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Casa Comune, un progetto di architettura israelo-palestinese a Milano

Inaugurato il 21 novembre l’appartamento di via Arquà disegnato da architetti israeliani e palestinesi. Qui ci raccontano come è andata

Via Arquà, civico 10, quartiere NoLo, Milano. Se il nome non dice molto, allora sarà senz’altro d’aiuto fare riferimento alla strada principale del quartiere: via Padova. La zona più multietnica della città: problematica sotto tanti aspetti e allo stesso tempo, secondo molti, dotata di quel potenziale creativo indispensabile a trasformare la realtà. Proprio qui, giovedì 21 novembre è stata inaugurata Casa Comune, un appartamento progettato da un architetto israeliano e due palestinesi, tutti laureati al Politecnico di Milano. Un nome semplice, Casa Comune, come la naturalezza con la quale i protagonisti raccontano a JoiMag, pochi giorni dopo l’evento, il loro coinvolgimento nel progetto.

David Noah, nato a Gerusalemme, laurea al Politecnico di Milano otto anni fa; un secondo master in ingegneria edile al Technion di Haifa e una lunga serie di esperienze lavorative nel settore, fino all’apertura, tre anni fa, di un proprio studio a Tel Aviv.

Talal Qaddoura, famiglia originaria di Haifa, rifugiata a Jenin dopo il 1948. Il suo cognome è legato alla figura dello zio Musa, dirigente di spicco dell’Olp e a lungo capo del governatorato di Jenin, fino alla morte in tragiche circostanze nel 2012. Lui però, Talal, quei luoghi li ha visitati solo attraverso i racconti di famiglia. Il padre si trova in Giordania per lavoro quando scoppia la guerra del 1967. Non può più tornare, solo richiamare la famiglia. Talal nasce e cresce ad Amman. Si laurea al Politecnico nel 1990; da allora, Milano è la sua casa.

Mahmoud Ashmawi, nato a Damasco da rifugiati del 1948 originari di Tantura, un villaggio di pescatori a pochi chilometri da Haifa. Qualche tempo dopo la laurea al Politecnico di Milano, un’offerta di lavoro in Arabia Saudita, Paese nel quale Mahmoud vive ormai da 25 anni, occupandosi principalmente di agevolare le relazioni tra aziende italiane e mercato locale.

Foto dal giorno dell’inaugurazione

A unire i tre architetti è stata l’idea dell’imprenditore Luca Poggiaroni. Professionista della comunicazione legata al cibo – è CEO di Menuale (parte di PoliHub, l’incubatore per imprese del Politecnico), una start-up che aiuta a trovare il locale giusto selezionandolo in base al menù – quella dell’investimento immobiliare per lui è un’avventura relativamente nuova. E tuttavia, assicura, rappresenta una continuità del suo percorso: “Sono laureato in Storia, con una tesi in storia delle religioni. Anni fa, lavorando nel settore della comunicazione sul cibo, ho organizzato dei pranzi per ebrei e musulmani in ristoranti di Milano libanesi e israeliani, un’opportunità per scoprire le reciproche somiglianze attraverso la cucina. Quando ho deciso di cambiare settore professionale e acquistare l’appartamento di via Arquà, mi è venuta in mente l’esperienza mediorientale perché si tratta di una casa minuscola (20 metri quadrati) in un contesto difficile”. Così è nata l’idea di trasformare questa sensazione in un progetto che, andando oltre l’angustia delle dimensioni e del contesto esterno, parlasse anche di speranza.

Fin dall’inizio, l’idea è stata quella di coinvolgere architetti israeliani e palestinesi laureati al Politecnico: diversi, dunque, per background culturale, ma accomunati dallo stesso percorso universitario e professionale. Luca contatta David, con il quale è amico da anni, che si mette a cercare in Israele una controparte palestinese. Ma è Luca infine a “scovare” Talal a Milano e successivamente Mahmoud, grazie a una segnalazione della Camera di Commercio Italo-araba.

Foto dal giorno dell’inaugurazione

I tre comunicano e lavorano attraverso le call conference: solo voce, niente video, un unico scambio di foto. Si incontrano per la prima volta il 20 novembre, giorno prima dell’inaugurazione. “Sono arrivato davanti all’albergo e ho subito riconosciuto Talal e Mahmoud. Per me è stato come rivedere degli amici d’infanzia. Una sensazione di grande serenità. Siamo andati a vedere insieme la casa e poi a cena. Abbiamo parlato anche di politica, ma senza permettere che dominasse la serata. Ci sono così tante altre cose di cui conversare”, racconta David.

I materiali utilizzati per Casa Comune rimandano alla storia della terra a cui è ispirata: la pietra di Gerusalemme per il pavimento, il legno d’ulivo per il bagno e gli arredi e infine il ferro, che richiama la durezza del conflitto. Un elemento “meno naif e poetico, ma necessario”, commenta Luca.

“Penso sia importante sottolineare che questo progetto non inventa nulla, ma ribadisce un messaggio, richiama una convivenza storica, che per me vive attraverso i racconti familiari (mio padre mi ha sempre raccontato dei suoi vicini di casa ebrei a Haifa), ma soprattutto oggi è portata avanti da diverse realtà locali – associazioni, scuole, ospedali, asili – in cui arabi ed ebrei lavorano insieme e dimostrano che la convivenza è realisticamente fattibile”, commenta Talal.

