Cultura
Avigdor Lieberman, l’ago della bilancia della politica israeliana

Chi è l’uomo che ha reso l’ultima legislatura la più breve della storia israeliana? Storia e storie di un passato recente e di un futuro prossimo

Esibisce in pubblico quello che i francesi chiamano physique du rôle. Non a caso, tra i diversi mestieri che ha fatto per mantenersi c’è anche stato quello di buttafuori in un locale notturno. Al netto del discutibilissimo esercizio di fisiognomica, l’antropologia somatica che ascrive direttamente e implacabilmente ai tratti esteriori del fisico la dimensione caratteriale dell’individuo, non si può però dire che Avigdor Lieberman non abbia l’aspetto del lottatore. Ed anche la sostanza. Con Benjamin Netanyahu, infatti, si è comportato da buttafuori, facendogli fallire l’ipotesi, altrimenti praticabilissima sul piano parlamentare, di un governo, quello che il voto israeliano del 9 aprile scorso aveva in qualche modo delineato. Per capire le ragioni di una mancata alleanza, problema che rischia di riproporsi dopo il 17 settembre, quando il Paese, dopo la sua più breve legislatura, tornerà alle urne, è allora bene soffermarsi da subito sul profilo biografico di Ėvet L’vovič Liberman (traslitterabile come Evik o Evit Lvovitch), così come l’anagrafe sovietica (oggi sarebbe moldava) lo registrò all’atto di nascita a Chișinău, nel giugno del 1958.

Dall’Unione Sovietica a Israele

Il padre di Avigdor, Lev, da giovane era stato membro del Betar, il movimento giovanile del partito revisionista di Vladimir Ze’ev Jabotinsky (anche qui la traslitterazione è a discrezione propria), la destra sionista. Combattente nelle file dell’esercito sovietico, sopravvissuto alla prigionia tedesca, fu poi deportato in Siberia dalle stesse autorità moscovite. Non era l’unico, scontando, insieme a molti suoi commilitoni, la “colpa” di essere entrato in contatto con il nemico, fatto che per la Russia stalinista adombrava da subito l’ipotesi di un qualche ibridazione ideologica. Avigdor-Evit, dopo avere compiuto studi da perito agronomo nella città d’origine ed essersi poi spostato a Baku, in Azerbaigian, a vent’anni immigrò in Israele. La sua scelta anticipava di più di un decennio il grande flusso di espatrianti ebrei che, la caduta del muro di Berlino e gli accordi tra Gerusalemme e Mosca, avrebbero favorito. Allora, lo spostarsi dall’Urss in Israele aveva ancora il sapore della rottura di un crisma ideologico, quello per cui si era prima sovietici e poi ebrei. Non era peraltro una scelta facile poiché le autorità si impegnavano attivamente a defatigare l’emigrante. Giunto in Israele, il giovane moldavo assolse al servizio militare. Non poteva risparmiarselo né, in tutta probabilità, ci pensò. Per un ebreo non sabra era e rimane una delle più importanti porte di accesso alla piena cittadinanza, quella che non è definita solo dalla carta d’identità (che in Israele indica comunque qualcosa di più di un mero riscontro amministrativo, certificando semmai quella composita e altrimenti indefinibile identità che implica l’appartenere ad un tale Paese, soprattutto per acquisizione e non per nascita) e dal passaporto (che serve ad attenuare un poco il senso altrimenti claustrofobico del risiedere in una regione abitata da vicini piuttosto ostili). Nel mentre cerca di conseguire un diploma accademico all’Università ebraica di Gerusalemme, dedicandosi alle scienze politiche internazionali, lavora come può. La sua fama di buttafuori, che già abbiamo richiamato, gli deriva da questo periodo interinale. Sposatosi, con prole a carico, va ad abitare a Nokdim, un insediamento comunitario ebraico, in Cisgiordania, più precisamente a sud di Betlemme, tra i rilievi della Giudea settentrionale. Non più di 2.300 persone, per intendersi.

