Cultura
Di canto in canto: poesia e povertà nell’Israele odierno

La forza della poesia di Sigal Ben Yair risiede nella lettura profonda del disagio sociale del terzo millennio

Ci sono ancora tabù da abbattere nel nostro tempo? In una società occidentale che a ogni costo tenta di immaginare se stessa come aperta e svincolata da ogni moralismo, ci sono ancora argomenti considerati scabrosi? Ovviamente la risposta è affermativa e per una volta non riguarda il sesso, benché molto si possa da dire sui tabù sessuali ancora profondamente radicati nell’uomo odierno. Tuttavia, il vero tabù dei nostri giorni ‒ o, per lo meno, uno dei più scottanti in assoluto ‒ è la povertà. Ce lo mostrano le statistiche, ce lo ripetono i sondaggi: nel bel mezzo della società del benessere e dell’opulenza la povertà è tornata (sempre che se ne fosse mai andata) e tocca gli individui di ogni appartenenza sociale, senza eccezioni. Se non vediamo la povertà che ci circonda, è perché non desideriamo vederla; perché spesso è la società stessa a produrla ‒ cioè noi. E fissare lo sguardo nei nostri errori è una sfida ardua da raccogliere per chiunque.

Nel 2011, lo stesso anno in cui Israele ha visto l’eccezionale fenomeno della “Rivolta delle tende”, la grande manifestazione di piazza che ha radunato centinaia di migliaia di persone, decise a insorgere contro l’aumento vertiginoso del costo della vita, è uscita la prima raccolta della poetessa Sigal Ben Yair, Lo’ meʻudan, “Non raffinato”, probabilmente uno dei libri di poesia più geniali pubblicati nello Stato ebraico nel corso dell’ultimo decennio. Con eccezionale audacia Sigal Ben Yair, poetessa di Haifa nata nel 1970, colloca l’indigenza al centro del dibattito poetico e lo fa con un linguaggio diretto, privo di mediazioni. In questo modo, anche un avviso di sfratto può diventare poesia. La forza della poesia di Sigal Ben Yair risiede proprio nella sua immediatezza. Non esiste, infatti, alcuna frattura tra l’io poetico e la biografia dell’autrice. Le esperienze cui Sigal Ben Yair allude sono personali ma condivisibili da parte dei lettori. Non si tratta quindi di banali esternazioni sul privato. Al contrario, la sua è una lettura profonda del disagio sociale del terzo millennio.

Tra le numerose liriche che avremmo potuto scegliere, abbiamo deciso di proporre Be-hanut ha-sfarim, “In libreria”. In questi pochi versi l’autrice riesce a condensare tutte le difficoltà sulle quali vuole che sia fatta luce. Le disuguaglianze socio-economiche sono evidenti sin dal primo verso, ma anche la mercificazione della cultura, che conduce all’acquisto di libri in base al peso, ad esempio un chilo per cento shekel, cioè circa ventisei euro. Sempre che i titoli citati nel testo ‒ un evidente richiamo al new-age di massa destinato soprattutto a curare le “ferite” della vita agiata ‒ possano essere considerati cultura. Il contrasto tra le manifestazioni di abbondanza e la povertà apertamente dichiarata dell’io poetico è stridente. La cultura “autentica”, qui rappresentata dalla poesia, ha un valore commerciale inferiore, ma comunque troppo elevato per le tasche della voce protagonista. Per questo motivo, come nell’antichità Prometeo aveva violato l’ordine costituito, rubando il fuoco per consentire agli uomini di acquisire la coscienza di sé, così l’io poetico desidera ardentemente (re)impadronirsi della poesia: la propria. Nonostante l’evidente richiamo alla tradizione classica, l’atto della poetessa non è mosso dalla compassione nei confronti del genere umano. Al contrario, il suo è un gesto autodistruttivo di protesta nei confronti di una società che non gratifica chi possiede doti intellettuali e artistiche, ma lo sfrutta, infliggendogli le peggiori umiliazioni. Pertanto la condizione finale del poeta non può essere che quella di una disperata solitudine, la quale però possiede tutta la forza eroica del mito.

In libreria

In libreria i ricchi residenti del Carmel strisciano
la visa gialla nella fessura, dopo aver messo sulla bilancia
“Il cammino zen per la depressione” e “Come elevarsi e ritrovare la luce”,
un chilo di libri per cento shekel.
E io non ne ho 69 per comprare
la rivista dove sono pubblicate le mie poesie.
Vorrei strappare la pagina con le mie poesie
nasconderla tra “Incontri con la verità”
e “L’educazione interiore”, come a rubare il fuoco, ottenere il castigo, sola sulla roccia, il cuore dilaniato.

Sara Ferrari
Collaboratrice

Sara Ferrari insegna Lingua e Cultura Ebraica presso l’Università degli Studi di Milano ed ebraico biblico presso il Centro Culturale Protestante della stessa città. Si occupa di letteratura ebraica moderna e contemporanea, principalmente di poesia, con alcune incursioni in ambito cinematografico. Tra le sue pubblicazioni: Forte come la morte è l’amore. Tremila anni di poesia d’amore ebraica (Salomone Belforte Editore, 2007); La notte tace. La Shoah nella poesia ebraica (Salomone Belforte Editore, 2010), Poeti e poesie della Bibbia (Claudiana editrice, 2018). Ha tradotto e curato le edizioni italiane di Yehuda Amichai, Nel giardino pubblico (A Oriente!, 2008) e Uri Orlev, Poesie scritte a tredici anni a Bergen-Belsen (Editrice La Giuntina, 2013).

 


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