Cultura
Chad Gadyà, tre interpretazioni della canzone

Di libertà e giustizia nel canto “Un capretto”

Chad gadyà, “un capretto”, è il più noto dei canti con cui si conclude il seder di Pesach. Della Haggadà rappresenta anche uno degli inserti più recenti, anche se non il più recente in assoluto, comparendo per la prima volta in una edizione praghese del 1590. Si tratta di una aggiunta fatta quando il testo della Haggadà era ormai sostanzialmente fissato – insieme agli altri canti finali compare infatti dopo la lettura del passo “l’ordine di Pesach è terminato secondo le sue regole” – ma riassume la visione del mondo e della storia sotteso alla celebrazione del seder, cosa questa che ha certamente contribuito a sancirne la popolarità e fissarlo nella tradizione. Il testo di Chad gadyà prende probabilmente a modello un canto popolare tedesco attestato nella prima età moderna, Der Herr, der schickt den Jockel aus, ancora oggi cantato in numerose varianti. Il contenuto è famoso anche fuori dal mondo ebraico: un capretto viene acquistato dal padre per due soldi, viene divorato dal gatto, a sua volta morso dal cane che è poi colpito dal bastone che viene bruciato dal fuoco che è spento dall’acqua che è bevuta dal bue che viene scannato dal macellaio il quale viene colpito dall’angelo della morte. Infine interviene Dio stesso ad annientare l’angelo della morte e a mettere fine così alla catena.

Molte sono le interpretazioni che sono state date nei secoli al canto del capretto, ma quella di gran lunga prevalente vi legge una descrizione per immagini della legge della naturale tendenza alla sopraffazione. Il forte opprime e divora il debole, e a sua volta verrà piegato da qualcuno più forte di lui. La natura è il regno della piena libertà, ma questa si esercita attraverso il mezzo della violenza e il fine dell’egoismo. Libertà è quindi sinonimo non di civiltà, ma di vita selvaggia: naturale appunto. Fino a qui, sembra una movimentata illustrazione della visione del mondo di Thomas Hobbes. Ma se Chad gadyà illustra la catena della necessità naturale, mostra anche la possibilità di rompere la catena e dunque di essa il limite. Dio interviene infatti a chiudere il circolo delle violenze commesse e subite introducendo una superiore giustizia grazie alla quale tutte le figure precedenti nel canto sono collocate in un posto preciso e guardate dunque in prospettiva. È l’idea di ricompensa per le azioni commesse, con cui il canto termina, a suggerire che ci sia un altro modo di vedere la vita, un modo differente dalla legge della giungla. La regola che con le figure precedenti sembrava essere quella del più forte ora è guardata da un’altra angolatura, quella della responsabilità, in un’ottica di premio e punizione per le azioni commesse. Un’ottica, se si vuole, morale.

La giustizia superiore alle azioni individuali, tra i portati più significativi della civiltà ebraica ben prima della composizione di Chad gadyà, ha tuttavia anch’essa un limite, ed è il canto stesso a metterlo in scena. La giustizia superiore è essenziale per mostrare la parzialità e l’insufficienza della natura – irrazionale, bestiale, regno in cui all’impulso universale alla sopraffazione non è posto un limite – ma non è in grado di cancellare le violenze e le ingiustizie che sono state perpetrate. Come scrive Elie Wiesel commentando la conclusione del libro di Giobbe, dopo aver messo alla prova l’uomo giusto Dio può anche ricompensarlo con nuovi figli e figlie, ma non può ridargli quegli stessi figli e quelle stesse figlie che gli sono stati tolti. La giustizia, in altre parole, mostra la parzialità della violenza ma non può riscrivere la storia. È un tema affascinante che troviamo, per esempio, anche nell’ultimo capitolo dei Promessi sposi, tanto spesso equivocato come un ristabilimento della giustizia sotto le docili ali della provvidenza che alla fine aggiusta tutto. Non è forse vero che il malvagio don Rodrigo muore di peste e che Renzo e Lucia finalmente si sposano? Certo, ma è altrettanto vero che la peste, “come una gran scopa”, ha spazzato via delinquenti e innocenti senza distinzioni, non solo don Rodrigo e i suoi “bravi” ma anche la bambina Cecilia e frate Cristoforo, giovani e anziani, dotti e ignoranti, sagaci e stupidi. Dio dà senso al mondo, per Manzoni e per l’autore anonimo di Chad gadyà, ma non può cambiare ciò che è stato.

