Cultura
Democrazia, demografia ed economia: Israele compie 75 anni

I numeri e i dati che fotografano le trasformazioni dello Stato nel corso dei decenni

A settantacinque anni dalla sua nascita lo Stato d’Israele ha mantenuto alcuni caratteri d’origine ma ne ha mutati molti altri. Ha mantenuto le sue modestissime dimensioni, 22.072 chilometri quadrati, comprendendovi anche le alture del Golan. Continua ad essere formalmente in stato di guerra con alcuni suoi vicini, il Libano e la Siria, anche se la natura del confronto armato ai suoi confini ha conosciuto trasformazioni nel corso del tempo, essendo oggi condotto – perlopiù – da organizzazioni terroristiche o comunque paramilitari e non da eserciti nazionali. In molti campi il cambiamento è stato invece corposo e accelerato, quasi a volere accentuare il carattere di «paese laboratorio»che, dalla sua origine, porta con sé. Fino a non molto tempo fa avremmo parlato perlopiù dell’evoluzione economica. E a ragione, per molti aspetti. Ad oggi, tuttavia, quello che più risulta sorprendente, e spiazzante, è il grado di accesa polarizzazione politica. Ad un esecutivo di destra, dove sono presenti esponenti del più acceso radicalismo nazionalista, populista e sovranista, infatti si contrappone il resto del Paese, che non intende concedere alcunché a ciò che considera come una deriva non solo illiberale ma anche antidemocratica. Le manifestazioni di piazza, tanto plateali quanto partecipate, con centinaia di migliaia di persone costantemente mobilitate, soprattutto a partire dal sabato sera, sono il segno di questa contrapposizione. Che non è solo tra destra e sinistra, come altrimenti d’abitudine si afferma. Semmai è l’indice di una radicalizzazione del confronto tra quanti intendono garantire il rispetto delle regole nel sistema istituzionale, e di rappresentanza della collettività, e la vocazione, a tratti quasi eversiva, che si esprime in formazioni politiche, spesso votate da un numero non irrilevante di elettori, nei confronti degli assetti legali e del sistema di check and balance dei poteri. Ossia, del circuito di controllo e bilanciamento reciproco tra di essi. Ad oggi, la vera domanda su Israele rinvia, ancora una volta, alla sua futura sopravvivenza. Ma non solo per le persistenti minacce esterne (terrorismo, Iran e quant’altro) bensì per l’evidente stato di malessere che attraversa l’intera società nazionale e del quale i fermenti politici odierni sono solo l’epitome, la punta dell’iceberg, estrinsecandosi in un lungo periodo di ingovernabilità, dove ad esecutivi fragili, senza solide maggioranze parlamentari, si sono sovrapposte elezioni in successione.

Più in generale, il Paese sembra trovarsi in una condizione di permanente stallo politico, dal quale i tanti non sanno come uscire. Mentre i vecchi partiti che, per settant’anni e più, ne hanno accompagnato l’evoluzione, si sono progressivamente dissolti (e con essi le culture politiche di cui erano espressione), ciò che si è in parte sostituita è la presenza di formazioni politiche (e ideologiche) dove l’estremismo delle concrete posizioni politiche fa il paio con il radicalismo ideologico di fondo. Se si fa eccezione per il Likud, tuttavia sotto l’oramai esclusivo controllo del suo leader Benjamin Netanyahu, che lo ha trasformato in una sorta di formazione politica personale, estromettendo, passo dopo passo, i suoi avversari interni, ciò che resta è quindi un’opposizione centrista, laica e liberale,  incapace tuttavia di formulare progetti politici alternativi e, ancor più, inabile nel costruire maggioranze di governo diverse da quella a tutt’oggi fortemente spostata a destra. La sinistra socialdemocratica, socialista e sionista, che tanta parte ha avuto nella genesi e nel consolidamento d’Israele, è oramai solo una pallida e residuale immagine dei suoi trascorsi.

