Cultura
Di cosa parliamo quando parliamo della marcia su Roma?

Cento anni dopo il 28 ottobre 1922

Affermava Adelmo Niccolai, avvocato, giurista e deputato socialista nella venticinquesima legislatura (1919-1921), nel discorso del 17 novembre 1920 alla Camera dei deputati del Regno d’Italia rispetto al crescente squadrismo fascista: «Molti colleghi si sono occupati degli episodi del cosiddetto fascismo. Intendiamoci a questo proposito, chiaramente. Noi non domandiamo difese, non domandiamo ausili, non domandiamo interventi. Soltanto vogliamo mettere in luce una verità che è ormai troppo chiara; vogliamo dimostrarvi che se il fascismo esiste, se il fascismo agisce, se tenta le sue imprese pazzesche nel paese, ciò è dovuto alla connivenza governativa. E quando avremo dimostrato questo, avremo dimostrato che il governo abdica i suoi poteri di difesa e di conservazione nelle mani di una privata organizzazione che può domani rivolgersi contro lo stesso governo. Ebbene, signori, lasciateci liberi, lasciateci la stessa libertà; non mettete i cordoni dei carabinieri a proteggere il manipolo dei fascisti; lasciate che la guerra civile si scateni per le strade, se questo è il vostro programma; ma non tenete stretto uno dei due contendenti, mentre l’altro gli assesta il colpo».

Avrebbe chiosato esattamente due anni dopo, sempre in Parlamento, Filippo Turati, padre morale, prima ancora che politico, del socialismo italiano, rivolgendosi direttamente a Mussolini: «No, voi non inaugurate il vostro dominio – quello che voi chiamate non un ministero ma un governo, anzi un nuovo regime – con un atto di sincerità: voi lo inaugurate con un compromesso; il quale vi è più comodo, ne convengo, ma che non ha nulla di nuovo e nulla di innovatore. […] Voi eravate una trentina in questa Camera […] E voi pretendete diventare d’un tratto trecento, imprimendo il fascio littorio nei cervelli dei vostri compiacenti colleghi, come lo avete impresso nel timbro dello Stato; imponendo a tutti il saluto con la mano protesa. Tutto ciò, ne converrete, è troppo acrobatico, è troppo abracadabrante perché possa aggiungere serietà, non dirò alla Camera – ciò non vi interessa – ma a voi stessi».

Ci sono molti modi, e diversi punti di vista, per raccontare cosa fu per davvero quella che è passata alla storia come «marcia su Roma». In questi giorni ne ricorre il centenario. Non si tratta di una data del calendario civile che meriti troppa considerazione. Semmai, al netto dei facili giochi di parole, varrebbe la pena di parlare di calendario incivile. Ma sarebbe un gioco fin troppo facile. Poiché l’evento in sé somma due aspetti: da un lato, la scarsa rilevanza operativa, ossia l’essere stata una manifestazione di natura dichiaratamente eversiva ma senza una reale capacità di incidere – con fatti concreti – su dinamiche che venivano orientate e decise in altra sede; dall’altro, il forte valore simbolico che essa invece assunse da subito, venendo celebrata dal fascismo regime – però non da tutto quello movimentista, del suo già da quasi tre anni sulla scena politica e criminale – come l’evento primigenio del suo ventennale potere. Un forte immaginario, quindi, si è radicato su un passaggio che costituisce comunque una periodizzazione storica, sancendo la collusione tra il partito di Mussolini, allora assolutamente minoritario ma capace di occupare quasi per intero la scena pubblica, e i poteri costituiti del Regno d’Italia. Tra di essi, primo tra tutti, quella Casa regnante la cui condotta, in quei giorni, risultò decisiva per le sorti del Paese.

La trama degli eventi si dipana su due piani: quello manifesto, ossia il rincorrersi di atti e fatti alla luce del sole, e quello latente, ovvero celato allo sguardo del pubblico, fatto di conciliaboli, messaggi e messaggeri, mediazioni ed infine cedimenti. Benché la data della marcia sia celebrata il 28 ottobre 1922, l’arco di tempo da considerare va dal 27 al 31 di quel mese. Con l’importante variante del 30, quando Vittorio Emanuele III incaricò Mussolini di formare un nuovo governo. Poiché è nell’insieme di quei cinque giorni che si consumò ciò che fu una manifestazione sospesa tra kermesse violenta e pochade farsesca, tra esibizione muscolare e parata carnascialesca, ovvero atto – al medesimo tempo – di sopraffazione fisica, di imposizione violenta, di frattura di una parte degli ordinamenti legalitari vigenti ma anche di compromissione con gli schemi di potere precostituiti. All’interno dei quali il fascismo, oramai “adulto”, ovvero capace di esercitare un proprio ruolo di influenza, si inseriva per costruire, passo dopo passo, un regime antipluralista, illiberale e liberticida, destinato a durare per i successivi vent’anni.

