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Il caso Kavanaugh letto e commentato da otto rabbini

Ovvero, un dibattito sui concetti di Giustizia, Diritto e Persona.

La notizia di sabato 6 ottobre parla di nomina definitiva del giudice alla Corte Suprema, ma il caso Brett Kavanaugh pone interessanti questioni filosofiche in materia di diritto. Come va affrontato dal punto di vista ebraico? La risposta è in questo articolo apparso su The Jewish News il 28 settembre scorso. Abbiamo scelto di tradurlo per la pluralità di sguardi che propone al lettore: otto voci. O meglio, otto interpretazioni rabbiniche del caso che ha scosso l’America negli ultimi due mesi. Buona lettura.

(L’articolo originale è a cura dell’agenzia JTA, la versione di Joimag è curata e tradotta da Silvia Gambino)

Il 27 settembre, dinanzi alla Commissione Giustizia del Senato, il candidato alla Corte Suprema Brett Kavanaugh ha dovuto rispondere delle accuse di molestia sessuale che gli erano state rivolte. Nelle settimane precedenti, tre donne avevano denunciato di essere state, nel periodo della scuola superiore o del college, oggetto di sue attenzioni inappropriate o violente.

Al di là di come si concluderà la vicenda (aggiornamento della redazione: il Senato degli Stati Uniti, con 50 voti a favore e 48 contrari, ha confermato definitivamente la nomina del giudice Brett Kavanaugh alla Corte Suprema), le accuse hanno fatto divampare il dibattito nel mondo politico, da come le vittime di violenza spesso non denuncino per la paura o per il trauma, a se dovremmo essere considerati responsabili per azioni commesse da adolescenti, a come valutare la credibilità delle accuse.

Abbiamo chiesto a otto rabbini di spiegare come la legge e l’etica ebraiche possono aiutarci a capire questa situazione. Ecco le risposte che ci hanno proposto, che per esigenze editoriali sono state leggermente modificate.

 

La via del pentimento

Rabbi Meesh Hammer-Kossoy insegna al Pardes Institute of Jewish Studies, una yeshivah non denominazionale a Gerusalemme.

La tradizione ebraica ci offre diverse importanti lenti attraverso cui osservare le accuse contro il giudice Kavanaugh. Da una parte, il Talmud ci dice: “Al sacerdote che commette omicidio è fatto divieto di impartire la benedizione sacerdotale” (Berachot 32b). Questo significa che alcune azioni, anche se non sono perseguibili in tribunale, lasciano una macchia eterna nell’esercizio della leadership.

Dall’altra parte, a oggi le accuse contro il giudice Kavanaugh riguardano il lontano passato. Una persona non può forse imparare dai suoi errori e andare avanti? A proposito della citazione talmudica che ho riportato sopra, lo Shulchan Aruch contiene un dibattito su se il pentimento restituisca al sacerdote le sue piene facoltà (Shulchan Aruch, Orach Chayim 128:35). Secondo Rabbi Joseph Karo, “colui che offende non può diventare colui che difende”: la riabilitazione spirituale non consente al sacerdote che ha commesso omicidio di impartire la benedizione. Ma Rabbi Moses Isserles dissente: gli Ebrei perdonano.

Maimonide stabilisce chiare regole per il pentimento, che includono riconoscere la colpa, confessarla, fare ammenda e impegnarsi a cambiare per il futuro. Kavanaugh ha affrontato le sue colpe? E se lo ha fatto, questo basta per permettere a un “offensore” (qualcuno che si è reso responsabile di gravi violazioni della dignità umana) di diventare un “difensore”, incaricato della protezione di tutti, incluse le donne?

 

Dalla parte della vittima

Rabba Sara Hurwitz è cofondatrice e presidente della Yeshivat Maharat di New York, la prima istituzione ortodossa ad aver aperto all’ordinazione delle donne.

Il movimento #MeToo ha costretto la società a vedersela con diverse domande: le persone mentono sulle molestie per il proprio tornaconto? Dovremmo estendere il limite di prescrizione? Come definire i parametri della violenza sessuale? Gli aggressori meritano la riabilitazione? Ma io credo che la prima domanda che dovremmo fare, in quanto punto centrale della nostra tradizione ebraica, sia questa: la vittima ha sofferto? Infatti, la Ghemara si pronuncia per la protezione della vittima. “Colui che ferisce il suo vicino dovrà pagare per i cinque danni che gli ha arrecato: l’invalidità, il dolore e la sofferenza, le spese per le cure, la disoccupazione, e la vergogna (Misha Bava Kama 8:1).

