Cultura
Covid-19: perché la Corte suprema israeliana boccia l’intervento dello Shin Bet

Niente tracciamenti attraverso cellulari e carte di credito. Una decisione importante che entra nel merito del difficilissimo rapporto tra libertà individuali e sicurezza collettiva

Si può leggere in molti modi, ma è senz’altro anche un nuovo capitolo della strategia della contrapposizione tra il premier Benjamin Netanyahu e il potere giudiziario israeliano. Ci riferiamo alla bocciatura che la Corte suprema israeliana, con un suo specifico pronunciamento, ha operato riguardo alla disposizione con la quale l’esecutivo autorizzava lo Shin Bet-Shabak, il controspionaggio interno, al monitoraggio degli eventuali spostamenti dei contagiati dal Covid-19 attraverso il controllo dei loro cellulari e degli strumenti di mobilità elettronica, tra cui anche le carte di credito e di debito. Va ricordato che la Corte Suprema, organismo di rilevanza strategica nella determinazione dell’accettabilità delle decisioni di natura giuridica, ma anche di ordine politico, esercitando quindi un sindacato di verifica a posteriori, si è assunta la funzione di controllo di legalità delle decisioni emesse anche dai tribunali rabbinici. Come tale, è un organismo di riequilibrio e contrappeso decisivo nel sistema dei poteri israeliani.

Da un mese circa il premier uscente (e rientrante) aveva infatti richiesto ai servizi di sicurezza e di informazione di dare corso all’identificazione e al tracciamento della mobilità dei positivi al Coronavirus. Il monitoraggio era già stato collaudato nella lotta contro il terrorismo, rivolgendolo nei confronti dei sospetti, dei loro famigliari, della cerchia di amicizie e delle relazioni sociali. Per diversi giuristi, e per una parte della società israeliana, l’estensione di misure similari al resto della collettività costituisce una lesione potenziale dei diritti fondamentali.

Il vero oggetto del contendere non è evidentemente la lotta contro la pandemia ma le modalità con la quale essa va condotta. Il tracciamento è un tema estremamente delicato, non solo per Israele, chiamando in causa il difficilissimo rapporto tra libertà individuali e sicurezza collettiva. Non è un caso, infatti, se il pronunciamento dell’Alta Corte, che nel Paese svolge da sempre un ruolo di revisione critica delle decisioni più impegnative assunte dalle maggiori autorità nazionali, sia avvenuta dopo le ripetute sollecitazioni espresse da esponenti della società civile. Il fuoco dell’obiezione è duplice: la raccolta, lo stoccaggio e l’eventuale uso, al di fuori delle stesse funzioni precisate dal premier, del deposito di dati ottenuto attraverso il monitoraggio collettivo; la necessità di procedere ad una legislazione specifica, essendo la Knesset il luogo deputato a decidere nel merito. C’è infatti un combinato disposto tra la definizione delle sedi appropriate per assumere impegni che vincolano aspetti significativi dell’esistenza delle persone e il persistente conflitto di ruoli che da sempre alimenta la democrazia israeliana, tanto più in questi ultimi tempi, dinanzi alla rinnovata premiership di Netanyahu.

È non meno vero che la Corte suprema ha tuttavia stabilito che il ricorso al monitoraggio, nei termini previsti dalla disposizione del primo ministro, potrebbe essere possibile qualora l’iter legislativo per una legge in tale senso fosse avviato dal parlamento stesso; così come, l’affermazione di principio, per cui la lotta per arginare il virus può implicare anche l’adozione di misure straordinarie, che possono temporaneamente derogare da quella che altrimenti è l’ordinaria vita democratica. Il fattore tempo, tuttavia, è inteso come dirimente: non può avere corso una iniziativa dai caratteri «invasivi» (Esther Hayut, Presidente della Corte) se non vi è chiarezza incontrovertibile sulla sua durata nonché sulla destinazione delle informazioni raccolte. Contestualmente, l’Alta magistratura ha anche sentenziato sul fatto che la sorveglianza sui giornalisti da parte dei servizi di informazione e sicurezza in materia di Covid-19 debba essere vincolata a procedure di garanzia, affinché i principi stessi di riservatezza delle fonti e di libertà di espressioni non siano vincolati o addirittura lesi.

Antecedentemente, il Mossad, diretto da Yossi Cohen, uomo vicino al premier Netanyahu, così come lo stesso ministero della Difesa israeliano, erano stati chiamati in causa per reperire ed assicurare al Paese materiale sanitario adatto a combattere la pandemia, facendo leva sui diversi contatti intrattenuti riservatamente con diversi Paesi del mondo. Se le nazioni con le quali Israele ha relazioni diplomatiche dirette o indirette il centinaio, il Mossad ha un’agenda di relazioni ancora più corposa, che bypassa i vincoli formali delle relazioni “in chiaro”.

È evidente tuttavia che la gestione, non solo sanitaria e politica, della crisi determinata dalla pandemia, sia un banco di prova sul quale misurare aspetti importanti, se non decisivi, della riformulazione del rapporto tra pubblico e privato nelle società dell’informazione e della conoscenza. Il rapporto tra tutela dell’anonimato come, più in generale, della sfera della privacy, e interessi della collettività (laddove essi – tuttavia – non è mai detto che coincidano immediatamente con quelli delle istituzioni pubbliche che operano in rappresentanza del Paese) è una questione aperta, alla quale il diritto vigente, in Israele come in tutti le nazioni a sviluppo avanzato, non sa dare sempre e comunque risposte adeguate. Si tratta infatti di un vero e proprio working in progress, che è inevitabilmente un campo anche di conflitti, sia di interpretazioni che di interessi in quanto tali.

 

 

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Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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