Negli anni di Bibi the King

Probabilmente vicino, in un primo tempo, al Kach, la formazione razzista ed estremista di destra fondata dal rabbino Meir Kahane, si sposta poi verso il Likud. La sua attività parlamentare inizia nel 1999, quando viene eletto alla Knesseth. Sono già gli anni di «Bibi the King», quando cioè la destra israeliana viene progressivamente assorbita dalla centralità di Netanyahu. Sono anche gli anni della trasformazione del Likud, non la prima nella storia del partito, ma quella che lo consegna ad un orizzonte politico dove il polo antagonista, la sinistra, declina definitivamente. Se si vuole trovare il momento della svolta l’anno fondamentale bisogna allora guardare al 2000, quando il tentativo di Ehud Barak, appoggiato da un declinante Bill Clinton, di negoziare un accordo definitivo con la controparte palestinese, il Camp David summit, fallisce dinanzi al rifiuto di Yasser Arafat. Poco tempo dopo, con la contestata visita di Ariel Sharon alla spianata delle moschee, i disordini che ne conseguirono e l’avvio della seconda Intifada, le forze politiche israeliane dovettero ridefinire la loro posizione rispetto non solo al rapporto con i palestinesi, oramai consegnatisi ad una “effervescente evanscenza” politica (di lì agli anni successivi sarebbe seguita l’affermazione elettorale di Hamas, che avrebbe segnato definitamente la diarchia con l’Olp), ma anche rispetto a tutti gli altri campi dell’agenda politica d’Israele.

La nascita del suo partito, Yisrael Beitenu

Non è un caso se è proprio in quei frangenti che nasce Yisrael Beiteinu, «Israele casa nostra», basato su un robusto nazionalismo, sul richiamo al sionismo revisionista – del quale contende al Likud la rappresentanza in una parte dell’elettorato israeliano – ma anche su un acceso secolarismo. La formazione politica, infatti, aspira da subito a raccogliere il consenso degli ebrei russi, ossia di quella parte della nuova popolazione israeliana che dalla fine degli anni Ottanta e dai primi anni Novanta ha iniziato ad immigrare nel Paese, confidando in opportunità e prospettive che nell’ex-Urss si vedeva negate o scarsamente riconosciute. Tratti comuni a questi nuovi cittadini è la scarsa propensione alla religiosità, una forte secolarizzazione, un elevato livello di formazione. Non è una formula che valga per tutti ma è di certo il timbro d’autenticità di un profilo diffuso, prodotto dell’essere nati e cresciuti nell’Unione Sovietica. L’ebraicità – al netto dei singoli casi individuali e famigliari – è più il rimando ad una tradizione attenuata, posizionata sullo sfondo, che non un aspetto identitario imprescindibile. Finché esisteva l’Urss, era inoltre l’irrisolto riferimento ad una non meglio identificata “nazionalità”, peraltro sciolta nell’appartenenza alla società d’origine, dove l’ebraismo aveva una connotazione underground, essendo disincentivate tutte le manifestazioni culturali pubbliche e l’eventuale confessionalismo qualora non fosse relegato alle sole mura domestiche. L’arrivo nel corso di un decennio di questi ebrei atipici in una Israele pluralista e laicizzata, dove tuttavia il patrimonio e i riferimenti alla sfera religiosa è innervato dentro una concezione forte dell’identità nazionale e civile, concorre a mutare non solo il panorama demografico nazionale ma anche una parte dei trend politici del Paese. Se il Likud poteva confidare su una solidissima capacità di sedimentare, fidelizzare e indirizzare l’elettorato della destra revisionista, quella espressa dal «blocco nazionale», contrapposto alla sinistra del «blocco della pace» – una dialettica che ha accompagnato tutti gli anni Ottanta e Novanta – con la conclusione