Cultura
Chaim Grade, “La moglie del rabbino”: la recensione

Ecco perché quello di Grade è un romanzo decisamente attuale

“La moglie di un rabbino deve sapere come comportarsi con i notabili, essere cordiale con gli ospiti e non immischiarsi negli affari della comunità”.
Lo scrive Chaim Grade nel suo breve e brillante romanzo yiddish Di rebetsin (1974), recentemente tradotto da Giuntina col titolo La moglie del rabbino. In contrasto con questa definizione, Grade costruisce un personaggio spregiudicato e vendicativo, astuto ed intelligente; la rebbetzin Perele, figlia di un illustre rabbino lituano, rifiutata dal promesso sposo, un promettente talmudista che la allontana dopo aver scorto in lei una vena di malvagità.
Perele — il fidanzato capisce subito — “sarebbe stata una di quelle rebbetzin che tengono il marito sotto la ciabatta e lo subissano di consigli. Così va a finire che tutta la città ride alle spalle del rabbino e lo chiama «il marito della rebetzin»”. Umiliata, la donna sposa un rabbino meno importante, non tanto ambizioso quanto lei vorrebbe, con cui mette su famiglia a Greypeve.
Da dietro le quinte, con pazienza e creatività, Perele macchina la sua grande vendetta, muovendo il povero marito come un burattino, con l’intento di appropriarsi del prestigio mancato.
In poche parole, con lucidità narrativa ed un notevole distacco dai suoi personaggi e dalla sua trama, Grade ha scritto un gioiello della letteratura yiddish che oggi, grazie alla lungimiranza di Giuntina e alla splendida traduzione di Anna Linda Callow, anche il pubblico italiano ha occasione di scoprire. Sembra quasi un altro memorandum — dopo il successo de La famiglia Karnowski (Adelphi) — volto a ricordarci che la letteratura yiddish si estende ben oltre l’opera del Premio Nobel Isaac Bashevis Singer.
Lo stile narrativo di Grade pare seguire una cinepresa: cattura larghe vedute delle strade di Horodne e dei loro passanti e si stringe su piccoli quadretti poetici come quello della neve che copre la tomba di una giovane donna morta prematuramente. La cinepresa riprende scene rumorose come la festa di bar-mitzvà del figlio di un rabbino locale e si intrufola in spazi ben più intimi come il letto di morte di un grande talmudista.
In una scena particolarmente cinematografica, Grade racconta di Perele che ascolta il marito mentre recita un sermone in sinagoga: “Il marito in piedi presso l’aròn (l’arca) rimaneva fuori dal suo campo visivo, ma dalla voce insicura sentiva che non dimenticava neanche per un attimo la presenza di rabbi Moshe Mordechai tra i suoi ascoltatori”.

La prosa di Grade si affida ad una miriade di similitudini volte a descrivere la realtà ebraica lituana degli anni Trenta. È così che la rebbetzin parla “con calma, con la voce asciutta di un orologio da parete che batte le ore in modo secco e preciso”. I capi della comunità, in un momento di tensione, sono “gelidi e rabbuiati come il giorno invernale fuori dalla finestra”. Gli studiosi hanno impresse “nelle fronti corrucciate … le grandi pagine del Talmud nell’edizione di Vilna, con tutti i commenti che circondavano il testo, e i relativi volumi di decisioni prese da dotti antichi e moderni”.
La moglie del rabbino è un romanzo costruito sui parallelismi. Perele, la rebbetzin affamata di prestigio sociale, da una parte, e dall’altra Sara Rivka, la donna che ha sposato il suo ex fidanzato, di spirito umile, agli occhi della sua rivale “un lulàv appassito”. Il razionalismo da una parte e la mistica dall’altra. Il sionismo dei sostenitori del movimento Mizrahi (Merkaz Ruhani) contro l’antisionismo dell’Agudat Israel. I notabili della comunità contrapposti al «popolino» che Perele tanto disprezza.

Protagoniste del romanzo di Grade, in un mondo che all’apparenza sembra pura definizione di patriarcato, sono le donne, che senza troppo esporsi gestiscono le sorti dei loro mariti e di conseguenza delle loro comunità. Alla fine del romanzo, dopo una serie di sviluppi e colpi di scena degni di un’opera teatrale, la rebbetzin Perele rinuncia addirittura a quella parvenza di ruolo da “dietro le quinte” e comincia a prendere le decisioni al posto del marito e a dettar legge in tutta trasparenza.
È un ritratto spietato, che però racconta una realtà a noi non tanto distante: le accese discussioni sullo Stato di Israele, i litigi interni alle comunità ebraiche, l’eterno malcontento dei membri nei confronti dei loro rabbini. Il romanzo di Grade, nonostante sia ambientato in un mondo che non esiste più, è attuale e rilevante, perché ci ricorda quanto i costumi cambino e quanto alcune strutture e tensioni restino però invariate.

Simone Somekh
Collaboratore

Vive a New York, dove lavora come giornalista e scrittore. Insegna al Touro College di Manhattan. Ha collaborato con Associated Press, Tablet Magazine e Forward. Con il suo romanzo Grandangolo (ed. Giuntina), tradotto in francese, tedesco e in prossima uscita in russo, ha vinto il Premio Viareggio Opera Prima. 

@simonesomekh


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.