Un convegno a cento anni dalla nascita del mimo francese che salvava i bambini dalla Shoah
Si è tenuto qualche giorno fa un bel convegno realizzato dall’Università di Firenze, in particolare modo da Teresa Megale, in collaborazione con il Comune di Prato e il Teatro Metastasio, per celebrare l’anniversario della nascita di Marcel Marceau, da cui sono passati già cento anni (1923-2023). La giornata di studi ha avuto lo scopo di approfondire le fonti critiche e storiche e di inserire l’arte di questo vero e proprio poeta del gesto all’interno della rinascita novecentesca dell’espressione corporea e delle principali teorie e prassi del teatro contemporaneo.
Ma nel convegno sono posti in evidenza diversi aspetti relativi al mondo ebraico, imprescindibili per comprendere a pieno la personalità di Marceau. Che non solo nasce ebreo come Marcel Mangel e cresce ebreo a Strasburgo al confine tra Austra e Germania per poi spostarsi a Limoges, ma è una figura importante nella seconda guerra mondiale e si distingue per atti di valore e di coraggio contro gli oppressori, già da giovanissimo. Partecipa attivamente alla resistenza combattendo i nazisti. Mentre il padre Charles muore a Auschwitz, lui e il fratello Alain cambiano il cognome in Marceau, in onore di un generale antimonarchico dell’epoca della rivoluzione, Francois Severin Marceau-Desgraviers, e diventano degli eroi.
Uno dei compiti di Marcel era quello di salvare i bambini, facendo loro attraversare il confine con la Svizzera passando dalle Alpi oppure al sud verso la Spagna. Pare che usasse le sue abilità di mimo per tenerli buoni e in silenzio durante i momenti di maggior pericolo e li facesse sorridere per smorzare la tensione. Circola una storia – che pare abbia trovato conferma nella realtà – che racconta che Marceau avesse incontrato un contingente di soldati tedeschi a Limoges e invece di tentare la fuga si fosse presentato come partigiano in avanscoperta, minacciandoli che stavano per arrivare i rinforzi e intimando loro la resa. Sembra che abbia funzionato. Gli uomini hanno deposto le armi e sono scappati. Un bel fegato!
Ancora, dopo la liberazione nel 1944 si unì alle truppe alleate e l’anno dopo si esibì nella sua prima pantomima pubblica davanti a tremila soldati americani. Dopo la guerra frequentò la scuola di Etienne Decroux, il pioniere dell’arte mimica, ma erano diversi e non andarono d’accordo: se il maestro ragionava in termini di archetipi, Marceau voleva creare un personaggio. Nacque così “Bip”, in omaggio a “Pip” di “Luci della città” di Charlie Chaplin, il film che il padre lo portò a vedere quand’era piccolo. La figura con il volto dipinto di bianco, un cappello floscio in testa, sulla cui cima svettava una rosa divenne il suo alter ego inseparabile. Le avventure di Bip sono innumerevoli e vanno dalla caccia alle farfalle a all’essere rincorso da un leone, da episodi in barca, in treno, nelle balere, al ristorante.
Marceau era anche un bravo pittore. Anche in questa attività si rifaceva in modo esplicito alle sue origini ebraiche: si ispirava a Marc Chagall e all’immaginario stilizzato est europeo. Se vi capita di vedere alcuni suoi quadri l’influenza salta subito all’occhio ed è del tutto evidente. Apparve in alcune pellicole come “Barbarella” con Jane Fonda e nel leggendario “Silent Movie” di Mel Brooks dove è lui a pronunciare l’unica parola: No.
Ma nella scelta di quel silenzio evocativo, di quella muta eloquenza, come si intitola il convegno a lui dedicato, sta una decisione artistica ed etica. “L’arte del silenzio parla all’anima” scrisse. Se il filosofo Theodor W.Adorno sosteneva che dopo Auschwitz non sarebbe più stata possibile la poesia o trovare un linguaggio adatto a esprimere l’orrore, ecco che Bip usa il silenzio per dare voce all’umanità, per rendere omaggio alla dignità umana offesa e alla libertà da ogni carcere, ma anche a coloro che non tornarono più dall’inferno dei lager. Secondo Jan Kott “raggiunge il punto in cui l’arte moderna realizza la grandezza pagando il prezzo della rinuncia alla falsità”. Come in un niggun, un canto estatico dei Chassidim, con la stessa melodia ripetuta all’infinito, mormorata a fior di labbra – all’interno di una cultura in cui il testo è fondamentale – Marceau agisce in sottrazione, sostituendo con il gesto la parola, che solo apparentemente è mancante, ma ne esce anzi fortissima e sublimata.