago islamista. Così all’articolo 7 del suo statuto: «benché […] molti ostacoli siano stati posti di fronte ai combattenti da coloro che si muovono agli ordini del sionismo così da rendere talora impossibile il perseguimento del jihad, il Movimento di Resistenza Islamico ha sempre cercato di corrispondere alle promesse di Allah, senza chiedersi quanto tempo ci sarebbe voluto. Il Profeta – le benedizioni e la salvezza di Allah siano su di Lui – dichiarò: “L’Ultimo Giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra o l’albero diranno: ‘O musulmano, o servo di Allah, c’è un ebreo nascosto dietro di me – vieni e uccidilo». Le successive azioniin corso d’opera non hanno mutato la sostanza dell’approccio dell’organizzazione, anche se è molto difficile comprendere, allo stato attuale dei fatti, quali saranno le mosse a venire della sua leadership dopo il pogrom del 7 ottobre e la reazione militare israeliana.

 

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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