Come il canto del capretto di Pesach è stato letto e riletto nella letteratura nel corso dei secoli? Vediamo alcuni esempi in cui scrittori ebrei hanno provato a riflettere sulla scorta di Chad gadyà sui temi della natura, nella morte e del rapporto tra giustizia e ingiustizia in ottica teologica.

La natura – Israel Zangwill nell’ultimo racconto dei Sognatori del ghetto intitolato significativamente “Chad gadyà” e ambientato in una Venezia fuori dal tempo evoca la legge non scritta della natura, che è la legge della violenza. “Era tutto un flusso – non vi era null’altro che il flusso. Panta rei. Il più saggio aveva sempre compreso ciò. Il gatto che divorò il capretto, e il cane che morse il gatto, e il bastone che picchiò il cane, e il fuoco che bruciò il bastone, e così via senza fine”. I sognatori del ghetto, secondo le parole di Zangwill stesso, è “il racconto di un sogno che non si è avverato”. Dal ghetto si sogna di uscire, ma non si può mai uscire: perché altri lo impediscono o perché non lo si vuole davvero, oppure per un misto delle due cose. Vige la legge della natura della circolarità, dell’eterno ritorno dell’uguale. Chad gadyà la raffigura alla perfezione: “Non vi era nulla di nuovo sotto il sole. La vita come una storia raccontata da un idiota, piena di rumore e di furia, e significante nulla”. Il canto diventa così epitome di una teologia della storia: “Chad Gadya! Chad Gadya! Era un lamento sulla lotta per resistenza, la inutile processione dei secoli, lo scomparire degli antichi imperi – come avevano rilevato i commentatori – e degli imperi moderni che finirebbero per andarli a raggiungere, finché la terra stessa – come hanno rilevato gli scienziati – finirebbe nel freddo e nelle tenebre. Flusso e riflusso, il fuoco e l’acqua, l’acqua e il fuoco!”. Per arrivare al finale, in cui il termine del canto offre una visione nuova e più ricca di tutte le figure precedenti, tutte hegelianamente allo stesso tempo conservate nella loro individualità e superate nella totalità del processo che le comprende: “Chad Gadya! Chad Gadya! Egli non aveva mai pensato al significato delle parole, connettendole sempre col finire della cerimonia. ‘Tutto finito! Tutto finito!’, sembravano lamentare, e pareva che nella strana musica vi fosse un senso di infinita delusione, d’infinito riposo; una maniera di finire, una conclusione, cose fatte e finite, una febbre calmata, un lavoro completato, un clamore abbattuto, una campana a morto, un incrociare delle braccia per dormire”.

La morte – Giorgio Bassani menziona Chad gadyà in una scena importante del Giardino dei Finzi-Contini, un romanzo il cui tema onnipresente è la morte, la sterilità, il destino già scritto, sigillato e irrevocabile. Dopo aver descritto il seder di Pesach come un “disperato e grottesco convegno di spettri” su cui aleggia la morte, il protagonista narratore sente il padre intonare la canzone del Caprét ch’avea comperà il signor Padre, cioè Chad gadyà nella versione ferrarese. Ma in quel momento squilla il telefono: è Alberto Finzi-Contini che lo convoca alla villa per una sorpresa. Inforca la bici e va. Così il canto del capretto rimane sospeso a metà, nel ciclo delle violenze distruttive che si superano l’un l’altra. Nell’illusione che sia possibile una conclusione diversa, che rimane tuttavia sempre un’illusione. Per Bassani non esiste nessuna teodicea, nessuna prospettiva di giustizia divina. La storia non è vissuta ma guardata sotto vetro come si fa in laboratorio oppure in un parco archeologico pieno di antiche tombe. E non è altro, allora, che nudo elenco delle azioni di calpestatori e calpestati.

