Cultura
25 aprile, ecco perché andare in manifestazione

Una data fondamentale del calendario civile, per ricordarci che libertà e resistenza sono valori irrinunciabili. Oggi

Che nessuno metta mai in dubbio il 25 aprile. È una data importante, fondamentale per la nostra democrazia. Abbiamo tremato, ci siamo sdegnati quando nel 2011 Berlusconi propose di abolirlo dal calendario delle ricorrenze civili. Questo giorno ci ricorda che la libertà e la resistenza all’oppressione sono valori irrinunciabili e che dove l’indipendenza di un paese venga minacciata bisogna attivarsi per impedirlo con ogni mezzo. Parlando di questi temi però è difficile non riflettere sul dibattito nazionale che si svolge in questi giorni soprattutto sui social e coinvolge l’attuale guerra tra Russia e Ucraina; un dibattito che ha investito anche l’associazione dell’Anpi, l’associazione nazionale dei partigiani italiani, nata per tutelare la memoria storica di quanto avvenne in Italia durante il fascismo, tra il 1943 e il 1945. Un ente importante, soprattutto adesso che i partigiani e i testimoni ci stanno lasciando. 
 È da tempo tuttavia che l’Anpi ha preso posizioni che, a detta di molti, esulano dal suo mandato originario, diventando un contenitore di correnti politiche, di opinioni personali sui fatti, perdendo la sua natura di portavoce nazionale e diventando un ricettacolo di frange di partito. Sono anni ad esempio che il giorno della liberazione, che dovrebbe coinvolgere tutto il paese senza distinzioni, ha scavato un divario tra Anpi e Comunità ebraiche, quando nel corteo si sono viste sfilare le bandiere palestinesi mentre quelle con la stella di David e della Brigata ebraica continuano ad essere invise. Un atteggiamento che risulta essere divisivo, con il risultato che alla fine molti ebrei hanno deciso di disertare la manifestazione del 25 aprile; ed è un peccato. Non sto a dilungarmi sulla questione delle bandiere palestinesi (intanto non esiste una bandiera palestinese perché ancora non esiste uno stato chiamato Palestina) dato che questo richiederebbe un articolo a parte. Bisognerebbe tornare ai fatti, ricordare che all’epoca della guerra gli arabi appoggiavano Hitler.
Ma il punto è un altro, ovvero che l’Anpi prende una posizione politica sul conflitto israelo-palestinese, fa una scelta dettata da un’interpretazione personale che identifica soltanto nei palestinesi le vittime oppresse quando la questione è politicamente più complessa, creando tensioni, mentre dovrebbe essere un’ente di carattere storico a tutela dei valori della libertà di tutti. Qualcuno mi dirà: allora lo vogliamo imbalsamare? Certo che no, però è necessario ricordarne perlomeno la vocazione originaria: la tutela dell’aggredito davanti a chi lo vuole annientare. Un chiarimento che si rivela indispensabile  soprattutto dopo le recenti posizioni del presidente Pagliarulo che prima ha chiesto di verificare le “responsabilità effettive” circa la strage di Bucha e poi ha escluso (in un primo tempo, ha ritrattato proprio da poche ore) che sfilassero nel corteo le bandiere ucraine. Non considerando cioè l’Ucraina un paese attaccato che lotta contro un invasore ma un paese in guerra esattamente come la Russia. La stessa cosa ha sembrato affermare il recente Manifesto per la marcia della pace di Assisi (si è scoperto che era stato utilizzato anche per la guerra del Kossovo: beh, forse prima di riciclarlo bisognava pensarci due volte) che mostra dei civili, una madre e un bambino, in mezzo a scariche di proiettili che vengono da ambo le parti. Come se equiparare l’offensiva russa, con le sue efferatezze, le fosse comuni, gli stupri e le violenze alla popolazione fosse equivalente alla difesa contro i militari di Putin che il popolo ucraino sta sostenendo per sopravvivere. Anche su questo non mi dilungo perchè ha già scritto un articolo efficace Stefano Cappellini su Repubblica, mettendo in evidenza proprio questo aspetto. Pagliarulo insomma non prende