Cultura
Cento anni del quotidiano Haaretz

Il giornale più longevo di Israele – non il più letto, ma senza dubbio il più noto – ha appena festeggiato un importante anniversario

È il 18 giugno 1919 quando, a Gerusalemme, un nuovo attore fa la sua comparsa nel panorama culturale dell’Yishuv, la comunità ebraica presente in Palestina prima della proclamazione di indipendenza del ’48. Si chiama Hadashot Haaretz, Notizie della Terra – quella Terra che incarna il sogno di uno Stato. Poco dopo, “Hadashot” scompare e resta solo “Haaretz”: il primo quotidiano in lingua ebraica della storia dello Stato di Israele. Si autodescrive con grande semplicità: “Un quotidiano apartitico di letteratura e vita quotidiana”.

Cento anni dopo, che Haaretz sia stato e sia molto di più è evidente a chiunque: a chi lo ama (pochi) e a chi lo detesta (molti), a chi lo legge (meno in patria, di più all’estero, nella versione inglese) e a chi non lo legge però ne parla (moltissimi). A qualche giorno dai festeggiamenti in redazione e dalla pubblicazione di alcuni speciali – e con il loro aiuto – ripercorriamo insieme le sue tappe.

 

Le origini: otto pagine di un (quasi) quotidiano

Partiamo dalla preistoria: 1917, Grande Guerra, il generale Allenby è entrato a Gerusalemme, l’esercito inglese necessita di comunicare con le file eterogenee dei suoi soldati. Inizia così a stampare Palestine News, un giornale militare multilingua (inglese, arabo, ebraico, tre dialetti indiani). La redazione risiede al Cairo e la prima versione in ebraico appare nel 1918. Alla fine del conflitto, lo scopo del giornale viene meno e gli inglesi lo mettono in vendita. Il Congresso sionista vuole acquistarne la versione ebraica, ma non ci sono fondi e il tempo stringe. Chaim Weizmann e Nahum Solokov inviano in tutta fretta un telegramma a Isaac Leib Goldberg, filantropo e sionista dalla prima ora. È tempo che il movimento sionista abbia un suo giornale. Detto fatto, Goldberg accetta, tratta con gli inglesi e lo compra.

Il primo editoriale di Haaretz rivendica con forza la visione sionista e promette di essere “la voce di tutti coloro che portano la bandiera della nostra riscossa nazionale nell’ora grave della transizione dal sogno sionista alla vita reale e pratica nella casa nazionale che sta per essere costruita”. Sì, il giornale oggi tanto noto per essere la spina nel fianco del governo israeliano, accostato sovente a posizioni antisioniste, quindi antipatriottiche, inizia convintamente come voce della patria, ancora prima che questa nasca. Con un occhio di riguardo al pluralismo: “Non ignoriamo quanto sia difficile cercare di risolvere le molte questioni complesse che preoccupano il mondo ebraico. Ma è nostro desiderio esaminare le opinioni che prevalgono nelle diverse parti del campo sionista, da un punto di vista nazionale e generale, e valutarle in maniera equa e imparziale. Questa aspirazione ci aiuterà, speriamo, a riportare con veridicità e a indicare all’opinione pubblica la via giusta”.

Ma com’è fatto questo Haaretz della prima ora, di cosa parla? Si compone di otto pagine, in teoria è un quotidiano ma in pratica salta regolarmente l’edizione del sabato, della domenica e delle feste ebraiche, visto che la maggioranza di chi vi lavora è osservante. A Sukkot 1919, i tipografi rifiutano il lavoro anche nei giorni intermedi (chol hamoed) della festività (in cui è permesso svolgere i lavori indifferibili) e Haaretz sparisce per 11 giorni.

Gli argomenti? I problemi dell’yishuv, i quali, a ben vedere, non sono molto diversi da quelli del moderno Stato. Basti dire che il primo numero contiene una denuncia sulle speculazioni del mercato immobiliare di Tel Aviv (affittare casa lì costava una fortuna allora come oggi) e che in uno dei primi editoriali un infiammato Ze’ev Jabotinsky (ebbene sì, il fondatore del movimento revisionista lavorò nella prima redazione di Haaretz, l’avreste detto?), dopo una premessa sui concetti di ebraismo come nazione o come religione, si scaglia contro l’ala religiosa dell’Assemblea dei Rappresentanti della comunità ebraica di Palestina, accusandola – per essersi opposta al diritto di voto e di candidatura delle donne – di voler far piombare lo Stato che non ancora non esiste nell’oscurantismo.

Dal 1922 al 1939, a ricoprire il ruolo di direttore è Moshe Glickson: in quegli anni, la sede si sposta da Gerusalemme a Tel Aviv, la linea liberale e pluralista del giornale si definisce e rafforza, si interviene con decisione sui punti deboli dei primi anni, tra i quali l’ebraico non proprio solidissimo della redazione (formata da immigrati russi). Nel 1935, Haaretz viene acquistato da un imprenditore appena fuggito dalla Germania, Salman Schocken. Suo figlio, Gershom, ne diventa direttore nel 1939, posizione che manterrà per ben 51 anni, fino alla morte nel 1990 (l’attuale editore di Haaretz è il figlio di Gershom, Amos).

 

Una spinta al “ribaltone”, prima della rottura

Mai apolitico, ma sempre apartitico: quando esattamente Haaretz è diventato un giornale “contro”? Suona davvero curioso dirlo oggi, ma per lunghi decenni tra Haaretz ed establishment è matrimonio d’amore e concordia. Pur non essendo l’organo di stampa ufficiale del Partito laburista, negli editoriali del 1948 (Guerra di Indipendenza), 1956 (Guerra del Sinai), 1967 (Guerra dei Sei Giorni) e così via si trovano plauso e approvazione per le operazioni militari e le scelte del governo.

