Fatiscente, losca, creativa, multiculturale, a sicuro effetto spaesamento. Viaggio nella seconda stazione più grande del mondo
La mia infatuazione per la stazione degli autobus di Tel Aviv ha avuto inizio un po’ per caso; mi ci sono ritrovata per questioni di circostanze, in maniera non programmata né premeditata. Il primo anno in Israele, vivevo ad Herzlyia dove studiavo e abitavo con altri ragazzi; a parte l’università, la città, si sa, non è proprio il massimo della vita e così non appena ne avevo l’occasione, passavo le giornate nella più colorata e viva Tel Aviv. Prendevo l’autobus fino alla tachana merkazit capolinea all’estremo sud, che oltre ad essere il punto di arrivo degli autobus intercity è anche il capolinea di tutti i moniot shirut, i taxi collettivi gialli, con cui poi mi spostavo nelle varie zone della città bianca, a seconda dei miei impegni. Alla stazione centrale, gli autobus da fuori città arrivavano sempre al settimo piano di quell’immensa e labirintica struttura, dove tra luci al neon, negozi di burekas e scale varie, le casse degli altoparlanti trasmettevano sempre brani di musica classica.
Con gli anni, mi sono sentita rimproverare più e più volte da parenti e amici di famiglia, che mi ripetevano di stare lontana dalla tachana merkazit, considerata dalla maggior parte degli israeliani un luogo losco, fatiscente e persino pericoloso. Diversi articoli di giornale la denominano “l’inferno di Tel Aviv” o “il più grande cimitero commerciale di Israele” o ancora “il luogo più infimo della città” e tutti sembrano concordare sul fatto che sia un posto da cui stare alla larga. Testarda come sono sempre stata, figuriamoci quando avevo appena vent’anni, non ho mai ascoltato quei rimproveri e durante gli otto anni trascorsi in Israele, in un modo o nell’altro ho sempre frequentato la stazione e i suoi dintorni.
La seconda stazione più grande del mondo
Sul fatto che sia losca e fatiscente c’è poco da ribattere, e questo è evidente già da quando la si osserva dall’esterno nella sua logora immensità. Fin dall’inizio è stato un progetto mastodontico mal riuscito e mai portato a termine che si è trasformato in quello che molti definiscono un vero e proprio “mostro”, simbolo di miseria e inquinamento. Con una superficie di oltre duecentotrenta mila metri quadrati, e un flusso di più di ottanta mila persone al giorno, il cosiddetto “pil lavan”, elefante bianco (espressione che indica progetti i cui investimenti non equivalgono ai benefici riportati) è la seconda stazione più grande al mondo dopo quella di Bombay, un fatto a dir poco singolare se si pensa a quanto è piccola Israele.
Il progetto nacque da un’idea dell’imprenditore edile Arieh Pliz, lo stesso che qualche anno più tardi fece costruire il più fortunato Dizengoff Center in centro a Tel Aviv, mentre a completare il progetto furono gli architetti Ram Karmi (premio Israele per l’architettura nel 1957), Zvi Comet e Yael Rothschild. Pliz e Karmi avevano in mente di costruire una struttura con un’atmosfera labirintica dove i visitatori e i viaggiatori avrebbero perso il senso dell’orientamento, fermandosi così ad acquistare prodotti di vario tipo nei numerosissimi negozi di ogni piano.
Il primo deficit già all’inaugurazione
Sul territorio di quello che una volta era un agrumeto, i lavori furono avviati nel 1967, grazie anche ai fondi ricavati dalla vendita a privati di più di settecento negozi interni alla struttura. Ma già nel 1976 iniziarono i problemi: era stato ultimato lo scheletro della stazione, ma i soldi non bastavano per portare a termine il progetto. Nel 1983 con l’intervento di alcuni privati, si riprese a costruire e dieci anni più tardi la stazione fu inaugurata, già in deficit, in presenza dell’allora Primo Ministro Itzhak Rabin e del sindaco Shlomo Lahat. Il giorno dell’inaugurazione, sulle note dell’hatikva, volarono in cielo decine di palloncini bianchi e blu, nonché un enorme elefante bianco gonfiabile, simbolo che l’ormai diffuso timore che il progetto fosse un clamoroso fallimento immobiliare, stava ora inaugurando con la promessa di diventare un successo economico e commerciale per tutta la zona. Secondo i piani del comune, l’apertura della stazione avrebbe portato prosperità e Neve Sha’anan, il quartiere di pionieri circostante la struttura, sarebbe diventato un vivace centro commerciale pedonale.