Più in generale, in un tale quadro, per nulla confortante, si raccolgono tutta una serie di questioni che il Paese, nei suoi recenti anni di pur tumultuoso sviluppo, non è riuscito ad affrontare e a risolvere consensualmente. Alle fenditure identitarie pregresse (secolarizzati versus religiosi; destra contro sinistra; ebrei ed arabi israeliani; modernisti cosmopoliti e tradizionalisti; abitanti d’Israele e residenti nei Territori della Cisgiordania e così via) si sono adesso sovrapposte nuove urgenze. La prima di esse è quella che demanda all’assenza di un Costituzione scritta, votata, promulgata e quindi vincolante per tutti. Si tratta di un tema annoso, che si trascina dalla nascita stessa del Paese, trovando in parlamento, durante le sue diverse legislature, sempre e comunque l’opposizione radicale dei partiti religiosi, altrimenti indispensabili per la formazione della coalizioni di governo di qualsivoglia colore politico. Se fino a un certo numero di anni fa poteva sembrare ancora un obiettivo da raggiungere, quanto meno in un qualche futuro a venire, oggi invece si manifesta soprattutto per i rischi istituzionali, oltreché politici, che la sua mancanza produce da subito. L’impossibilità di identificare con chiarezza dei perimetri all’azione dei soggetti istituzionali (soprattutto governo e Corte suprema, ma non solo essi), così come la permanente competizione aperta tra esecutivo, legislativo e giudiziario, rischia di minare non solo il già precario equilibrio dei poteri vigenti ma anche la loro separazione in sfere autonome, e come tali concorrenti, di iniziativa sovrana. La reciproca delegittimazione che da un tale stato di cose può derivare, è evidente a tutti, in Israele così come al di fuori del Paese stesso.

Non di meno, posto che ad una crisi se ne legano altre, un ulteriore passaggio problematico è quello del destino della Cisgiordania. L’evoluzione, la crescita e il rafforzamento degli insediamenti ebraici sta incidendo pesantemente non solo sulle residue prospettive di autonomia delle popolazioni arabo-palestinesi autoctone ma anche, e soprattutto, nel quadro politico israeliano, dove la «rivendicazione della terra» – quindi dell’espansione delle colonie e, in prospettiva, di un’eventuale annessione dei territori – come fondamento di un progetto politico già in parte in essere, costituisce un potenziale rivolgimento anche per la democrazia israeliana. Il dibattito sul rapporto tra democrazia ed ebraismo, legge positiva e Torah, legislazione israeliana e legislazione ebraica, ruota quindi intorno a questi due nodi strategici. Non è il solo riproporsi di questioni non inedite ma il loro riformularsi alla luce dell’evoluzione di questi ultimi tre decenni, tra globalizzazione, digitalizzazione ed etnicizzazione delle identità collettive. A tali ordini di problemi, peraltro, altri se ne aggiungono, rimandano soprattutto al divario economico e sociale tra quella parte di popolazione che ha beneficiato dei processi di modernizzazione e quanti, invece, ne sono rimasti ai margini. Tra di essi, per intenderci, non solo le enclave tradizionalmente più fragili (ultraortodossi, arabi-israeliani, popolazione con un basso livello di scolarizzazione) ma anche e soprattutto in quella parte di ceto medio che in Israele, così come negli altri Paesi a sviluppo avanzato, è rimasta esclusa dai ritorni dell’accelerata modernizzazione del Paese.

La demografia, così come la composizione sociale del Paese, costituiscono, dal punto di vista analitico, un aspetto imprescindibile di questo orizzonte. Ad oggi, Israele è forse l’unica democrazia occidentale con un elevato tasso di fertilità. Da ciò, per inciso, deriva la capacità di garantirsi una crescita economica nazionale senza dovere fare ricorso al lavoro degli immigrati (così come invece avviene in altri paesi, a partire dalla stessa Italia). A tale riguardo, secondo i dati del 2021 (proiettati sull’anno corrente), il tasso di fecondità della componente ebraica è di 3,13 nascite per donna, superiore quindi a quello arabo, pari al 2,85. In tale trend va tuttavia considerato il fatto che le famiglie ultraortodosse rimangono molto più prolifiche di quelle secolarizzate. La qual cosa, quanto meno in prospettiva, lascia intendere che la prima componente è destinata a crescere di numero e di peso (anche politico) negli equilibri del Paese. Per capire di che cosa stiamo parlando, si consideri che il tasso medio di fecondità OCSE è invece di 1,61 nascite per donna.

Non di meno, nel 2023 Israele si trova dinanzi ad una potenziale ondata immigratoria di circa 500mila nuovi elementi (non tutti ebrei), provenienti perlopiù dall’Ucraina, dalla Russia, oltre che dalle ex Repubbliche sovietiche, così come – anche se in misura minore – dalla Francia, dalla Gran Bretagna, dalla Germania, dall’Argentina e dagli Stati Uniti. Una tale prospettiva, tuttavia non destinata obbligatoriamente a verificarsi appieno, fa comunque sì che il combinato disposto tra politiche dell’assorbimento degli Olim (i nuovi immigrati, provenienti dai più disparati paesi d’origine e con una concezione dell’essere ebrei estremamente eterogenea) e definizione di un’identità nazionale basata, al medesimo tempo, sull’«ebraicità» così come sulla cittadinanza giuridica di natura universalista, rimangano tra le priorità per un Paese che si è costruito, nel tempo, grazie anche ai flussi migratori.

