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La via italiana all’organizzazione dell’ebraismo

Come, quando e perché l’Italia ha messo a punto un modello monocratico

Tasse, iscrizioni, delegati, assemblee e presidenti. E un certo familiare sottofondo di perenne “ricerca del compromesso” (o del suo esatto opposto, a seconda dei casi) tra le diverse sensibilità. La vita ebraica italiana, sin dal giorno della nascita di ciascun suo componente – o poco dopo – è fatta anche di una serie di faccende pratiche: burocratiche, finanziarie, politiche. Un modello di organizzazione talmente “ordinario” per chi lo abita, quello delle comunità ebraiche italiane, da essere percepito come la norma.
Eppure il sistema detto “monocratico” che regola la vita degli ebrei italiani (una Comunità omnicomprensiva per ogni città, ed una Unione a riunire e rappresentare tutte le Comunità dello stivale) scontato lo è tutt’altro, considerata la varietà di altri modelli presente – e anzi predominante – all’estero. Se esiste certamente un organo “centrale” di rappresentanza unitaria degli ebrei, infatti, il concetto “totalizzante” sul piano politico, giuridico e gestionale delle Comunità cittadine è davvero estraneo in Paesi come la Francia o ancor più la Gran Bretagna dove la vita e l’organizzazione ebraica sono “disperse” attorno a una moltitudine di sinagoghe e centri ebraici dei più vari orientamenti religiosi e culturali. Una realtà a mosaico ancora più evidente oltreoceano.
Come e perché ha preso forma dunque questo sistema monolitico, e in che modo esso stesso ha plasmato a sua volta il modo di vivere “in comunità” (con la minuscola) degli ebrei italiani?
Sul tema esistono studi e compendi ben più ampi e dettagliati (oltre che autorevoli), ma un “ripasso” per sommi capi appare lo strumento più utile per inquadrare appieno la questione, in modo da poter cogliere – a seconda del proprio punto di vista – pregi, debolezze congenite e opportunità di crescita del modello italico.

Questione di Stato
La libertà, si sa, è traguardo agognato da chi non l’ha mai posseduta. Ma è anche, in ogni tempo e luogo, condizione che intimorisce chi è chiamato ad esercitare il potere politico. Specialmente se questo è giovane, frammentato e incerto.
Non è un caso dunque se l’apertura dei ghetti in cui erano confinati da secoli significò sì per gli ebrei italiani un desiderio irrefrenabile di libertà e vita nuova come pieni cittadini, ma anche per i governanti del fragile Stato nascente una “situazione nuova” da gestire e incanalare con circospezione. Sin dalla ventata di libertà arrivata a fine ‘700 con i soldati napoleonici, insomma, la questione dell’organizzazione dell’ebraismo italiano è sempre stata tutt’altro che una questione meramente interna: piuttosto, a tutti gli effetti, una questione di Stato.
A suggerire un approccio “governativo” che avrebbe segnato, con toni diversi, i successivi 150 anni di storia fu in particolare, agli albori dell’unificazione, il Regno di Sardegna. Meno di dieci anni dopo la promulgazione dello Statuto albertino che aveva concesso agli ebrei piemontesi la libertà, nel 1857, fu la legge Rattazzi a definire la natura delle nuove “università israelitiche” che andavano organizzandosi nel Regno.
“Corpi morali” dediti a provvedere alle esigenze di culto di tutti gli ebrei residenti in un dato territorio, le comunità venivano concepite con tratti del tutto simili agli enti pubblici locali: dotate sì di organi di auto-governo, utili anche per l’efficace esercizio dell’imposizione fiscale, ma con liste elettorali (limitate per genere e censo) e bilanci sottoposti all’approvazione dell’intendente / prefetto.
Accanto al rigido modello piemontese nella nascente nazione avrebbero convissuto tuttavia concezioni diverse, figlie dell’evoluzione di situazioni e approcci locali: modelli comunitari ben più liberali e autonomi s’affermarono ad esempio in altre regioni a forte presenza ebraica come la Toscana, il Veneto, o nella stessa Roma dopo l’annessione. Una diversità che avrebbe influenzato negli ultimi decenni dell’800 l’evoluzione di fatto del modello nazionale: a quello più farraginoso delle “corporazioni di diritto pubblico” piemontese si sarebbe sostituito via via quello delle “libere associazioni”, più consono ad uno Stato propriamente laico.
A quest’evoluzione contribuì certamente anche l’attivismo degli ebrei stessi, primi interessati a darsi un’organizzazione unitaria e bilanciata nell’Italia finalmente unita: fu per loro stessa decisione che al Congresso delle comunità israelitiche di Milano del 1909 venne istituito un Comitato nazionale, che cinque anni dopo sarebbe stato consolidato – sul modello del Concistoro francese – in un vero e proprio “Consorzio delle Università e Comunità israelitiche italiane”: l’antenato dell’odierna Ucei.