La teologia – Elie Wiesel riflette su Chad gadyà in uno dei suoi racconti più belli, intitolato “L’ospite di una sera” e contenuto nel volume L’ebreo errante. Come spesso in Wiesel, anche in questo caso le considerazioni sulla storia e la posizione del popolo ebraico in essa sono lette attraverso le lenti della Shoah. Il racconto è ambientato in Ungheria nella primavera 1944, quando i tedeschi ormai sconfitti in guerra hanno appena invaso il paese e stanno organizzando rapidamente la deportazione e lo sterminio di centinaia di migliaia di ebrei. È la sera di Pesach, ma durante il seder irrompe un ospite inatteso, un profugo dalla Polonia che racconta, nell’incredulità generale, quello che i tedeschi hanno già fatto agli ebrei polacchi e stanno per fare a quelli ungheresi. L’ospite è un profugo braccato ma è anche Elia il profeta che viene atteso da tutte le famiglie proprio la sera di Pesach. Come Elia, anche l’ospite si dilegua alla fine del seder correndo via e scomparendo senza lasciare tracce. I famigliari lo cercano senza successo e infine con “il cuore pesante, ritornammo a tavola e alzammo i nostri bicchieri ancora una volta. Recitammo le consuete benedizioni, i salmi e, per finire, cantammo Chad Gadya, questo terribile canto in cui, in nome della giustizia, il male attira il male, la morte chiama la morte, finché l’Angelo sterminatore non si fa a sua volta sgozzare dall’Eterno stesso, benedetto egli sia”. Ma quella sera anche Chad gadyà non è uguale a tutti gli altri Chad gadyà cantati negli anni precedenti. Come può esserlo, con la distruzione che si avvicina di ora in ora? Di solito, prosegue il narratore, “amavo questo canto ingenuo dove tutto sembrava semplice, primitivo: il gatto e il cane, l’acqua e il fuoco, di volta in volta carnefici e vittime, destinati a subire la stessa punizione all’interno di uno stesso disegno. Ma quella sera il canto non mi piacque. Mi ribellavo contro la rassegnazione che esso implicava. Perché Dio agisce sempre in ritardo? Perché non ha eliminato l’Angelo della Morte prima che fosse stato commesso il primo omicidio?”. La risposta – o forse una ulteriore domanda? – arriva nelle ultime righe, in cui il narratore sopravvissuto ad Auschwitz toglie la maschera all’ospite misterioso: “Alla fine di un lungo viaggio che sarebbe durato quattro giorni e tre notti egli scese in una piccola stazione, vicino a una cittadina tranquilla, da qualche parte nella Slesia, dove già l’attendeva il suo carro di fuoco per portarlo in cielo. Ciò non prova abbastanza che era il profeta Elia?”. La storia – e la storia del capretto – per Wiesel non può essere altro che teofania, cioè storia del mostrarsi e del nascondersi di Dio nel mondo.

Altre capre – La letteratura ebraica italiana del Novecento è piena di altre capre, ma non è detto che di capre di Pesach si tratti. Alcune sono indubbiamente capre ebree, come quella della poesia “La capra” di Saba: “In una capra dal viso semita / sentiva querelarsi ogni altro male, / ogni altra vita”. Che è una capra solitaria e particolare il cui dolore allo stesso tempo “è eterno, / ha una voce e non varia”, è insomma un dolore universale. Altre, come le tante capre che affollano i libri di Carlo Levi, sono di volta in volta lucane, siciliane, sarde e perfino sovietiche dell’Asia centrale, eppure sempre parenti di quel capretto comprato dal padre al mercato per due soldi. “Sono, in qualche modo, animali sacri”, come le capre mannalittas, quelle cioè che in Sardegna “si tengono nelle case, e che servono per il latte della famiglia e dei bambini”. Oppure come la capra Nennella rispettata dal cane Barone nel paese di Lucania, una capra considerata come una persona che “entrava nella mia cucina, annusando, desiderosa di sale”. Quando Levi va a dipingere al limitare del paese, “Nennella seguiva saltellando la fila dei ragazzi, mentre il cane correva innanzi abbaiando di felice intrattenibile libertà”. Quella libertà e quella felicità che al capretto del canto di Pesach, oggetto di altrui violenza, sono negate.

Chag Pesach Sameach!

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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