Cultura
Di ciò di cui non si può parlare: l’equilibrio tra memoria e oblio nel libro di Marco Cassuto Morselli

«Quando l’ebreo si interroga sulla sua identità si sente interrogato dal deserto, assalito da una gamma di domande depositate dal deserto biblico nella memoria collettiva del popolo ebraico»

«Quando ho detto a mio figlio il titolo di quello che stavo scrivendo, lui lo ha proseguito così: “Di ciò di cui non si può parlare… si deve scrivere?”, creando un’interessante variante del detto di Wittgenstein […] Delle due generazioni che mi hanno preceduto solo lo zio Emanuele ha parlato, e solo lo zio Gianni ha scritto. Il silenzio di mia madre è diventato anche il mio silenzio, ma a un certo punto si è trasformato in parole, quando mi sono reso conto che certe memorie sarebbero morte con me».

La memoria, il silenzio e la sua interruzione in parole, in scrittura. Di questo ci parla il libro di Marco Cassuto Morselli (Castelvecchi, 2022), insegnante, studioso, testimone, ebreo ritornato, protagonista nel dialogo ebraico-cristiano. In dieci capitoli, di cui il nono, intitolato “Il silenzio”, lasciato bianco, il libro ha per tema il racconto di una famiglia, fatta di nomi e cognomi, a partire da quello del protagonista Marco/Yosef. In una scrittura limpida quasi colloquiale siamo invitati a sederci sul tavolo apparecchiato, accanto al cibo e alla bevanda, ad ascoltare l’intervallo tra quel nono capitolo e le storie che lo attorniano. Ma sotto questo primo tema, di cui si parla, se ne scorge un altro, quello forse che fa da sfondo ad ogni esistenza: la possibilità di innalzarsi, a partire da quello di cui si può parlare, il luogo in cui regna e deve praticarsi il tacere (e forse anche il pregare).

Chi conosce Marco sa del suo riserbo personale, pur nella combattiva pratica del dialogo ebraico-cristiano. Per questo, forse, qualcuno si potrà stupire di questa opera di conversazione personale, che è anche, ma non solo, storia di uno di coloro che «hanno ritrovato la propria anima» come suona il titolo del magnifico libro  di André Neher, del 1976 – pubblicato in italiano per Marietti nel 2006 – che in francese suona ancor più pregante «ils ont refait leur âme». Hanno rifatto, riparato, restaurato la loro anima. Il sottotitolo del libro del grande filosofo ebreo francese era «Percorsi di Teshuvah», il ritorno a D*o. Parlando di questo ritorno, di cui l’archetipo è quello di Mosè, Neher scrive: «Non è neppure una vocazione, ma piuttosto la distruzione di uno sbarramento […] Il muro crolla. E la breccia è lì, aperta: il salto irreversibile […] La coscienza si risveglia grazie alla possibilità offerta dall’infanzia ebraica nascosta sotto gli strati profondi dell’inconscio e del subconscio, Mosè sente la voce delle radici che aveva strappato».

Questa voce arriva nel deserto,  perché «quando l’ebreo si interroga sulla sua identità si sente interrogato dal deserto, assalito da una gamma di domande depositate dal deserto biblico nella memoria collettiva del popolo ebraico». La Teshuvah è il ritorno a D*o come ritorno dai fratelli, da quella famiglia di famiglie che è il Popolo ebraico. Nel libro di Marco Cassuto Morselli il deserto esistenziale è stato il luogo in cui è risuonato l’appello al ritorno, e con la propria Marco/Yosef ha restaurato anche l’anima della sua famiglia, una famiglia composita, innestata da un dialogo intorno alle due diverse voci in cui ha preso forma l’eredità biblica. Non si inizia mai da sé stessi. Come scrive Derrida, «l’ingenuità consiste nel credere che si possa essere ingenui, e che si possa incominciare dalla nascita, come se si fosse nati ieri; dunque l’ingenuità dichiarata ne nasconde una più profonda, credere che si possa incominciare, mentre già tutto incominciato». E quindi non solo di sé, della sua identità individuale, parla il libro di Marco, della supposta conversione individuale, ma parla anche di legami, di richiami, di proteste, di studi, di pianti, di resistenze e di resistenza. E parla, ripetiamo, anche di un segreto, quel «mistero» o quel «mistico» (Wittgenstein), di cui appunto non si può parlare, ma forse, come ancora ripete Derrida – rispondendo a Wittgenstein – si può scrivere: «qual è il posto di quel segreto, incondizionato e assoluto[…]? Tutto quello che cerco di fare, di pensare, di insegnare e di scrivere trova in fondo la sua motivazione, il suo pungolo, il suo appello, in quel segreto […] Con lui non la si finisce mai». (J. Derrida e M. Ferraris, Il gusto del segreto, Laterza 1997)