Diversi tra i più illustri architetti israeliani contemporanei concordano sul fatto che il progetto sia stato un fallimento fin dalla sua nascita: la struttura fu programmata per una sorta di megalomania di costruire qualcosa di monumentale, senza prendere in considerazione le necessità e la vita quotidiana degli abitanti della zona. E in effetti, più ci si addentra nei vicoli oscuri della tachana, più ne si realizza l’enormità e assurda pianificazione, più risulta difficile capire quale sia stata la logica dietro la sua costruzione.
Effetto spaesamento
Da un punto di vista estetico, la stazione si potrebbe definire allucinogena o surreale aggravata dal fatto che a ognuno dei suoi piani corrisponde un colore, così che all’interno è come muoversi tra labirinti rossi, verdi, blu e perdersi è davvero facile. A causa dell’estremo inquinamento atmosferico e della mancanza di sistemi di aerazione, il primo e secondo piano furono chiusi al pubblico già all’inizio degli anni 2000 e da allora sono completamente inagibili. Non è difficile immaginare come i negozi abbandonati, i lunghi corridoi bui e i piani completamente dimenticati siano diventati luogo ideale per tossici, senza tetto e prostitute, le cui attività gravitano attorno alla stazione. Ma il fatto che sia un luogo volutamente abbandonato a se stesso e con un’amministrazione praticamente inesistente, ha anche fatto in modo che potesse diventare punto d’incontro di altre comunità.
La stazione delle arti
La tachana è una calamita per i più poveri ed emarginati, ma al contempo è diventata un polo di attrazione per giovani artisti, che trovano nel suo mistero e abbandono, la propria ispirazione. In molti infatti hanno deciso di stabilire le proprie attività creative al settimo piano, dove le pareti riflettono l’arte di strada dei migliori nomi della scena israeliana e gruppi di ecologisti come la Onya collective hanno costruito piccole oasi verdi che spaccano la pesantezza dei blocchi di cemento. Ai piani bassi, dove un tempo doveva sorgere un cinema, gruppi di teatranti come il Mystorin Theater e il Teatron Karov hanno ideato spettacoli che si sviluppano in verticale tra un piano e l’altro e che invitano il pubblico a scoprire angoli segreti in un’atmosfera decadentista. Anche scuole di danza come la Fresco Dance Company, tenendo conto dei bassi prezzi degli affitti, hanno aperto delle palestre e proprio dove fanno capolinea i moniot shirut si entra nel più grande e “hardcore” locale di Tel Aviv, il Bloc, dove il giovedì e il venerdì notte suonano dj di fama internazionale.
Anche comunità di immigrati si riuniscono alla stazione e la comunità filippina ad esempio, ogni sabato sera organizza una sorta di sagra alimentare dove si canta, si balla e si sta insieme. Al quinto piano c’è poi YUNG YiDiSH, spazio di quattrocento metri quadri che si ripropone di mantenere viva la cultura yidish e che tra libri, incontri e letture sta diventando un vero e proprio museo. E ancora tra i piani della tachana si trovano anche chiese e sinagoghe, un enorme supermercato, una postazione di controllo militare e il più grande bunker nucleare della città.
Nuovi progetti
Ciò nonostante, per la maggior parte degli abitanti della zona, la tachana mercazit rimane un mostro da distruggere. Il comune di Tel Aviv ha già pronti dei piani di ricollocazione dei trasporti pubblici in due punti della città e una riqualificazione del quartiere che prevede la costruzione di appartamenti e uffici che diano un nuovo volto alla zona. Ma purtroppo la stazione è in mani private e in molti puntano il dito contro la società immobiliare Nitsba, la quale ad oggi ha in proprietà la maggior parte della stazione sotto la direzione dell’uomo d’affari Cobi Maimon, e che ha rinnovato il contratto con il Ministero dei Trasporti fino al 2042 (il Ministero paga ogni anno alla società quaranta milioni di shekel per l’uso della struttura). Secondo una sentenza del tribunale, Maimon starebbe volutamente portando al massimo degrado l’edificio, così che i proprietari dei negozi abbandonino le loro imprese e la Nitsba possa assumere il controllo dell’intero centro e gestirlo secondo i suoi interessi.
E così pare che la tachanà, mostro o musa che la si consideri, abbia davanti a sé almeno un altro ventennio di vita, sperando che arte e cultura riescano almeno in parte a contrastare abbandono e miseria.
Grazie, molto interessante.
Per me che ho vissuto in Israele negli anni 80, quando la tahanà era tutta una zona in orizzontale, tra negozi bar e abitazioni, comunque tutto piuttosto fatiscente, questo articolo mi ha fatto capire molte cose.
Ho visto la stazione di cui parli, più o meno 25 anni fa, mi aspettavo quello che ricordavo e ho visto quello che hai descritto. Uno shock
Devo tornare a vederla
A presto