della lunga stagione negoziale con i palestinesi la centralità di questo tema, pur non venendo meno, ha conosciuto delle trasformazioni. La questione della “israelianità”, inoltre, si è rimodellata sulla scorta del declino della culture politiche novecentesche, un processo che ha coinvolto anche Israele. Una cittadinanza politica basata sulla divisione più tradizionale tra la destra nazionalista, liberale e liberista, e la sinistra sionista, dialogante con la storica controparte palestinese, ha perso di aderenza nelle priorità di molti israeliani. A questi progressivi mutamenti si è sommato, in un processo di reciproco rinforzo, quel cambiamento di composizione demografica di cui già si faceva cenno. La figura di Lieberman, essenzialmente un leader populista di destra – sufficientemente distante dalla peculiare storia politica israeliana dei primi quarant’anni di esistenza del Paese, e, come tale, per il paradosso per cui un outsider può meglio cogliere il senso del cambiamento, capace di intercettare le nuove domande di rappresentanza in esso contenute – si inscrive in queste dinamiche. Gli ebraismi israeliani hanno faticato a raccogliere il problema dell’identità dei russi, parte dei quali di incerta se non inesistente ebraicità. Questi ultimi, in più di un’occasione, hanno espresso la loro estraneità all’ultraortodossia religiosa e alle sue istituzioni innervate nella società israeliana. Il tasso di contrapposizione, che rasenta in alcuni casi l’avversione, contro il “clericalismo” attribuito alle componenti non solo haredim, è molto forte tra gli esponenti e gli elettori di Yisrael Beiteinu, i quali rivelano una forte propensione per il nazionalismo duro, territorialista ma un’altrettanto marcata diffidenza per ciò che sa di religione tout court. Per questa ragione, Lieberman è anche uno dei maggiori esponenti delle posizioni più dure nei confronti dei palestinesi (visti come una controparte desecolarizzata e via di reislamizzazione), ovvero per una soluzione unilaterale del conflitto, con il ritiro da una parte dei territori amministrati, ridisegnando i confini d’Israele per includervi una grande parte degli insediamenti in Cisgiordania. In tale modo, si determinerebbe un cospicuo scambio di terre (il «piano Lieberman», formulato già nel 2004) che farebbe sì che una parte degli attuali cittadini d’Israele di origine araba divenissero parte di una futura amministrazione palestinese. L’Autorità nazionale palestinese dovrebbe essere aiutata a farsi carico di questo transfert non solo di territori ma anche di persone. Per un tale genere di ipotesi, nel passato il leader israelo-moldavo è stato ripetutamente accusato di volere praticare una sorta di silenziosa “pulizia etnica”. Accusa che è stata poi ribadita quando Lieberman si è espresso a favore di una proposta di legge contro i matrimoni misti, tra israeliani e persone di origine palestinese. La ratio manifesta di tale posizione riposa nell’affermazione che il nazionalismo israeliano dovrebbe incentivare l’ebraicità dei cittadini dello Stato; le ragioni implicite sono invece da attribuire alla necessità di rafforzare il potere di contrattazione politica che l’elettorato di origine russa cerca di capitalizzare nelle logiche politiche nazionali, incentivando l’identificazione tra l’origine europea dei suoi membri e i caratteri mutevoli della “israelianità”. In generale, il tema della fedeltà allo Stato è un cavallo di battaglia di Lieberman, declinandolo sia nei termini di una lotta implacabile e spietata contro il terrorismo sia a favore della minoranza drusa, laddove essa esprime posizioni di chiara dissociazione da molti aspetti maggioritari del mondo musulmano.