Questo non poter mai finire, ma non poter nemmeno mai iniziare da sé soli, e insieme questo non poter parlare e insieme non potersi sottrarre dal parlare, è appunto mi sembra, la vera cifra di questo libro.

Il riserbo, il pudore del segreto deve cedere infine  – non facilmente certo, e nemmeno senza dolore –  alla parola, e diventare testimonianza. Quella di un bimbo che aveva una madre francese, nata in Grecia, vissuta in Germania e in Francia, ma con un cognome italiano. La nonna, madre della madre, viveva a Parigi, e parlava «un misto di francese, spagnolo e italiano», essendo nata a Salonicco. Dalla nonna il bimbo ha il primo contatto con l’ebraismo, si tratta ovviamente di un libro: Les prières d’un coeur israélite. Poi la nonna morì, durante la funzione funebre, il piccolo si vede mettere in testa da uno zio una kippàh. Alla fine del rito, il bambino la porta con sé a Roma. «dunque, mia nonna era ebrea. Sul momento non attribuì molta importanza a questa scoperta, però col tempo ho iniziato a riflettere che allora anche mia madre aveva qualcosa a che fare con l’ebraismo, e in fin dei conti anche io».

Il ritrovamento della propria anima ebraica non è immediato nel ragazzo. Educato, anche per via paterna, secondo la tradizione cattolica, passa poi per un periodo di ateismo, «influenzato dall’air du temps», poi agli studi di filosofia, intensi e prolungati anche a causa di un quasi blocco di scrittura per la tesi, fino all’età di trentun anni in cui grazie a una crisi esistenziale ritorna alla pratica cattolica. Ma quasi contemporaneamente, si avvicina all’Amicizia ebraico- cristiana, inizia a frequentare i Colloqui di Camaldoli, e poi, ad Assisi, incontra il suo primo maestro, André Chouraqui «che mi diede tre mitzvot: imparare l’ebraico, ritrovare me stesso e andare in Israele». La chiamata al ritorno passa da voci umane, spesso sedimentate nei libri, spesso nelle parole di una persona che si incontra. Poi un altro incontro decisivo, nel 1992, con il pastore Martin Cunz che «mi fece capire che non potevo non essere ebreo». L’anno successivo, a Gerusalemme, attraverso una via non priva di dolore, riesce al fine a realizzare il ritorno. Ritrova la sua anima e la sua identità ebraica, ottenendo il segno nel corpo, la circoncisione, che sancisce e ripete di generazione in generazione il patto stipulato tra Dio e Abramo. Il libro continua parlando del padre, della madre, degli zii, soprattutto dello zio Gianni, di cui il libro riporta un lungo diario –vero libro nel libro, una cronaca di guerra e di resistenza – e poi della storia della città della famiglia materna, Salonicco, quella Gerusalemme nei Balcani da cui gli ebrei, che a partire dal Gerush del 1592 avevano creato una comunità numerosissima, furono cacciati e sterminati dalla furia nazista.

«Cosa ricordare e cosa dimenticare – si chiede l’autore alla fine del suo racconto – il difficile equilibrio tra memoria e oblio va cercato di nuovo a ogni generazione. La memoria è un atto di giustizia nei confronti di chi non è più qui, ma “Zakhor!” vuol dire innanzitutto ricordati del futuro». Nella tradizione ebraica la memoria è un comandamento, e obbedirvi costa fatica, non è sempre facile, ma come ricorda l’autore è un atto di testimonianza: della giustizia, della speranza e anche – paradossalmente ma forse nemmeno tanto – del silenzio. La lettura del libro ce ne rende possibile, kivjaqôl, l’ascolto.

Alessandro Paris
collaboratore

Dottore di ricerca in filosofia , cultore della materia studi ebraici Università di Trento e insegnante in un liceo


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