Un romanzo che indaga le dittature, le libertà, la memoria e la scrittura
È da poco uscito per i tipi di Guanda un volume importante, Indagine su un colpo di stato di Ariel Dorfman, tradotto da Daniela Majerna. Il titolo originale, The Suicide Museum, forse era più bello, ma questo si capisce solo dopo aver letto il libro, per cui si è voluto dare la precedenza alla struttura narrativa: l’indagine – perché di questo si tratta – su un tema ancora sensibile e senza soluzione, la morte di Salvador Allende. Si trattò forse di suicidio? Oppure il presidente, dopo aver fatto uscire i suoi uomini dalla Moneda, tentò di sparare a un gruppo di soldati che reagirono ferendolo e poi lo finirono con il calcio del fucile? E la pistola usata era quella che gli regalò Fidel Castro? Segno di resa, quindi, oppure gesto di ribellione?
L’autore, Ariel, viene convocato dal miliardario Hortha, magnate dell’industria della plastica, figlio di una madre che ha conosciuto l’inferno di Treblinka. Hortha vuole venire a capo del mistero relativo alla fine di Allende e commissiona a Ariel un’inchiesta. Formalmente lo fa perché ha un’idea folle per la mente, creare un museo del suicidio, che comprenda quello umano ma anche quello del pianeta in via di sparizione per colpa dell’indifferenza della società, la cui ultima sala venga dedicata proprio al Presidente cileno. Formalmente Ariel accetta per soldi perché è un esule, scrittore, drammaturgo che ha sempre bisogno di liquidità (la vicenda si ambienta diverso tempo fa). Ma in realtà i due sono accomunati da uno stesso senso di colpa che devono espiare: Hortha, sopravvissuto alla Shoah e al trauma del suicidio della moglie, si è arricchito proprio a spese di quell’ecologia che vorrebbe sostenere a parole; Ariel, consigliere del capo del gabinetto, non era presente alla Moneda il giorno che Allende morì e non riesce a trovare pace per questa mancanza.
I due personaggi sono entrambi ebrei che hanno conosciuto la violenza e la dittatura, talmente speculari che a volte viene il sospetto che Hortha sia un alter ego letterario, un doppio dello scrittore, che non esista nella realtà. Il museo dei suicidi dovrebbe far riflettere sul valore della vita umana e sulla capacità che abbiamo di accudire l’altro. Contiene i nomi di Primo Levi, Bruno Bettelheim a Cesare Pavese, la cui frase è inscritta all’ingresso: “L’unico modo per sfuggire all’abisso è di guardarlo e misurarlo e sondarlo e discendervi”. Questi argomenti dolorosi risuonano nella coscienza di Dorfman che si sente responsabile per non aver riconosciuto i segni della resa nel suo eroe, per non essergli stato d’aiuto nel momento decisivo, per aver tradito il proprio paese con l’esilio. Gli risuonano continuamente nelle orecchie le ultime parole del presidente, quel discorso in cui parlava di un futuro migliore, di uomini liberi, il suo popolo, che avrebbero alla lunga sostituito gli assassini. Tutti i morti che hanno donato l’esistenza per proteggere qualcuno o salvare un ideale, da quelli caduti nelle guerre civili ai prigionieri dei lager, gli parlano attraverso la voce di quell’uomo leggendario, scomparso l’11 settembre.
Cos’è giustizia, cos’è umanità? si chiede Ariel. L’idea profetica che alla fine verrà fatta chiarezza sui fatti del passato ha ragione di essere in un Cile ancora diviso sul passato, dove i criminali continuano a godere di immunità e sono liberi di passeggiare per strada? Allende viene seppellito al cimitero Santa Inés a Vita del Mar in una tomba senza nome. Ma chi c’è davvero nella bara? Il libro è un susseguirsi di domande che rimandano l’una all’altra vorticosamente.
I militari per indicare il Golpe utilizzavano il nome Operacion Silencio. Dorfman andrà contro quell’abisso muto di cui parla Pavese, cercherà di colmarlo, di ascoltare testimonianze, arriverà perfino ad esumare di notte il cadavere per verificare che sia proprio lui. Resta aperta la questione del suicidio/omicidio che viene lasciata irrisolta perché gli ultimi due testimoni danno versioni credibili ma opposte.
Ma non è questo in fondo la memoria, una trama letteraria a cui si finisce per credere? Non è tutta la scrittura un’indagine per risalire alla verità di se stessi e scendere sempre più in fondo, fino a toccare la profondità e il dolore? Ariel capisce che è tempo di seppellire il simbolo e di trovare la forza di abbandonare il Cile, questa volta non perché costretto dai militari ma di propria volontà, e per sempre. Partire per salvarsi, anche a costo di essere per tutta la vita “un uomo senza un paese”. La vita prima del colpo di stato non esiste più, è congelata in un’idea, e bisogna proseguire, affrontare il lutto, accettare il vuoto.
Perché alla fine è di questo che il libro parla, della perdita dei compagni e dei valori, prima ancora di essere una vera indagine investigativa sulla morte di Allende, a cui nessuno potrà più dare una risposta.