Sussiste da sé, comunque, un’evoluzione demografica in campo ebraico. Il numero di nascite di ebrei israeliani nel 2022 (137.566 elementi) è stato superiore del 71% rispetto al 1995 (80.400), mentre il numero di nascite di arabi israeliani, nel medesimo arco di tempo (43.417), è stato pari al 19% in più rispetto al 1995 (36.500). Nel 2022, le nascite ebraiche erano quindi il 76% delle nascite totali (180.983), rispetto al 69% del 1995. Le donne israeliane –  seconde solo all’Islanda per accesso nel mercato del lavoro – sono tra le poche a sperimentare una correlazione diretta tra un aumento del tasso di fertilità, da un lato, e incremento dell’urbanizzazione, dell’istruzione, della capacità reddituale individuale in età di matrimonio dall’altro. Parimenti, nel 2022, si sono registrati 45.271 morti tra gli ebrei israeliani, rispetto ai 31.575 del 1996. Si tratta di un aumento del 43% a fronte, tuttavia, del raddoppio della popolazione nazionale (da quattro a nove milioni). Il numero di morti tra gli ebrei israeliani è stato quindi del 33% rispetto alle nascite di (nel 1995 era invece del 40%). Un indice che, nel suo insieme,  riflette lo sviluppo di una società sempre più giovane.

Dopo di che, non la medesima cosa può essere dette tra gli arabi israeliani (6.314 morti nel 2022, di contro ai 3.089 del 1996, con un aumento del 104%, percentuale che riflette l’invecchiamento del gruppo). Nel 2021, l’aspettativa media di vita dei maschi israeliani era di 80,5 anni e delle donne di 84,6. Per la componente araba si colloca a 78 anni per gli uomini e a 82 per le donne. Anche qui, per dare un parametro di confronto, l’aspettativa di vita negli Stati Uniti è, per i maschi, di 73,2 anni mentre per la popolazione femminile di 79,1. In Cisgiordania, assomma a 74 per gli uomini e a 78 per le donne. L’occidentalizzazione della demografia araba in Cisgiordania – meno figli, maggiori investimenti sugli individui nella loro singolarità, prevalenza dei lavori nei settori dei servizi – è stata accelerata dalla radicale urbanizzazione (da una popolazione rurale del 70% nel 1967 si è passati ad un insediamento urbano del 77% nel 2022), così come dall’aumento dell’età media di nuzialità per le donne (dai 15 ai 24 anni), dall’uso consistente di contraccettivi (70% delle donne) così come dalla contrazione del periodo riproduttivo (dai 16-55 anni trascorsi agli attuali 24-45). L’età media degli arabi palestinesi è di 22 anni, rispetto ai 18 del 2005.

Tali saldi vanno poi raffrontati con l’immigrazione ebraica che, in oltre trent’anni ha misurato una diminuzione media statistica annuale da poco più di 14mila soggetti a 10mila, a fronte del raddoppio della popolazione nazionale. In sostanza, Israele è sempre meno una nazione di Olim e sempre più composta da autoctoni. Così come va registrato il fatto che l’occidentalizzazione dei tassi di fecondità ha caratterizzato tutte le nazioni a prevalenza musulmana diverse da quelle della regione sub-sahariana: in Giordania si registrano 2,9 nascite per donna; in Iran 1,9; in Arabia Saudita 1,9; in Marocco  2,27; in Iraq 3,17; in Egitto 2,76 e così via. Al netto di molte altre considerazioni demografiche (e non solo) rimane la sequenza storica per la quale se, nell’area compresa tra l’attuale Stato d’Israele e la Cisgiordania, nel 1897 c’era una minoranza ebraica del 9%, nel 1967 si aggirava intorno al 47% mentre ad oggi è del 69% (7,5 milioni di ebrei, 2 milioni di arabi israeliani la parte restante composta di arabi della «Giudea e Samaria» stima, quest’ultima, tuttavia rigettata dalle autorità palestinesi).