Eredità fascista
L’illusione dell’autogoverno – o quasi – dell’ebraismo italiano durò poco. Totalitario e corporativo per natura, lo Stato fascista non poteva certo tollerare un modello del genere, anche prima della rivelazione del suo più feroce volto antisemita. Ri-fissato il principio della preminenza del cattolicesimo come religione di Stato e degradate le altre confessioni a semplici “culti ammessi”, il regime mise mano all’organizzazione dell’ebraismo italiano con il regio decreto 1731 del 1930 e il successivo regolamento d’applicazione.
Nell’ottica della “opportuna vigilanza” da parte dello Stato di tutte le forme di attività, “specie quelle a base collettiva”, la legge ridisegnò di suo pugno la cartina delle Comunità che sarebbero state riconosciute (con esclusioni eclatanti, da Siena a Rovigo a una moltitudine di realtà storiche piemontesi), ne equiparò una volta per tutte la natura giuridica come enti di diritto pubblico, sul modello savoiardo del 1857, e ne determinò la riunione nella rivisitata Unione delle comunità israelitiche.
Tanto gli “enti locali” quanto l’organo rappresentativo nazionale, nel nuovo ordinamento, venivano sottoposti alla rigida vigilanza del potere pubblico, che ambiva ora ad entrare direttamente nel campo regolativo e decisionale dell’ebraismo italiano. Dall’orizzonte delle comunità scompariva del tutto l’istituto dell’assemblea, mentre il consiglio perdeva decisamente di peso – numerico e politico – in favore del presidente, e del rabbino-capo per le questioni di culto: figure esecutive la cui nomina era ora condizionata all’approvazione diretta del ministero dell’Interno. Lo stesso valeva per il presidente dell’Unione. Di fatto, il regime “controllava” i vertici delle comunità, e teneva sotto attento occhio le loro azioni.
La natura razzista e violenta del regime si sarebbe scatenata a partire dall’adozione delle leggi del ’38 e poi negli anni a seguire, ma la sua innata tensione a regolamentare e controllare fin nei meandri interni la vita degli ebrei italiani si rivelò insomma molto prima: e l’eredità di quella normativa avrebbe pesato, formalmente e di fatto, ancora per lunghi decenni sull’inquadramento dell’ebraismo italiano anche dopo la fine delle persecuzioni e il faticoso ritorno della democrazia.

Liberi ebrei in libero Stato?
Stremati, decimati ma sopravvissuti al tentato genocidio nazifascista, con l’adozione della Costituzione repubblicana gli ebrei italiani tornavano a conquistare lo spazio di libertà vissuto solo per pochi decenni prima dell’avvento del regime. Un riconoscimento pieno come cittadini liberi di professare – come tutti gli altri – il proprio culto, ma non un riconoscimento di quest’ultimo alla stregua della religione “dominante”.
Le tracce della stagione politica precedente rimasero in effetti evidenti in diversi ambiti, ma senz’altro in maniera lampante nella “consegna” ai posteri dell’approccio concordatario al rapporto Stato-religioni. Pietra ormai miliare dei rapporti bilaterali con la Chiesa, il Concordato fu in effetti “convalidato” ed acquisì rango costituzionale nella nuova stagione repubblicana. Per gli altri culti, coerentemente, i costituenti cristallizzarono la scelta della strada di parallele “intese”, da negoziarsi su base specifica tramite legge ordinaria.
Di certo fin da subito i culti “acattolici” guadagnavano il diritto, sancito dall’articolo 8, di organizzarsi secondo i propri statuti, purché naturalmente non in contrasto con l’ordinamento giuridico generale.
Per l’adozione della regolamentazione dei rapporti bilaterali con lo Stato tuttavia si sarebbero dovuti attendere come noto altri quattro decenni. Un periodo d’interregno per certi versi “paradossale” considerato che lasciava di fatto in vigore la normativa del 1930, che partiva da princìpi (la distinzione tra religione di Stato e “culti ammessi”) e conteneva indicazioni pratiche (l’“invasione” dello Stato negli affari interni del mondo ebraico) in evidente contrasto col dettato costituzionale.
Per ciò che attiene all’evoluzione del sistema d’organizzazione dell’ebraismo italiano, in ogni caso, quel che è certo è che il modello concordatario adottato dallo Stato giocò un ruolo decisivo nel sospingere nuovamente gli ebrei italiani a percorrere la via del modello monocratico, riassegnando un ruolo fondamentale – per lo meno per la rappresentanza esterna – all’Unione. D’altra parte alla voglia di unità – politica e giuridica – degli ebrei italiani dei decenni dopo la guerra poteva contribuire un elevato grado di “omogeneità culturale”, oltre che l’istinto di ricompattarsi dopo la terribile sciagura della Shoà.