Mahmoud, da Riyadh, conferma: “Quando la Camera di Commercio Italo – araba mi ha messo in contatto con Luca, il progetto mi ha subito entusiasmato. Il conflitto è alimentato da un uso politico della religione, ma la convivenza tra ebrei e arabi è sempre esistita e anche oggi accanto al conflitto ci sono molte realtà: proprio di recente guardavo un servizio di France 24 su un gruppo di israeliani che è andato ad aiutare i contadini palestinesi durante la stagione della raccolta delle olive – c’era anche un membro della Knesset – e li ha protetti dalle aggressioni”.

Nel discorso della convivenza si inserisce la realtà di David, che insegna all’università di Ariel, nei Territori. Alla domanda su se l’ubicazione particolare della sua sede di lavoro influenzi in qualche modo la sua prospettiva, risponde di no. “Ciò che vedi al Technion di Haifa, lo vedi ad Ariel. Ai miei corsi ci sono studenti di tutte le provenienze: israeliani, degli insediamenti e non, e palestinesi, dei grandi centri e dei villaggi. L’offerta di studio è rivolta a tutti”. Continua: “Personalmente non ho mai nutrito paure nei confronti del progetto, intendo dal punto di vista politico. Il lavoro creativo funziona in modo che quando si è determinati a realizzare l’idea ci si mette a testa bassa e si lavora, non ci si occupa di altro. E mentre si lavora può nascere l’amicizia. Sia sul piano professionale che su quello personale ci siamo trovati molto bene: c’era un senso di rispetto e di curiosità verso la storia e le capacità dell’altro. L’architettura è una cultura e se in questa cultura metti la tua storia, e le storie di altri, può venir fuori qualcosa di davvero bello. E così è stato”.

Foto dal giorno dell’inaugurazione

La possibilità di lavorare a distanza ha naturalmente giocato un ruolo importante. “La tecnologia è una grande opportunità per superare le barriere, senza probabilmente non avremmo potuto realizzare il progetto”, dice Talal. E sul versante della politica, aggiunge: “Forse il nostro problema è che è passato troppo poco tempo, ci vogliono più generazioni. Partecipo da sempre a incontri per il dialogo israelo-palestinese – ricordo uno dei primi, negli anni Ottanta, a Palazzo Marino, intervenne la figlia di Moshe Dayan con un discorso che mi piacque moltissimo – ma un accordo non si è raggiunto. Credo dovremmo prendere esempio dalla storia dell’Europa, che è passata da secoli di guerre all’unione. Imparare dal Vecchio Continente, e dico vecchio nel senso più bello del termine, che ha qualcosa da insegnare a tutti”.

Per i due architetti palestinesi c’è stato anche l’aspetto della memoria e della nostalgia per un luogo dove non sono mai stati. “Vedere l’appartamento, con i suoi materiali evocativi, è stato come vedere un pezzo della terra dei miei genitori che non ho mai potuto visitare. È stato un bel sentimento, avere davanti agli occhi le proprie radici”, dice Mahmoud.

Tra i presenti al giorno dell’inaugurazione ci sono stati diversi giornalisti, il Prorettore delegato del Politecnico di Milano Emilio Faroldi, il Presidente della Comunità Ebraica di Milano Milo Hasbani. Grandi assenti, il Sindaco e l’assessore alla cultura, nonché i rappresentanti della comunità islamica e dell’arcivescovado. “La mancata partecipazione delle istituzioni è stata l’unica nota stonata. È stato come non tenere conto dell’atto di coraggio con cui questi tre architetti hanno lavorato insieme per arricchire la città”, commenta Luca Poggiaroni. Quella delusione, prosegue, è stata però compensata dall’arrivo qualche giorno dopo di una lettera di plauso del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

E ora che succede? Casa Comune verrà affittata a due studenti, al prezzo di circa 250-300 euro a testa. “Mi piacerebbe che fossero della facoltà di architettura del Politecnico. E che la casa, con la sua storia, suscitasse in loro la curiosità di conoscere meglio la realtà di Israele e Palestina, di cui si tanto si parla e poco si conosce. Abbiamo anche considerato di cercare proprio un israeliano e un palestinese. È una bellissima idea, anche se un po’ mi spaventa. Per me, non ebreo e non arabo, è più facile guardare le cose con distacco, ma capisco che per chi è direttamente coinvolto potrebbe non essere facile”, dice Luca. “Questa settimana riempiremo di annunci i gruppi Facebook del Politecnico e vedremo cosa succede”.

Talal immagina i due studenti come simili ai due letti della camera: “Sono appesi in aria e scorrono, superando qualsiasi barriera”. Per Mahmoud, Casa Comune andrebbe destinata a “due persone diverse, che sappiano andare d’accordo al di là dell’appartenenza nazionale e religiosa. Che usino la convivenza come un’opportunità per capire che le presunte differenze non esistono. La violenza ha tante strade, la pace ne ha una sola, la più breve e diretta: vivere con l’altro. Non esiste altro modo”.

E l’idea che i due affittuari dovrebbero essere proprio un israeliano e un palestinese è appoggiata senza esitazione da David: “Così proveranno a vivere insieme. Anzi, non proveranno, riusciranno”.

Silvia Gambino
Responsabile Comunicazione

Laureata a Milano in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale, ha studiato Peace & Conflict Studies presso l’International School dell’Università di Haifa, dove ha vissuto per un paio d’anni ed è stata attiva in diverse realtà locali di volontariato sui temi della mediazione, dell’educazione e dello sviluppo. Appassionata di natura, libri, musica, cucina.


1 Commento:

  1. Progetto particolarmente interessante anche se non facile. La convivenza tra persone diverse è la strada da percorrere.


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