Rispetto al 1950, quando gli israeliani erano 1.370mila, al 2018 la popolazione era già aumentata di sei volte e mezza. Il tasso di crescita annua è oggi del 2%, quello delle nascite del 2,15%. La composizione dell’età indica che il gruppo che va dagli 0 ai 14 anni costituisce il 27,3% della popolazione (17% per la media europea), quello che raccoglie gli israeliani tra i 15 e i 64 anni è del 62,2% mentre per le classi d’età più anziane si arriva al 10,5% (il 15% in Europa). L’età media degli israeliani ebrei è di 31,6 anni, quella degli israeliani arabi è di 21,1 anni. La società israeliana è rigorosamente multietnica, essendo il prodotto dell’incontro tra individui e gruppi dalle più disparate origini. Non a caso si parla di un «paese mosaico».

I trend di evoluzione della popolazione riflettono invece le condotte di tre grandi gruppi: gli ebrei non ultraortodossi, pari al 63,3% della popolazione (dati del 2018), quelli ultraortodossi, ossia l’11,7% e gli arabi israeliani, il 20,7%. Si tratta di categorie generalizzanti, discutibili anche dal punto di vista nominalistico (nel gruppo dei non ultraortodossi, ad esempio, sono compresi coloro che si autodefiniscono non credenti, i laici credenti, ma anche i molteplici modi di intendere le pratiche religiose ebraiche in chiave identitaria ma non per questo rigorosamente restrittiva, ossia secondo i canoni di una rigida interpretazione dei Sacri Testi). Tuttavia, nella loro generalizzazione, indicano le linee di sviluppo in questi ultimi anni. Se la componente arabo-musulmana è passata da un tasso di crescita di oltre il 3% annuo all’attuale 2,1%, la componente ebraica ha invece incrementato dall’1,4% all’1,7% in ragione, però, della crescita del gruppo più religioso (il cui tasso è del 5% di contro all’1,2% della parte restante degli ebrei). Rimane il fatto che Israele, a scapito del fatto che sia qualificato dal linguaggio corrente come «Stato ebraico», è uno dei paesi dove maggiore è stata la secolarizzazione (ottavo nella classifica mondiale dei tassi di laicità), sia a livello civile che nelle istituzioni politiche.

La distribuzione geografica della popolazione israeliana nei sei distretti del paese è poi la seguente: il 24% nel distretto centrale; il 17% in quello metropolitano di Tel Aviv; il 17% in quello settentrionale; il 14% in quello meridionale; il 12% in quello metropolitano di Haifa; sempre il 12% in quello di Gerusalemme e, infine, la parte restante in Cisgiordania. Più di metà della popolazione israeliana è concentrata nei distretti del centro del paese, seguendo una linea che lega Haifa e Gerusalemme attraverso Tel Aviv (nella cui area metropolitana risiede un quinto degli israeliani). Il 45% della popolazione israeliana d’origine araba è invece residente in Galilea. Detto questo, il 77% della popolazione ebraica israeliana è nata nel Paese mentre il 16% proviene dall’Europa e dalle Americhe e il 7% dall’Asia e dall’Africa. Della componente autoctona, ossia «sabra», la metà proviene da famiglie di origine aschenazita, la parte restante è di origine sefardita o mizrachi. La propensione ai matrimoni intercomunitari tra ebrei “occidentali” e “orientali” ha raggiunto il 35% delle unioni (un quarto almeno dei giovani di oggi ne è quindi figlio).  Israele, in ciò,segue i trend delle società a sviluppo avanzato. Ci si sposa sempre più tardi: l’età media dei matrimoni si è spostata a 27 anni. Nel 2005 il 61% dei giovani maschi tra i 25 e i 29 anni risultavano celibi (di contro al 28% del 1970); le donne nubili della medesima coorte demografica erano non meno del 40% (13% nel 1970). Più è alto il livello di scolarizzazione e maggiore è l’urbanizzazione minore è la propensione a fare famiglia. A Tel Aviv la popolazione maschile non sposata è del 72%; quella femminile si aggira intorno al 62%. Le proiezioni per i tempi a venire indicano che entro il 2035 la popolazione israeliana raggiungerà gli 11,4 milioni (73% dei quali ebrei) e nel 2059 supererà i 18 milioni.