I rabbini avevano dunque capito che ci sono diversi tipi di male che una persona può fare a un’altra. Oltre al dolore fisico e spirituale, la vittima può risentire dell’incapacità di essere produttiva e performante sul luogo di lavoro. O può aver bisogno di “spese per le cure”, con la consapevolezza del tempo e del lavoro che il processo di guarigione richiede. Il danno causato può essere permanente, non importa quanto tempo fa sia stato inflitto. Infine la vittima, al di là delle visibili ferite fisiche, proverà anche vergogna e stress emozionale. Perciò ritengo che la prima domanda che tutti dovremmo affrontare riguardi il benessere delle vittime: hanno sofferto? E hanno ricevuto adeguata compensazione?

 

I diritti dell’imputato

Rabbi Pesach Lerner è Presidente della Coalition for Jewish Values.

Dice la Torah: “Un solo testimone non basterà ad accusare un uomo, qualunque sia il delitto o il peccato che questi abbia commesso; il fatto sarà stabilito sulla deposizione di due o di tre testimoni” (Deuteronomio, 19:15). Questi due o tre testimoni, nessuno dei quali doveva essere l’accusatore o un suo prossimo, venivano sottoposti a un lungo interrogatorio prima di essere accettati. La Torah è molto scrupolosa sui diritti e la reputazione dell’imputato, e questa è la visione ebraica.

 

Un processo profondamente viziato

Rabbi Hara Person è Chief Strategy Officer del movimento Reform “Central Conference of American Rabbis” ed editore di CCAR Press.

Il testo di Deuteronomio 16:20 viene subito in mente: “La giustizia, la giustizia seguirai”. La ripetizione della parola “giustizia” sta a ricordarci quanto il suo perseguimento sia fondamentale in una società sana. In un commento a questo versetto, Rashi afferma che è la nomina di giudici onesti a permettere alla società di fiorire. Ibn Ezra si spinge ancora più in là, suggerendo che il significato della ripetizione sia che entrambe le parti di una controversia devono perseguire la giustizia, al di là del proprio tornaconto, poiché si tratta di un valore più alto della lealtà alla propria fazione.

In contrasto con ciò, le udienze su Kavanaugh sono un processo profondamente viziato, dominato dalla faziosità e fatto apposta per offuscare la verità invece di illuminarla. La quantità minima di documentazione che è stata fornita su di lui è piuttosto problematica. Con l’aggiunta del fatto che le accuse di aggressione sessuale non sono state investigate a dovere, e con la fretta di terminare rapidamente le udienze, tutto sembra organizzato per aggirare la via della vera giustizia. Che ciò sia stato fatto al fine di nominare qualcuno giudice del più alto tribunale di un Paese è un’aberrazione destinata a portare caos e sfiducia nel sistema legale, l’esatto contrario di una società sana e fiorente che l’Ebraismo si pone come ideale.

 

La responsabilità dei leader

Rabbi Aviva Richman è docente a Hadar. Le sue aree di studio includono la legge ebraica, il genere e la sessualità nell’Ebraismo.

La Bibbia opera una distinzione tra i crimini di natura sessuale commessi in città e in campagna (Deuteronomio, 22:23). I rabbini interpretano la “città” non nel senso di densità della popolazione, ma di cultura. La città è un luogo dove le persone hanno a cuore il problema della violenza sessuale e reagiscono. In tale contesto, i rabbini si concentrano sulla responsabilità della comunità e della leadership di reagire e, idealmente, di prevenire la violenza sessuale. Seguendo quest’ottica, uno studioso di Talmud del periodo medievale definisce l’intero impero persiano sotto Re Assuero (quello di Purim) come “campagna”. Siccome al comando di quella terra c’era un donnaiolo che agiva come se tutte le donne cgli appartenessero di diritto, nessuno nel regno prendeva la violenza sessuale sul serio.

Quando i nostri leader nazionali respingono le accuse di aggressione sessuale perché “Non è successo niente”, o rifiutano di implementare e seguire chiari protocolli per rispondere a esse, creano una situazione i cui effetti a catena vanno ben oltre l’aula di giustizia dove lavorano quei nove giudici.

