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L’Ungheria dell’Europa alternativa

L’Ungheria di Viktor Orbàn è l’erede di una visione ben precisa dell’Europa che non è antieuropeista, ma antiliberale e nazionalista, in nome di “valori” comuni da cui il melting pot è bandito.

In Ungheria non si può dar da mangiare ai richiedenti asilo fermi nelle «zone di transizione», gli appositi centri di raccolta costruiti al confine meridionale. Niente cibo ai migranti. Neppure del pane. Lo scrive Emanuele Bonini su “La Stampa” del 22 agosto 2018.

È troppo semplice collocare questa immagine (che in realtà è un atto deliberato e che discende da una decisione pensata e, perciò intenzionalmente voluta) nella categoria delle azioni perverse o ciniche. Appartiene invece alla costruzione di un carattere e che sia parte di un  processo di definizione dell’identità dell’Ungheria attuale.

 

Uno Stato illiberale

Il dato da cui si deve partire è la forza che oggi ha l’antieuropeismo e la forza che ha la parola dell’odio. Il 26 luglio 2014 Viktor Orbán aveva spiegato nel suo discorso teorico programmatico che la sua proposta era la costruzione dell’Ungheria come “uno Stato illiberale, uno Stato non liberale”. E subito dopo aveva proseguito che dichiararsi illiberali non voleva dire rifiutare “i princìpi fondamentali del liberalismo, come la libertà, ma non considera[re] questa ideologia come l’elemento centrale dell’organizzazione dello Stato, scegliendo invece un approccio diverso, di tipo nazionale”.

Che cosa intendeva con il termine approccio nazionale, Orbán lo ha precisato l’8 febbraio scorso, all’assemblea dei sindaci dei capoluoghi di provincia del Paese, e all’apertura della campagna elettorale. In quell’occasione diceva, tra l’altro: “Nelle discussioni di ordine morale ed etico [noi Ungheresi] non dobbiamo cedere terreno, perché dobbiamo difendere l’Ungheria per com’è oggi. Dobbiamo affermare che non vogliamo che nella nostra società ci siano la diversità, la mescolanza: non vogliamo che il nostro colore, le nostre tradizioni e la nostra cultura nazionale si mescolino con quelle degli altri. Non lo vogliamo. Non lo vogliamo affatto. Non vogliamo essere un Paese dove ci sia diversità. Vogliamo essere quello che eravamo mille e cento anni fa, quando siamo arrivati nel bacino carpatico. È questa la strada che vogliamo seguire; ma sfortunatamente oggi non è detto che questa strada sia percorribile. Dobbiamo difendere il nostro obiettivo, dobbiamo combattere per esso”. E dieci giorni dopo, nel discorso sullo stato della nazione precisava: “Sembra che l’Europa occidentale e l’Europa centrale abbiano scelto due strade divergenti. […] E per quanto possa sembrare assurdo la minaccia più pericolosa per l’Ungheria oggi arriva dall’Occidente. Questa minaccia è rappresentata dai politici di Bruxelles, Berlino e Parigi. Vogliono farci adottare le loro politiche, quelle politiche che hanno trasformato i loro Paesi in paesi di immigrazione e che hanno aperto la strada al declino della cultura cristiana e all’espansione dell’Islam. Vogliono farci accettare gli immigrati e trasformarci in un Paese con una popolazione mista”.

Riepilogando: anti-Europa, difesa del valore cristiano dell’identità d’Europa, rivendicazione dell’identità nazionale come piattaforma su cui costruire un’idea di Europa strutturalmente opposta all’ipotesi europeista.

È una distinzione importante perché il conflitto ideale, politico e culturale non è tra chi vuole l’Europa e chi non la vuole. Viktor Orbán giustamente sarebbe il primo a rifiutare questa descrizione. La distinzione è tra chi pensa che l’Europa sia un processo di costruzione culturale plurimo e chi invece ha un’idea e un’immagine omogenea dell’Europa. Una distinzione e una contrapposizione che hanno una storia, ma soprattutto hanno un vocabolario che ha la sua costruzione coerente nella prima metà del Novecento e precisamente all’inizio degli anni ’30, in risposta, come oggi, a una crisi strutturale del mondo industriale.

 

Una crisi strutturale

Quel vocabolario, nel Novecento, è stato costruito la prima volta nel 1932. Chi lo definisce è un politico italiano, Francesco Coppola (1878-1957), nazionalista, direttore della rivista “Politica” (1919-1943), il relatore politico più significativo al convegno internazionale che la Fondazione Volta promuove tra il 14 e il 20 novembre 1932 a Roma, dedicato al tema dell’Europa. Uno dei lettori più acuti delle parole e delle ansie emerse in quel convegno è lo storico Marc Bloch di cui qui si può leggere il saggio di analisi che scrive nel 1935.