L’economia israeliana è cresciuta, negli anni, ad un ritmo medio annuale del 3%. Al momento dell’ultima rilevazione a consuntivo, prima della grande crisi pandemica, secondo il Central Bureau of Statistics di Gerusalemme la crescita del Prodotto interno lordo era del 4,3%, sostenuta dall’incremento dei consumi privati, dal miglioramento del potere d’acquisto delle famiglie e da una generalizzata tendenza all’incremento degli investimenti (con una maggiorazione dell’11%). I fattori legati a quest’ultimo risultato, in sé sorprendente per le sue notevoli dimensioni, sono da ricercarsi nell’oramai costante crescita del settore delle nuove tecnologie, oltre al riconoscimento che gli operatori economici hanno tributato alle autorità politiche ed istituzionali rispetto alla creazione e al mantenimento di un habitat favorevole allo sviluppo, alla ricerca e all’implementazione dei processi di innovazione. Israele continua ad essere ancora visto come un paese stabile e promettente, malgrado gli ultimi eventi politici ne abbiano in parte minato la credibilità a livello internazionale. Ancora nel 2016 gli investimenti esteri avevano superato i cento miliardi di dollari, incidendo per oltre il 36% nella formazione della ricchezza nazionale. Un quarto di questi sono a tutt’oggi di origine statunitense. La struttura economica rimane, nel suo insieme, a regime misto (investimenti pubblici e privati, proprietà individuali e statali delle imprese), basandosi sulla costante evoluzione del settore della ricerca e dello sviluppo. Percentualmente, ogni anno vi viene investito il 5% del Pil (il doppio degli Stati Uniti, mentre l’Italia raggiunge a malapena lo 0,9%).

Tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, peraltro, si è consumata una transizione nella struttura produttiva del Paese. Le basi della ricchezza nazionale si sono spostate dall’agricoltura e dall’industria ai servizi. In particolare modo l’attenzione continua a concentrarsi sulle telecomunicazioni, sull’informatica e l’elettronica, le biotecnologie, la difesa e tutto quanto ha a che fare con l’innovazione applicata. Da questo punto di vista lo scarto con i circostanti paesi arabi è gigantesco e, per questi ultimi, oramai incolmabile. Israele è l’unico paese al mondo con più di un quarto della popolazione in possesso di una laurea. Lo sviluppo dei settori ad alta tecnologia, in una terra povera o pressoché priva di materie prime (e di industrie di lavorazione, a parte il settore agroalimentare), è essenziale affinché i capitali stranieri continuino ad esservi investiti. Peraltro, senza un tale flusso in entrata, le prospettive di crescita sarebbero drasticamente ridimensionate. I processi migratori hanno alimentato, nel corso di almeno settant’anni, una complessa economia dell’assorbimento, basata sull’aumento della domanda di beni di consumo, sul soddisfacimento dei bisogni manifestati dai nuovi immigrati, sulla messa in opera delle loro competenze intellettuali e professionali (nel caso di alcuni flussi migratori, come quelli dall’Europa dell’Est, molto elevate), sull’offerta di occasioni di investimento favorevoli all’ingresso di capitali. Fondamentale è il ruolo svolto nell’economia dell’informazione, con la creazione, la commercializzazione e la diffusione di una serie di prodotti nazionali, soprattutto nel campo delle tecnologie informatiche e delle comunicazioni. Non a caso si parla del distretto industriale di Tel Aviv come di una «Silicon Wadi» (la «valle del silicio», unione tra la parola araba che indica il letto di un fiume e quella inglese che indica l’elemento chimico).

Il rapporto tra percorsi di formazione, alta scolarizzazione, servizio militare e riversamento delle competenze maturate nel settore civile, rimane un elemento di eccellenza, che costituisce un fattore di alta competitività nel mercato mondiale. Anche in questo caso gli indici sono significativi: ogni 10mila lavoratori in Israele circa 140 sono ingegneri (70 negli Usa, 50 nell’Unione europea, 5 nei paesi arabi); gli investimenti per l’educazione raggiungono i 2.500 dollari all’anno per cittadino (un decimo, invece, nei paesi arabi). Il mercato del lavoro ha tuttavia beneficiato solo in parte dell’alta redditività di molti investimenti. Alla base della piramide sociale, non diversamente dalla totalità dei paesi occidentali, si pongono i lavoratori immigrati clandestini, irregolari o in possesso di permessi temporanei. Provenienti perlopiù dai paesi dell’Est, come dall’Africa e dall’Asia, si sono inseriti negli interstizi dell’economia sostituendosi ai palestinesi. Non solo svolgono i lavori meno ambiti ma subiscono l’aleatorietà della loro condizione giuridica. Ad una stima si calcolano in almeno 300mila i possessori di un visto temporaneo per motivi di lavoro, così come70mila i rifugiati. La presenza degli abitanti della Cisgiordania e di Gaza, tradizionale manodopera pendolare, si è drasticamente ridimensionata dopo la recrudescenza delle violenze a seguito della seconda Intifada (avviatasi nel 2000).