In mezzo al passaggio di Haaretz da giornale “per” a giornale “contro” nei suoi rapporti col governo, sta una storia interessante e misconosciuta, analizzata in un articolo del professore del Tel-Hai College Amir Goldstein. La storia riguarda il contributo che Haaretz fornì alla legittimazione del leader della destra Menachem Begin, culminata nella vittoria alle elezioni 1977, il “ribaltone” (mahapakh) che decretò la fine della leadership laburista. Attraverso l’analisi di articoli ed editoriali dagli anni Sessanta in avanti, Goldstein traccia il percorso di questa improbabile affinità elettiva tra il giornale moderato e portavoce delle “colombe” e il leader della destra massimalista e ben convinta delle sue posizioni da “falco”. Qual è il punto di convergenza? È la volontà di porre fine all’egemonia del Mapai, il Partito laburista, ritenuta dannosa per la democrazia; gioca molto anche l’orientamento liberal di Haaretz che con la sinistra israeliana condivide la visione del conflitto ma non la chiusura all’economia di mercato.

Dopo la vittoria della destra nel ‘77 il rapporto è ambivalente: il giornale è fortemente critico, ma sostiene anche convintamente l’apertura storica del governo Begin alla pace con l’Egitto.

La rottura vera e propria inizia con la guerra in Libano del 1982. Nel 1985, in occasione del Giorno del Ricordo, per la prima volta un editoriale di Haaretz afferma che i soldati caduti che Israele sta commemorando sono morti per una causa ingiusta. La posizione critica si consolida nel corso della Prima Intifada (1987) e l’essere “contro” diventa una caratteristica del giornale. Mettere a disagio il pubblico, innervosirlo con domande scomode, una missione. Con esiti e risvolti diversi.

 

Un giornale sionista, a dispetto di tutto?

Antisionista, per qualcuno addirittura antisemita. Giornale arabo in lingua ebraica. Sono solo alcune delle definizioni dei detrattori di Haaretz. Dov’è stato pubblicato l’articolo, su Haaretz? Non mi prendo nemmeno la briga di leggerlo e se lo faccio, sarà solo per dire dopo che sono tutte falsità. Esiste naturalmente anche l’atteggiamento uguale e contrario, quello del pubblico (perlopiù straniero, spesso non ebraico) per il quale Haaretz (o meglio, alcune sue firme) costituisce l’unica eccezione al rifiuto ideologico di approfondire il punto di vista israeliano attraverso i suoi media.

Per capire meglio questa polarizzazione, è di grande aiuto un editoriale scritto un paio d’anni fa da Shmuel Rosner per il New York Times, intitolato significativamente “La gente contro Haaretz”: “La storia della gente contro Haaretz – ovvero, del numero crescente di israeliani che detestano il giornale – è importante da raccontare perché ci dice qualcosa su Israele stesso: che la sinistra del paese sta evolvendo da una posizione politica a uno stato mentale e che la maggioranza di destra non si è ancora evoluta in un pubblico maturo e sicuro di sé”.

Rosner, che in passato ha lavorato in redazione, ha parole di grande stima per il giornale ma non risparmia critiche alla linea “contro” a tutti i costi: “Il risultato del suo discorso crescentemente provocatorio è spesso patetico, a volte comico e occasionalmente preoccupante. Haaretz irrita la maggior parte degli israeliani dando voce a descrizioni assurde di ciò che Israele è o fa (“fascismo”, apartheid) e il pubblico non manca mai di cadere nel “clickbait” e indignarsi. È un gioco infantile e, sul lungo termine, Israele perde. Un giornale di qualità e di dissenso coerente, necessario in una società pluralista, è diventato una piattaforma di puerile bastian-contrario”.

Dal canto suo, Haaretz respinge da sempre le accuse di antisionismo e antiebraismo: “Il nostro miglior successo è essere stati il “partner mediatico” della realizzazione del sogno sionista. Il nostro peggior fallimento? Non aver saputo sensibilizzare l’opinione pubblica quando iniziò la costruzione dei primi insediamenti [nei Territori]. È compito del giornale sostenere Israele, ma anche essere critico”, ha detto l’editore Amos Gershon nel podcast andato in onda sul sito di Haaretz in occasione del centenario. Gli fa eco Anshel Pfeffer, nota firma: “Siamo la più vecchia istituzione sionista dello Stato e, insieme all’Università Ebraica di Gerusalemme, l’unica giunta ai giorni nostri. La missione di Haaretz non è mai stata solo costruire lo Stato Ebraico, ma assicurarsi che esso fosse all’altezza dei suoi valori fondanti, ebraici e sionisti. (…) E non potrebbe esistere un giornale più ebraico dell’edizione inglese di Haaretz – l’antitesi della hasbarah e delle certezze comode – intrisa dell’ethos talmudico di Landau [David Landau, primo editore della versione inglese] di mettere in costante discussione le verità accettate e infastidire chi occupa posizioni di potere”.

Silvia Gambino
Responsabile Comunicazione

Laureata a Milano in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale, ha studiato Peace & Conflict Studies presso l’International School dell’Università di Haifa, dove ha vissuto per un paio d’anni ed è stata attiva in diverse realtà locali di volontariato sui temi della mediazione, dell’educazione e dello sviluppo. Appassionata di natura, libri, musica, cucina.


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