In quella occasione, con una lunga relazione dal titolo La crisi dell’Europa e la sua «cattiva coscienza» Coppola esprime la posizione più compiuta sull’immagine e sull’idea di Europa così come per molti aspetti si manterranno nella riflessione culturale anche di coloro che, nel secondo dopoguerra, si dichiareranno europeisti.

La crisi in cui versa l’Europa ha un carattere strutturale e non è conseguenza automatica e esclusiva del tracollo economico, dice Coppola. È la condizione di perdita della supremazia che definisce le modalità della crisi europea. Una condizione in cui l’Europa aveva rischiato di vivere a lungo, nel conflitto che l’aveva opposta all’Islam ma che a Lepanto (1572)  era stata definitivamente stroncata.

Sono gli Stati Uniti da una parte e la realtà della Russia sovietica dall’altra, ovvero ciò che Coppola chiama Antieuropa, a mettere in crisi l’Europa. Stati Uniti, Russia sovietica e rivolta delle periferie contro le metropoli coloniali, soprattutto nelle aree a prevalente presenza islamica delle città colonizzate, sono i sintomi più evidenti della natura di questa crisi, secondo Coppola, in modo non dissimile da quanto accade oggi. L’aspetto strutturale della crisi è comprensibile e misurabile, secondo il politico italiano, non tanto se si considerano i soggetti politici e statuali che confliggono con l’Europa, quanto se si sviluppa e si fissa un concetto di Europa.

Precisa Coppola: “Quando si parla dell’Europa come soggetto storico di fronte al resto del mondo, non si parla, almeno in linea principale, di una unità geografica […] né di una unità etnica, […] né di una unità politica, […] né di una unità religiosa […]. Qui si parla soprattutto di una unità storica di civiltà…” laddove per civiltà egli intende un’egemonia fondata sullo sviluppo materiale ed esercitata attraverso l’impiego della forza.

Il quadro politico a cui Coppola fa riferimento non lascia dubbi: il problema della civiltà europea minacciata e della sua difesa è la proposizione del fascismo come essenza ultima dell’identità europea ed erede della sua tradizione.

“Vi è già in Europa – conclude Coppola – un popolo che, seguendo la sua vocazione millenaria, si è messo risolutamente su questa strada, lo stesso popolo che già tre volte, con l’Impero Romano, con la Chiesa cattolica e col Rinascimento, ha creato e ricreato la civiltà europea e quindi mondiale. Si tratta ora di vedere se gli altri popoli europei intenderanno in tempo la necessità di mettersi al suo fianco per l’opera comune, ovvero ancora una volta, la quarta volta, lasceranno a lui solo il compito e la gloria di salvare la civiltà dell’Europa e del mondo”.

 

L’Europa alternativa di Orbán

Viktor Orbán si potrebbe osservare non aggiunge molto a questa lunga tradizione culturale.

È vero. Ma non è tutto e soprattutto se lo si riducesse solo alla ripetizione di un paradigma consolidato si capirebbe poco della forza culturale – prima ancora che politica – rappresentata dal modello ungherese che oggi si propone non come “anti Europa”, ma come “versione alternativa dell’Europa”. Per comprenderlo occorre tornare indietro nel tempo almeno su due aspetti.

Il primo riguarda le lezioni che si traggono dal fallimento, o più limitatamente dalla sconfitta. Si potrebbero usare per Orbán, all’indomani della sua sconfitta del 2002, quando perde di un soffio le elezioni nei confronti della alleanza di centro-sinistra, le parole che Charles Pépin nel suo Il magico potere del fallimento (Garzanti) riprende dal tennista Roger Federer a metà della finale di Coppa Davis del 2014: “Ho perso, ma so ciò che volevo sapere”. È ciò che Pépin chiama il “fallimento come esperienza della realtà”.

Quella sconfitta non nasce da una politica fallita ma nondimeno apre una crisi. Da quella crisi (sono gli anni in cui l’Ungheria entra nella UE, ovvero gli anni 2002-2010 dell’opposizione al suo partito Fidesz), Orbán esce modificando strutturalmente la macchina del partito ma anche l’ideologia che lo innerva. Entrambi gli elementi sono molto importanti per comprendere l’aspetto non più specifico, ma ora paradigmatico del modello politico ungherese nella crisi dell’Europa attuale.

 

Un partito-movimento

La prima trasformazione è lacostruzione di un partito che è in grado di governare in prima persona, fondato sul cameratismo del gruppo dirigente, ma anche su un rigido controllo militare diretto, in cui predomina la componente maschile. Il risultato è la costruzione di un gruppo dirigente omogeneo, organico alla visione politica del leader, non necessariamente definito da legami di parentela o di clan come in altre forme contemporanee di leadership carismatica (la Turchia, per esempio).