Ai vertici della scala sociale, invece, si pongono quelle élite sociali, economiche e culturali che appartengono alla nuova borghesia globalizzata, che si sente «cittadina del mondo». Il ceto medio diffuso, a sua volta, ha beneficiato solo in parte della grande vivacità economica. Solo un sesto della popolazione lavora nei settori ad alto investimento tecnologico. La parte restante è legata invece alle attività più tradizionali, dalle manifatture ai commerci. Inoltre, lo sviluppo dell’economia dell’informazione e il sistema delle start-up, risultano premianti per creatori ed investitori ma si basano su un basso livello di coinvolgimento della manodopera. La vera redditività si registra non solo producendo i beni ma soprattutto commercializzando le licenze. Non è infrequente, quindi, che i giovani lavoratori, in possesso di alti titoli di studio, debbano svolgere contemporaneamente più attività per potere fare fronte all’elevato costo di certi beni fondamentali, come le abitazioni.

La supremazia aschenazita, tale fino alla seconda metà degli anni Settanta, è andata attenuandosi nel corso degli ultimi tre decenni. Più che nel differenziale etnico, che pur ancora conta nella determinazione dello status delle singole persone, è l’accesso al sapere, ovvero al capitale culturale, che fa la differenza di sostanza, aprendo a coloro che ne sono detentori porte che per il resto della popolazione rimangono invece chiuse. Gli esponenti delle classi abbienti appartengono perlopiù a quel ceto di operatori economici che volgono il loro sguardo ad Oriente, sapendo che dal confronto con l’India e con la Cina (e, più in generale, con il Sud-Est asiatico) deriveranno le fortune proprie. In Israele, paese per sua natura poliglotta, la mobilità verso l’estero, ovvero la costruzione di profili di carriera professionale attraverso il ricorso agli stage in paesi stranieri, è un fatto comune che ha permesso, soprattutto all’ultima generazione, di rompere l’assedio dettato dall’essere cresciuta in un contesto regionale dove il senso dell’accerchiamento ha ancora un peso rilevantissimo e dove l’interscambio con i paesi limitrofi è pressoché nullo.

L’intervento politico, soprattutto con i trascorsi governi Netanyahu, ha ridotto il peso economico dello Stato. Rimane fondamentale nel settore agricolo che, tuttavia, occupa non più dell’1,5% della popolazione (concorrendo per il 2% al Pil), con uno sfruttamento intensivo delle terre fortemente tecnologizzato. Di fatto, dall’originaria condizione di dipendenza dall’estero, Israele oggi riesce a soddisfare autonomamente i tre quarti del fabbisogno alimentare nazionale. È ancora aperto il capitolo dell’approvvigionamento idrico (destinato al 57% per l’agricoltura, al 31,5% per usi domestici e per la parte restante nell’industria), due miliardi di metri cubi per anno, poiché più del 50% delle risorse è reperito in falde o in depositi al di fuori della spazio sovrano nazionale. La costruzione di quattro impianti di desalinizzazione (Ashkelon, Hadera, Sorek e Palmahim) sta al momento soddisfacendo il 15% della domanda.

In Israele la popolazione dovrebbe mantenere un tasso di crescita annuo intorno all’1,5% fino al 2050. Nello stesso periodo di tempo i Territori palestinesi potrebbero passare da 4.017.000 (stima palestinese) a 10.265.000 abitanti, con un tasso del 2,6%. Questo a patto che quelle terre rimangano separate da Israele. Nel caso, invece, di una loro annessione unilaterale si calcola che già tra il 2020 e il 2025, quindi ad oggi, la componente araba diverrebbe maggioritaria. Un carico demografico di tale misura è comunque destinato a pesare molto in una regione tendenzialmente scarsa di risorse idriche. Più in generale, la variabile ecologica, intesa in chiave non solo ambientalista ma, più in generale, nell’ottica del riequilibrio di rapporto tra espansione quantitativa delle popolazioni, uso qualitativo del territorio e natura dei consumi – soprattutto energetici – s’impone già da adesso come dirimente rispetto alle scelte politiche future. Detto questo, rimane l’eredità dei settant’anni trascorsi ma anche di ciò che li ha preceduti, a partire dall’esperienza dell’«Yishuv», l’insediamento sionista, tra il 1881 e il 1948, che ha dato origine al Paese per come lo conosciamo.

 Claudio Vercelli

 

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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