Cultura
Arte israeliana a Venezia. In due mostre

Ilit Azoulay e Ronit Keret alla Biennale d’Arte

Con la riapertura della prima Biennale d’Arte post-covid, due artiste israeliane sono state invitate a rappresentare Israele a Venezia: Ilit Azoulay, presso il Padiglione israeliano, con l’opera Queendom e Ronit Keret, con il lavoro Tears presso Palazzo Mora, uno dei padiglioni satelliti della Biennale 2022. The Milk of Dreams, questo il titolo della manifestazione di quest’anno, ha già lasciato un segno nella storia delle Biennali – e dell’arte in generale – per la scelta, da parte della Chief Curator Cecilia Alemani, di invitare la più alta percentuale di donne mai viste prima: circa il 90% tra tutti gli artisti esposti.

In Queendom – il cui titolo di per sé riflette l’approccio curatoriale dalla spiccata attenzione nei confronti del genere – la Azoulay esplora e reinterpreta la ricca collezione d’arte islamica del celebre archeologo ebreo, di orgine anglo-austriache, David Storm Rice (1913-1962), donata, dopo la sua morte, al Museum of Islamic Art di Gerusalemme. Nella sede del padiglione israeliano, i cimeli di metallo di questa collezione, di epoca medioevale, sono stati decomposti e riassemblati, attraverso dei fotomontaggi, sotto un soffitto color blu che, come osservato dalla critica Smadar Sheffi, ricorda la Cappella degli Scrovegni di Giotto, nella non lontana Padova, offrendo una nuova prospettiva, quasi onirica, nel rileggere questi artefatti della civiltà islamica.

Curata da Shelley Harten, questa mostra sembra essere un naturale punto di incontro tra artista e curatore, grazie al precedente interesse di Harten per il modo in cui la cultura orientale e araba sia stata rappresentata e “orientalizzata” nell’arte museale sionista, e il profondo coinvolgimento di Azoulay nella ricerca storica, che attraverso i suoi fotomontaggi su larga scala sfidano una lettura lineare della storia. Nello stesso padiglione, infatti, nella serie Fake Walls Azoulay ha indagato, sempre attraverso la tecnica del fotomontaggio, come i muri frettolosamente eretti nel sud di Tel Aviv nei primi anni della fondazione dello Stato siano stati costruiti lasciando all’interno del calcestruzzo non solo la sabbia del mare, con tanto di conchiglie e lische di pesce, ma persino fibbie per cinture e altri rifiuti finiti erroneamente nel calderone. Attraverso un’operazione di archeologia urbana, le sue opere mostrano dunque non solo i muri della Città Bianca, oggi ormai fatiscenti, ma anche la sua fondazione, avvenuta in modo repentino – a tratti senza visione di lungo periodo – specchio della politica dell’intero Paese.

Se il padiglione israeliano strizza l’occhio, al tempo stesso, sia ai paradossi del sionismo che a quelli del mondo dell’arte e del collezionismo, in Tears, curata da Vera Pilpoul, Ronit Keret esce dai confini di Israele esplorando tematiche di portata universale, come lo scioglimento dei ghiacciai, e i relativi i disastri ambientali causati dall’era del riscaldamento globale, attraverso un estesa installazione site specific, che unisce il sound alla video art.
Si tratta di un progetto iniziato nel 2017 con cui la Keret ha cominciato a versare “lacrime” attraverso la sua arte, che in questo modo diventa una forma di denuncia nei confronti dello sradicamento dell’essere umano rispetto al suo territorio.
In un’intervista rilasciata l’anno scorso a Portfolio, Keret aveva spiegato che l’idea era stata concepita mentre aveva visto, con i propri occhi, il ghiacciaio Perito Moreno in Argentina: “Una mattina mi sono svegliata con la forte sensazione che dovevo proteggerlo e salvarlo, tenendone un registro”.

In questa istallazione costruita appositamente per lo spazio di Palazzo Mora, la scelta di utilizzare un materiale come il polistirolo – bianco e, apparentemente, candido – rappresenta in realtà il tentativo di riutilizzare un prodotto industriale, e inquinante, che la Keret ha recuperato dalle strade di Israele, proprio per fare del materiale stesso il protagonista del grande degrado ambientale, conferendo al suo lavoro una tensione, tra forma e contunto, quasi paradossale.

Due mostre agli antipodi e anche per questo complementari, aperte al pubblico fino alla chiusura della Biennale: il 27 novembre 2022.

Fiammetta Martegani
collaboratrice

Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.


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