una posizione in difesa del popolo che rischia l’annientamento, è quantomeno ambiguo e inneggia a una pace che si potrebbe definire “pelosa”, come illustra in modo piuttosto chiaro Sergio Staino (tra l’altro storico vignettista proprio dell’Anpi). Si mostra un uomo – simbolo dell’ente – bendato da una bandiera pacifista che gli impedisce di vedere. Cappellini ha anche contestato il manifesto scelto dall’associazione per la giornata: una piazza italiana dove simpatici vecchietti spiegano la storia ai più giovani, con tanto di bandiere della pace e tricolori che però sembrano ricordare più l’Ungheria di Orban che il suolo patrio.
Sempre secondo Pagliarulo non si dovrebbe favorire il riarmo e l’intervento della Nato – vietate le bandiere al corteo –  e comunque non inviare armi alla resistenza ucraina. Una posizione che è stata contestata anche all’interno (l’Anpi di Bologna si è subito smarcato) e che ha infiammato i social di una violenza inaudita, con schieramenti aggressivi, minacce e insulti da ambo le parti, manco che in guerra ci fossimo noi, popolo invaso del web. Il punto è che quest’ala di partito che il presidente dell’Anpi rappresenta considera la guerra attualmente in corso non tra Russia e Ucraina, ma tra Putin e Stati Uniti, con uno Zelensky fantoccio in mezzo, marionetta manovrata dall’America. Uno Zelensky che il vignettista Vauro si affretta a rappresentare con un grosso naso adunco, per ricordare che sì, quello è un ebreo. E qui entriamo in gioco “noi”. Ed è il solito gioco del dualismo ebraico per il quale siamo sempre stati due cose contemporaneamente. In passato potevamo essere capitalisti corrotti, avide mani adunche sul mondo ariano oppure bolscevichi rivoluzionari pronti a distruggere l’equilibrio dell’Occidente. E anche adesso, lo dimostrano i commenti sui social in cui è incappata anche la sottoscritta, siamo in mezzo a un fuoco di fila incrociato. Se appoggiamo Zelensky siamo servi della Nato, accusati di seguire, come mi è stato detto, “il richiamo della foresta”, la difesa ad oltranza di un “noi” (di nuovo) non meglio identificato. D’altra parte gli ebrei sono anche quelli che appoggiano Putin, amico di Netanyahu, e quindi siamo ugualmente responsabili. Insomma, dovunque ci rivolgiamo siamo colpevoli e disprezzabili. Per non parlare dei correligionari che si accusano gli uni con gli altri sostenendo (a ragione, a dire il vero) che l’Ucraina è un paese dal passato antisemita dove albergano ancora tendenze naziste come si è visto nei fatti di Odessa del 2014. Aggiungerei che anche della Nato sarebbe difficile fare un santino; e lo dice una che ha perso un cugino nella dittatura di Pinochet di cui conosciamo bene i retroscena e le responsabilità americane.
Ma il punto non è questo. E qui torniamo al 25 aprile. Il punto è che qui c’è un paese che aggredisce, uccide, violenta e uno che è costretto a difendersi. Le fosse comuni sono un fatto. I massacri di Bucha sono un fatto. Tutte le altre considerazioni vanno rimandate a dopo l’urgenza, dopo quello che rischia di diventare il genocidio di un popolo. Per adesso ricordiamoci, come nella canzone, che il partigiano muore per la libertà. E cerchiamo di scendere con umiltà in piazza il 25 aprile, per rispetto a quei morti. Ascoltando non la voce dell’odio, della faziosità  e dei particolarismi, ma quella della coscienza davanti al massacro.
Laura Forti
collaboratrice
Laura Forti, scrittrice e drammaturga, è una delle autrici italiane più rappresentate all’estero. Insegna scrittura teatrale e auto­biografica e collabora come giornalista con radio e riviste nazionali e internazionali. In ambito editoriale, ha tradotto per Einaudi I cannibali e Mein Kampf di George Tabori. Con La Giuntina ha pubblicato L’acrobata e Forse mio padre, romanzo vincitore del Premio Mondello Opera Italiana, Super Mondello e Mondello Giovani 2021. Con Guanda nel 2022 pubblica Una casa in fiamme.

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