Questo è il momento in cui dobbiamo chiederci: viviamo in città o in campagna? Dobbiamo esigere che i nostri leader si assumano la responsabilità di prendere sul serio la violenza sessuale. Altrimenti, anche il più robusto sistema di tribunali e di giustizia non è che desolazione.

 

Come trattiamo l’altro

Rabbi Jacob Staub è professore al Reconstructionist Rabbinical College di Wyncote in Pennsylvania.

Un insegnamento fondamentale del Musar, la letteratura etica ebraica, è che ognuno di noi ha il dovere di trattare l’altro secondo quelli che sono i suoi bisogni. È compito nostro non dare per scontato di sapere quali questi bisogni siano. Piuttosto, dobbiamo fare uno sforzo per scoprire cosa all’altro manca e come possiamo offrirglielo.

In contrasto, il comportamento descritto dalle accusatrici del giudice Kavanaugh riflettono un orientamento diametralmente opposto a questo principio ebraico. Le loro storie dipingono ritratti di uomini che usano le donne per soddisfare i propri bisogni, senza alcuna preoccupazione per le conseguenze traumatiche che ciò potrebbe comportare.

Mi auguro che un effetto del caso Kavanaugh sia spingere tutti noi a fare un esame di coscienza su come trattiamo gli altri e sul rispetto che dobbiamo loro, poiché siamo tutti creati a immagine di Dio.

 

Il servizio pubblico è un privilegio

Rabbi Mira Wasserman è direttrice del Center for Jewish Ethics e assistente di letteratura rabbinica presso il Reconstructionist Rabbinical College.

C’è una storia del Talmud (Moed Katan 17a) che anticipa la situazione presente: siamo a Babilonia, e voci terribili su un rabbino del luogo giungono all’orecchio di Rav Yehudah, un’autorità rabbinica di spicco. Rav Yehudah delibera sul da farsi. Da un lato, il rabbino accusato offre un buon servizio alla comunità; dall’altro, la cattiva reputazione degrada il suo ufficio (nel linguaggio talmudico “profana il nome di Dio”). Alla fine, Rav Yehudah decide di agire in accordo con le accuse e ostracizza il rabbino incriminato. Sul letto di morte, Rav Yehudah si dichiarerà soddisfatto di non essersi piegato alle pressioni per compiacere un uomo importante, ma di essersi fatto guidare da principi morali.

Da questa storia, traggo i seguenti insegnamenti:

  1. Per i rabbini, la prova è tenuta in grande considerazione. In assenza di valide prove, tutte le accuse del mondo (non importa quanto persuasive) non bastano a provare la colpevolezza dell’imputato.
  2. Il servizio pubblico è un privilegio, non un diritto. I giudici, come i rabbini, devono attenersi ai più alti standard di etica. Accuse gravi (anche in assenza di prove) sono sufficienti a escludere l’imputato da una rispettabile posizione di leadership.
  3. Essere veri leader significa applicare questi principi a tutti, senza guardare allo status dell’imputato.

 

Pregiudizio contro ricerca della verità

Rabbi Avi Weinstein è responsabile per i corsi di Jewish studies presso la Hyman Brand Hebrew Academy, una scuola comunitaria situata a Overland Park, Kansas.

Il classico assunto rabbinico non è che “Non sappiamo tollerare la verità”, è semplicemente che a essa non possiamo arrivare. Il metodo dialettico così familiare agli studiosi tradizionali è pensato per mitigare i pregiudizi personali al fine di avvicinarsi a cogliere la “verità”. Noi aspiriamo a conoscere la verità. Dopotutto, essa si rivela sempre inafferrabile. Quando senatori stimati dichiarano pubblicamente le loro ovvie conclusioni sul candidato, ciò non fa bene alla ricerca della verità, alla più alta aspirazione. Nella tradizione ebraica, un giudice doveva diffidare dei propri pregiudizi così come dei limiti delle argomentazioni intelligenti.

Le accuse levate contro il giudice di certo lo mettono in cattiva luce, ma basta il solo sospetto per estrometterlo dalle sue funzioni? Quanto fumo ci deve essere prima di stabilire che c’è un arrosto? Su ciò, potremmo avere opinioni diverse, ma tutti possiamo concordare che l’acume in sé e per sé non è sufficiente a fare un buon giudice ebreo. Alla fin fine, tutto dipende dal peso che diamo al sospetto senza che vi siano prove schiaccianti, e ciò ci riconduce  ai nostri pregiudizi, che inevitabilmente annebbiano la nostra aspirazione di conoscere il vero.


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