Un nuovo modo per sparigliare le carte

Yisrael Beiteinu, poste queste premesse, ha tuttavia sempre giocato su più tavoli la sua partita politica, spesso interagendo con Kadima di Ehud Olmert e con gli stessi laburisti. L’andamento elettorale è stato mutevole: dai quattro seggi del 1999 (2,60%) agli 11 del 2006 (8,98%) ai 15 del 2009 (11,70%) ai 5 dell’ultima legislatura (4.01%), nata pressoché morta. Lieberman, parlamentare dal 1999, coinvolto in più di una inchiesta giudiziaria, ha assunto ripetutamente il dicastero degli Esteri. Il patto federativo con il Likud (del quale Avigdor-Evit era stato membro della direzione nazionale tra il 1993 e il 1996), siglato nel 2013, avrebbe dovuto sancire una linea di continuità che, nei fatti, non si è manifestata. Per Lieberman il rapporto con la Russia di Putin è una delle stelle polari della sua azione politica, anche a rischio di essere seccamente criticato da una parte dei suoi stessi elettori. Con il leader moscovita, il maggiore esponente mondiale della “democratura”, il governo illiberale e oligarchico, avverte una serie di affinità che hanno ingenerato in più di un’occasione la tentazione di scavalcare Netanyahu, per proporsi direttamente come leader al Paese. Anche per questa ragione, in tutta probabilità, anteponendo il calcolo spietato della possibile eclisse di Bibi (impelagato in vicende giudiziarie), Lieberman ha deciso di sparigliare le carte, tornando a giocare la sua partita su più tavoli. Il pretesto – che peraltro non è avvertito come tale da una rilevante parte dell’elettorato israeliano, che vive invece con crescente perplessità, se non disagio, la crescita della presenza delle enclave religiose nella società – è stata la battaglia sulla limitazione del diritto all’esenzione dal servizio di leva per i giovani ultraortodossi. Si tratta di una questione cardine, che rimanda all’identità israeliana medesima. Come tale, si trascina dalla nascita stessa dello Stato. Per la stragrande maggioranza della società laica e secolarizzata, si tratta di un privilegio indebito, riconosciuto a gruppi che utilizzano la loro capacità coalittiva, attraverso i partiti che li rappresentano alla Knesseth, per condizionare, al limite del ricatto, i partiti di maggioranza relativa. Il capo di Yisrael Beiteinu ha combattuto su questo fronte, sapendo che ciò lo avrebbe premiato sul piano dell’immagine, in quanto novello “paladino” di un Paese che mantiene la separazione tra la sfera pubblica e quella religiosa, nel mentre Netanyahu è impegnato sul fronte giudiziario.

Il ruolo di ago della bilancia

Se forse è difficile, comunque troppo presto, per pensare ad Avigdor Lieberman in un ruolo alternativo o addirittura sostitutivo a quello del premier uscente, è certo che già fin da adesso può confidare sull’ambita funzione di ago della bilancia nel prossimo governo di coalizione che dovrebbe essere licenziato dal risultato del voto del 17 settembre. Con il calcolo delle probabilità che caratterizza i politici scaltri e guardinghi, si propone infatti come il collante di un governo di unità nazionale, prefigurando la possibilità che dalle urne esca di nuovo una situazione di sostanziale stallo, come era già avvenuto ad aprile. Pertanto di sé e dei parlamentari del suo gruppo – al quale i sondaggi attribuiscono una decina di seggi – dice che negherà l’appoggio ad un esecutivo che guardi solo a destra o a sinistra. Con Benjamin Netanyahu, il «mago delle coalizioni», e con il suo partito, da tempo ha aperto un conflitto che si riassume in alcune dure affermazioni: «Il Likud ha perso la sua strada, manca di ideologia e principi, tutto ruota attorno a un culto della personalità. Sembra che abbiamo scelto un dio per governarci». Si tratta non solo di dichiarazioni politiche, dove in gioco è l’egemonia su un’intera area politica, ma una rottura personale con il suo ex patrocinatore. Di Netanyahu, infatti, quando questi era ancora il giovane e talentuoso ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, più di trent’anni fa, tra il 1984 e il 1988, Lieberman è stato un fido collaboratore, giungendo a fargli anche da autista. La carriera politica di quest’ultimo si è quindi svolta all’ombra dell’allora astro nascente della destra. Per poi autonomizzarsi prima ed ora ribellarvisi. Non è un quindi caso se Bibi abbia detto di Avi che quest’ultimo «fa parte della sinistra». Dalla campagna elettorale dei mesi scorsi «essere di sinistra» è oramai l’etichetta che i politici israeliani cercano di evitare a tutti costi, essendo divenuta, in una parte del giudizio di senso comune, sinonimo di debolezza nel campo della sicurezza nazionale e regionale. Difficile tuttavia trattare l’ex fidato aiutante come una figura fragile ed incerta nel campo della sicurezza. Tra i motivi che aveva addotto per le sue dimissioni da ministro della Difesa nel novembre del 2018, vi era infatti la sua contrarietà ad un approccio militare definito troppo morbido nei confronti di Hamas nella Striscia di Gaza, proponendo inoltre la pena di morte per i terroristi. Cosa ne deriverà di qui alla fine del mese, ad urne chiuse, è impossibile dirlo. È certo, tuttavia, che Lieberman cercherà in tutti i modi di capitalizzare la sua rendita di posizione di “Kings Maker”, colui che oramai sa che a destra, se si vuole essere premier, bisogna passare attraverso il suo assenso.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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