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Addio a Jonathan Sacks, il rabbino del dialogo

Un saluto al filosofo e uomo di fede, all’amico e maestro del dialogo che cercava di conciliare il singolare con l’universale

La notizia della morte di Jonathan Sacks è arrivata all’improvviso, un fulmine a ciel sereno, lo stesso giorno della vittoria di Biden. Non ce l’aspettavamo, anche se era malato da tempo. Ci ha spiazzato e ha gettato un velo di amarezza sui festeggiamenti per il ritorno della democrazia negli Stati Uniti, spegnendo l’entusiasmo di molti, ebrei e non.

Ed è proprio questa la sensazione. Di essere stati traditi. Che l’umanità abbia perso troppo presto una delle sue anime più intense e significative, una voce che sapeva parlare a tutti, una coscienza collettiva profonda. Jonathan Sacks era tante cose insieme e forse è questa la sua caratteristica più importante e il motivo per cui mancherà a tanti, a persone di credenze religiose e politiche diverse, ai laici e agli ortodossi. Aveva una formazione accademica, si era laureato in filosofia a Cambridge, un ambiente ateo e secolare per vocazione. E’ stato un grande rabbino, un capo spirituale, un pensatore. Era un amico saggio dalla voce pacata che ci piaceva ascoltare nelle sue lezioni settimanali, l’appuntamento fisso dei “Convenant and Conversation”, dove commentava le parashà con una intelligenza lucida, affilata, con un linguaggio accessibile a tutti, raccontando storie, a volte perfino aneddoti divertenti, sapendo trovare nella tradizione significati sempre nuovi e contemporanei. Ma aveva soprattutto una passione interiore che sapeva toccare e riscaldare ebrei e non ebrei, giovani e persone mature.

Era appassionato di cultura in generale, non solo ebraica. Era capace di citare Shakespeare, i classici della letteratura, Einsten e Wittgenstein ma anche il musical Hamilton. Di essere curioso di ciò che avveniva nel mondo cogliendone novità e fermenti per analizzarli e fare una riflessione, senza mai far pesare una presunta superiorità, ma mettendosi sullo stesso piano dei suoi interlocutori. La sua formazione filosofica si faceva sentire nell’interpretazione che dava della conoscenza; uno dei suoi grandi temi era il ruolo e l’unicità del pensiero ebraico. Aveva uno sguardo originale nei confronti del dualismo Atene Gerusalemme con cui spesso è interpretato il mondo occidentale: il mondo di Platone e Socrate e dall’altra parte quello di Abramo, Mosè e i profeti. A suo avviso questi due archetipi così profondamente diversi erano stati uniti solo in apparenza dal cristianesimo, rimasto più legato al mondo greco (a cominciare dalla traduzione della Bibbia, perdendo l’ebraico originario). Per entrare nell’universo dell’ebraismo, sosteneva, è necessario tornare alla radice, ritrovare il significato profondo delle parole, parole che sappiano parlare all’uomo di oggi. Imparare un nuovo linguaggio, cercare un approccio diverso alla verità e alla conoscenza da quello a cui ci hanno abituato.

In questa rivendicazione dell’unicità del ruolo e del pensiero ebraico non c’è però alcun pregiudizio o svalutazione da parte di Sacks rispetto al mondo cristiano,  con cui ha sempre mantenuto un rapporto di grande rispetto, così come verso quello islamico. E’ stato uno dei pochissimi rabbini capaci di coniugare apertura mentale, cultura, spiritualità con un eccezionale carisma umano. Un carisma che gli permetteva di arrivare a un vasto e differenziato uditorio, a osservanti e a moderati. Era amato dai Haredim come dai progressisti senza perdere di vista il contatto con Israele che difendeva strenuamente anche se prendeva a cuore le problematiche relative al bisogno di una pace duratura.

Ci mancherà questo straordinario individuo che credeva fortemente nel dialogo: quello tra gli uomini ma anche quello tra uomo e Dio. Anche se il divino non può essere ridotto a persona, Sacks ribadiva che il rapporto di ciascuno di noi con la divinità è intimo e personale. Elohim è un Dio distante, così “come lo incontriamo in natura”, Hashem è il suo nome proprio: quello a cui ci rivolgiamo e che ognuno di noi può scoprire e interrogare nell’avventura della fede. Una concezione di  Dio universale e una individuale. Un Dio che si è rivelato a tutte le civiltà ma anche un Dio che con il popolo ebraico ha instaurato un rapporto di amore e rivelazione. Essere ebrei in generale quindi significa essere in contatto totale con la propria tradizione, ma anche agire per il bene universale degli altri, al di là del loro credo. Questa è la formula di pace con cui Sacks si congeda, in questa epoca di conflitti e suprematismi: una missione di responsabilità e di speranza.  La sfida di conciliare il personale con l’universale, Elohim con Hashem, di vivere il confronto con l’unicità di tutte le culture senza perdere l’identità delle proprie origini. 

Laura Forti
collaboratrice
Laura Forti, scrittrice e drammaturga, è una delle autrici italiane più rappresentate all’estero. Insegna scrittura teatrale e auto­biografica e collabora come giornalista con radio e riviste nazionali e internazionali. In ambito editoriale, ha tradotto per Einaudi I cannibali e Mein Kampf di George Tabori. Con La Giuntina ha pubblicato L’acrobata e Forse mio padre, romanzo vincitore del Premio Mondello Opera Italiana, Super Mondello e Mondello Giovani 2021. Con Guanda nel 2022 pubblica Una casa in fiamme.

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