La forza e i limiti dell’intesa
Al termine di anni di lavori, la “moderna” Ucei nacque così dall’Intesa firmata con lo Stato nel febbraio 1987, e divenuta legge due anni dopo. Un documento che ha finalmente riconosciuto agli ebrei italiani – oltre alla piena indipendenza interna promessa dalla Costituzione – diritti a lungo agognati, come quello al riconoscimento del riposo sabbatico o nei giorni di festa a ogni fine lavorativo o pubblico. Ma che ha anche cristallizzato il modello di rappresentanza monocratica che conosciamo.
“Le ventuno Comunità Ebraiche presenti in Italia provvedono al soddisfacimento delle esigenze religiose e delle diverse esigenze associative, sociali e culturali degli ebrei, e costituiscono tra loro l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, espressione unitaria dell’ebraismo in Italia”, sancisce inequivocabilmente lo Statuto. Una mission chiara che la “moderna” Ucei avrebbe assolto tramite un assetto democratico a tutto tondo imperniato su quattro organi fondamentali: il Congresso, espressione di tutte le Comunità del territorio; il Consiglio e la più ristretta Giunta, organi esecutivi chiamati a “governare” l’Unione in ottemperanza alle mozioni e direttrici del Congresso; il Presidente, rappresentante dell’istituzione in ottica interno così come nei rapporti esterni. Importante, nell’ottica del “bilanciamento dei poteri”, anche il ruolo assegnato al Collegio dei Probiviri, all’Assemblea Rabbinica e alla Consulta Rabbinica.
La riforma dello Statuto approvata nel 2010, che ha di fatto abolito l’istituzione del Congresso, sostituendolo con un Consiglio più ampio che deve fungere da “parlamentino”, non è da considerarsi in quest’ottica che una “variazione di schema” rispetto all’architettura monocratica di tale sistema.
Modello vincente? Perdente? Elemento di forza o segno di “incompletezza” dell’ebraismo italiano? A ciascuno la sua valutazione. I problemi, indubbiamente, sono molti. La semplice mole di ebrei italiani non iscritti ad alcuna Comunità dà certo l’idea dei limiti della rappresentatività di esse, e dell’Unione nel complesso. Un problema aggravato dai tassi quasi universalmente iper-ridotti di partecipazione alle elezioni interne, comunitarie o nazionali.
Al di là del disinteresse oggettivo di una significativa porzione di ebrei italiani per qualsiasi attività pubblica, religiosa o altra, delle Comunità, un altro problema appare ancor più rilevante: quello della “diversificazione” andata facendosi sempre più evidente del panorama ebraico in Italia.
“E’ facile prevedere la nascita di comunità parallele del cui bagaglio culturale non fanno parte né la storia dell’ebraismo italiano, né quella dell’ebraismo europeo; comunità che non hanno vissuto la Rivoluzione francese, né il Risorgimento italiano, né il 1848, né il 1870, né la Shoah, né la Resistenza antifascista, né la Liberazione”, scriveva già nel 1998 Guido Fubini nella seconda edizione del suo La condizione giuridica dell’ebraismo italiano (Rosenberg & Sellier) pensando alla difficile integrazione delle comunità “straniere” andate via via stratificandosi in Italia.
Ebrei libici e persiani, libanesi ed egiziani, Lubavitch ed altri ancora avrebbero certamente arricchito il portato culturale dell’ebraismo italico, ma sarebbero entrati a fatica nei meccanismi “monocratici” previsti. E così inevitabilmente è stato, creando situazioni de facto, in più di una città, in cui l’unitarietà della Comunità appare poco più che un artificio giuridico.
Ma la divaricazione interna nella comunità ebraica ha riguardato senza dubbio anche il grado e perfino l’approccio alla religiosità: la distanza culturale tra osservanti e laici è andata ampliandosi sino a raggiungere in più casi il livello di guardia dell’incomunicabilità, mentre a rompere l’unicità d’approccio di un ebraismo sostanzialmente “modern orthodox” sono arrivati a poco a poco anche nel Belpaese i venti di altre interpretazioni dell’ebraismo, a partire da quello riformato o “progressista” d’ispirazione americana. Che ora, pur restando entro numeri di aderenti contenuti, chiedono riconoscimento.
Può il modello italico trovare al suo interno le risorse per rispondere efficacemente a queste sfide?

Simone Disegni
Collaboratore

Politologo di formazione, giornalista di professione, si occupa in particolare di politica italiana ed europea. Già impegnato nel lancio del festival Biennale Democrazia a Torino e del think-tank ThinkYoung a Bruxelles, lavora per Reset e Good Morning Italia e collabora con altre testate nazionali.


3 Commenti:

  1. Si può notare anche qui un inizio di evoluzione spontanea verso modelli di affiliazione non esclusiva, non binaria e non necessariamente organizzata in maniera stabile. Un esempio di vent’anni fa lo trovammo a Tucson, AZ, con tanti piccoli batei knesset “rivali”, però con un certo flusso di persone dall’uno all’altro, un grande centro sociale non denominational apprezzato soprattutto per il cuoco italiano e la palestra, con maggioranza dei membri non ebrei – ed affiliate ma indipendenti scuole di vario grado. In una società libera e fluida l’alternativa alla liquefazione è l’auto-organizzazione leggera.

  2. Grazie dei vostri commenti, siamo contenti di essere riusciti, tramite il lavoro di Simone, a raccontare le origini di un modello di rappresentatività che potrebbe aver fatto il suo tempo e necessitare di cambiamenti. Diciamo “potrebbe” proprio perché neanche al nostro interno abbiamo tutti le stesse idee in merito, ma crediamo che sia opportuno almeno parlarne.


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