Cultura
Yerushalmi: una Haggadah per immagini

Nell’edizione dell’Haggadah di Pesach di Praga del 1526, forse la prima versione moderna il figlio cattivo è un lanzichenecco, ovvero un nemico. L’edizione del 1599 di Venezia alterna le immagini a un testo in lingue diverse. Tracciamo la storia di uno dei testi ebraici per eccellenza attraverso le sue immagini.

Il testo della Haggadah di Pesach è forse il testo di famiglia più consolidato. Testo la cui autorevolezza sta nell’uso prolungato, nei segni che il tempo ha raccolto – quelli delle pause della lettura e della melodia, ma anche quelli testimoniati dalle macchie dovute all’uso (delle mani, ma anche del cibo che su quel testo è caduto).

La Haggadah è forse il testo a stampa che più di altri testimonia della storia delle abitudini di una famiglia ebraica. Forse oltre che come testo di un rito vale la pena considerarlo come un oggetto, un oggetto in cui conta tantissimo la storia di chi lo possiede e dei passaggi generazionali di mano che ha subito nel tempo. Un tema su cui anni fa con intelligenza e con curiosità ha richiamato l’attenzione Hayim J. Yerushalmi nel suo Haggadah and History 

Che cosa è la scena del Seder di Pesach? Più che un rito è un atto performativo, una sequenza di azioni dove ogni persona è un attore: chi legge, chi canta, chi interrompe, chi parla, chi domanda, chi risponde. Un atto dove sono previsti anche: momenti di interruzione, gesti, dove spesso anche l’ordine di ciò che si mangia ha un suo profilo statuito. Si entra nel tempo e nello spazio del seder così come si entra in una fiaba, dentro a quello spazio valgono regole, presa della parola, gesti, parole che, proprio perché regolate da una ritualità, da una ripetizione consolidata nel tempo, sono per questo autorevoli.
In breve un copione.

Le immagini nelle diverse edizioni dell’haggadah sono importanti perché sono un indizio profondo del vissuto di chi legge. Molto più del testo, che è unificato. Significa che il testo che ci troviamo di fronte è il risultato di due processi distinti.

La struttura narrativa risponde a una storia dell’uso che implica anche una storia dell’immaginario dell’ascoltatore. E come sappiamo, l’ascoltatore è prevalentemente un bambino. Deve immaginare il testo.
Ma per immaginarlo, prima ancora delle parole, o dell’intreccio del racconto, la sua attenzione si fissa prima di tutto sulle figure.
La cultura del parlato e la storia della lettura, soprattutto nel tempo dell’alfabetizzazione, dove tutti sanno leggere, ha mandato indietro le immagini, le incisioni, la scrittura iconografica della Haggadah, talvolta fino a farla retrocedere a elemento di contorno. E tuttavia l’apparato iconografico che accompagna il testo della Haggadah, non è solo un contorno. Per certi aspetti non solo è il primo testo che vediamo, ma talvolta è anche quello che è rimasto più profondo nell’immaginario della nostra infanzia e che ci portiamo dietro nelle edizioni che riapriamo la sera del Seder.

Non è solo per questo che le immagini sono importanti. Le immagini nelle diverse edizioni della haggadah sono importanti perché sono un indizio profondo del vissuto di chi legge. Molto più del testo, che è unificato. Significa che il testo che ci troviamo di fronte è il risultato di due processi distinti.
Il primo riguarda come si forma e si costruisce il testo . Questo dato è rilevante perché, al di là degli apparati di contorno costituiti dalle parti poetiche o musicali che sono collaterali al testo, il testo è sostanzialmente un testo unico per tutto il mondo ebraico. In breve è un testo condiviso che prescinde dalla storia materiale e geografica delle diaspore ebraiche.
Questa storia, invece, pesa ed è determinante nella parte iconografica ovvero negli apparati che caricano di significato e che danno significati alla lettura del testo. E’ questa parte che ha una caratteristica storica e fa di ogni Haggadah un testo particolare, ma anche un testo che ci racconta l’immaginario dei diversi gruppi ebraici nel tempo.
Così, nell’edizione di Praga del 1526, forse la prima versione moderna , è interessante come venga raffigurato il figlio cattivo: è un lanzichenecco, ovvero un nemico. L’edizione del 1599 di Venezia, invece alterna le immagini a un testo che lavora su diverse lingue. E ancora dieci anni dopo, a Venezia, l’edizione della nuova Haggadah presenta per la prima volta la raffigurazione iconografica delle piaghe.

Questa raffigurazione la ritroveremo in tutte le edizioni a stampa che circolano in Italia almeno fino alla fine del XIX secolo, compresa nell’edizione di Morpurgo del 1864, forse la versione più famigliare per il mondo ebraico italiano, la stessa che in alcune edizioni, comprende la incisione della scena del roveto ardente da cui fuoriesce l’immagine di Dio, con tanto di barba.
Oppure nel testo dell’Haggadah di Oporto, che nel 1928 è diffusa tra le famiglie marrane. Un testo molto ritualistico e che ci consegna una versione che di fatto è una preghiera, più che un rito o un canone di gioco di ruoli. Probabilmente la testimonianza più efficace di un testo che si ascolta, più che leggerlo, che dice di un rito che è prima di tutto svolto per sapere chi si è, più che per
celebrare una data. E che forse non importa nemmeno leggere in prima persona. Ma che è importante tenere in mano, per segnare il senso di una storia, che prima di essere di liberazione, racconta della persecuzione.

David Bidussa
Redazione JOI Mag

Classe 1955, nato e cresciuto a Livorno, studia a Pisa dove inizia la facoltà di Filosofia, ma si innamora di quella di Storia. Ha insegnato al liceo e all’università, da anni lavora alla Fondazione Feltrinelli in quanto Direttore dei contenuti editoriali. Si definisce uno storico sociale delle idee (ci ha assicurato essere una vera specialità, benché nessuno finora abbia capito cosa sia). Scrittore e giornalista, dicono che il suo branzino al sale sia leggendario.


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