Se nel corso degli anni ’90 la linea politica di fondo era stata quella della rivolta civica, e dunque l’idea era quella che uscire dal precedente dominio comunista voleva dire proporre un ideale non solo sociale, ma soprattutto culturale borghese (e dunque capitalista e soprattutto individuale) che si riconosceva nello slogan “meno Stato”, la sconfitta subìta sull’onda di un’opposizione, ora maggioritaria (nel 2002) poneva il problema di trovare una soluzione che mettesse al centro l’idea di “più governo”, dunque “più Stato”.

Quello che Orbán deduce da quella sconfitta è che l’elettorato che lo ha abbandonato è in cerca di uno Stato che lo protegga, uno Stato protettore, liberato dall’ideologia socialista, ma non per questo meno presente. Anzi.

È questa la seconda trasformazione che segna la ripresa politica di Orbán nel 2010, oltre alla crisi delle politiche e sociali del governo di centro-sinistra già dal 2006, oltremodo aggravata dalla crisi del 2008. Quando nel 2010 Fidesz vince le elezioni, con il supporto di Jobbik, ovvero in forza dell’alleanza con un movimento fortemente xenofobo, il processo di trasformazione culturale è già avviato da tempo ed è ciò che consente a Orbán di essere vincente. L’Ungheria del 2010 che si presenta all’UE all’indomani di quelle elezioni è dunque un paese radicalmente diverso da quello guidato da Orbán un decennio prima.

 

Identità a sovranità

In questa doppia trasformazione sta l’elemento fondamentale della svolta e anche della parallela crisi dell’Europa democratica di fronte al caso ungherese.

Come sottolinea correttamente  lo studioso dell’Europa Stefano Bottoni, in un articolo uscito nell’ultimo numero della rivista il Mulino (Accidente storico o ritorno alla storia? L’illiberalismo ungherese in prospettiva europea,  il Mulino n. 3/18) il tema è la “crisi di legittimità delle parole d’ordine della transizione democratica postcomunista: occidente, mercato, democrazia liberale”.

Che cosa vuol dire? Che è finito quel modello su cui si è costruito gran parte del processo europeo a partire dal 1992: una parte dell’Europa che fa da traino e una parte inclusa che va a cercare protezione nell’Europa, pensando così di rispondere alla storica paura della Russia imperiale.
Quel modello, che esplicitamente e implicitamente ha accompagnato la vicenda europea a partire dalla crisi e poi dal crollo del blocco comunista a Est ha iniziato a infrangersi nel 2015, quando proprio l’Ungheria di Orbán ha stretto un  patto di interesse con la Russia di Putin (non senza reciproche diffidenze), a proposito dello sviluppo della centrale nucleare di Packs, cui si oppose a lungo l’Austria. Il punto di interesse sta nell’elemento che li accomuna: l’antieuropeismo che ora si sostanzia intorno alla questione dei migranti, a partire dalla crisi dell’estate 2015, quando la Germania accoglie un milione di migranti e l’Ungheria si propone come anti-Germania. E non è difficile immaginare che quella avversione al nucleare da parte dell’Austria troverà, con il nuovo governo nero-blu di Vienna, una possibilità di accordo.

Il tema della “sovranità” dell’Europa, di un’Europa identitaria, alternativa all’Europa dei liberali, nasce lì, alla fine dell’estate di quell’anno. È una mossa politica di indubbio successo che accredita Orbán come leader europeo, ma anche apre alla crisi identitaria di gran parte dell’Est Europa che ora va a cercare proprio su quel terreno la sua risposta al progetto europeo, che ha sempre vissuto con malessere: ovvero rivendicando più che una funzione economica sul modello di sviluppo, una funzione di riscrittura dell’ipotesi politica dell’Europa, rimettendo in discussione il patto fondante e il segno più evidente del processo di integrazione, ovvero l’adesione all’Euro.
Dentro al modello proposto dall’Ungheria di Orbàn stanno i neo etnicismi, i neo nazionalismi, la costruzione di una teoria dell’appartenenza nazionale fondata sul discorso politico del complotto e dell’invadenza delle forze straniere (incluso il risorgente antisemitismo): un concentrato di opinioni, di sensazioni, di sensibilità e di parole che in Europa hanno già avuto corso e che proprio per la loro consistenza sono capaci di riattivarsi velocemente in forza di una traccia che è presente in profondità nell’idea stessa di Europa.

David Bidussa
Redazione JOI Mag

Classe 1955, nato e cresciuto a Livorno, studia a Pisa dove inizia la facoltà di Filosofia, ma si innamora di quella di Storia. Ha insegnato al liceo e all’università, da anni lavora alla Fondazione Feltrinelli in quanto Direttore dei contenuti editoriali. Si definisce uno storico sociale delle idee (ci ha assicurato essere una vera specialità, benché nessuno finora abbia capito cosa sia). Scrittore e giornalista, dicono che il suo branzino al sale sia leggendario.


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