Peraltro, a scanso di equivoci, non si può parlare della marcia su Roma come di un golpe. Le voci di un possibile colpo di stato, che si sarebbe prodotto nel sofferto e tumultuoso dopoguerra, si susseguivano comunque da tempo. Riguardavano perlopiù il ruolo di quella parte dei militari che andavano esprimendo un crescente malumore, trasformato poi in diffidenza e insofferenza, nei confronti delle élite politiche sia liberali che di altra estrazione. Una tale disposizione d’animo era peraltro presente anche in altri paesi, dove il forte sviluppo delle istituzioni armate, e il coinvolgimento delle società nazionali negli eventi bellici, avevano comportato un’enfatizzazione del ruolo decisionale dell’esercito, anche in campi che tradizionalmente non costituivano terreno di intromissione di quest’ultimo. Un sottile conflitto tra militari e politici su chi potesse e dovesse gestire il lungo periodo successivo alla conclusione della guerra, e verso quali obiettivi, era quindi parte di quelle fratture che quest’ultima aveva ingenerato nel continente europeo e nei suoi sistemi istituzionali di rappresentanza e decisione.

In Italia, nel mentre un periodo di forti turbolenze politiche e sociali si andava manifestando, a più riprese erano giunte voci di intendimenti golpisti. Così nel giugno del 1919, con il coinvolgimento di Benito Mussolini e di Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta, generale e poi maresciallo d’Italia, per poi proseguire, nell’autunno dello stesso anno, con l’occupazione della città di Fiume, da parte delle formazioni irregolari comandate da Gabriele D’Annunzio. Nell’uno e nell’altro caso non solo l’ombra dell’esercito, ovvero di una parte minoritaria di esso, ma anche quella del variegato mondo combattentistico, del reducismo e dell’arditismo, variamente blanditi dalla destra radicale, entrava quindi in campo. La vicenda fiumana si inscrive di buon grado in questo novero, catalizzando politicamente la disposizione d’animo alla «sedizione» politica, ossia alla rottura dei precari equilibri istituzionali preesistenti. L’ampio seguito che socialisti e popolari ottengono nelle elezioni politiche del 1919 e del 1921 (in queste ultime i Fasci di combattimento si presentarono quasi ovunque nelle liste dei Blocchi Nazionali, insieme agli stessi liberali, eleggendo 35 deputati, tra i quali Benito Mussolini, che risultò il terzo deputato più votato d’Italia), furono ulteriori riscontri non solo di una polarizzazione che andava affermandosi ma anche e soprattutto di un sensibile mutamento della geografia politica nazionale, segnando il declino del mondo liberale.

I fascisti, prima ancora della loro costituzione in movimento (23 marzo 1919) e poi in partito (9 novembre 1921), si inseriscono all’interno di queste dinamiche. Già l’11 gennaio 1919, infatti, animano una violenta contestazione di un comizio del socialista riformista Leonida Bissolati; nel mese di aprile, come prima grande “manifestazione” pubblica, danno fuoco alla sede milanese dell’Avanti!, il quotidiano del Partito socialista. Benché i riscontri elettorali tardassero a venire, con il 1920 i Fasci italiani di combattimento, attestati ideologicamente su una confusa piattaforma nazionalista e sindacalistico-rivoluzionaria, si adoperano sia nel cosiddetto «fascismo di frontiera» (l’insieme delle violenze antislave nei territori del nord-est recentemente acquisiti dal Regno d’Italia) sia nello squadrismo a tutela degli interessi della proprietà agraria e contro gli scioperi industriali. A quel punto l’ancoraggio del mussolinismo e dei suoi accoliti, al netto dei richiami sull’essere “né di destra né di sinistra” ma oltre le vecchie divisioni, si fa ancora più chiaro, se già non lo fosse stato precedentemente. Nello stesso anno, peraltro, l’infuriare della violenza squadrista, apertamente tollerata, se non spalleggiata, da una parte delle istituzioni e da elementi dallo stesso esercito, si fa ancora più netta dal momento che nelle elezioni amministrative un quarto dei comuni (2.022 su 8.327) risulta eleggere una maggioranza socialista e repubblicana. Essa si estende quindi anche alle municipalità «rosse», nei piccoli centri come nelle grandi città, a partire dall’Emilia Romagna e da Bologna. Il ricorso a violenze, saccheggi, ruberie e disordini serviva a creare un clima di esasperazione tale da provocare l’intervento delle autorità prefettizie e di quella governativa, che procedevano allo scioglimento delle maggioranze antifasciste, nominando al loro posto un commissario dipendente dall’esecutivo. Del pari, l’aggressione e la distruzione del sistema cooperativistico e del circuito sindacale socialista e popolare, doveva incentivarne l’abbandono da parte dei suoi aderenti, rendendo più fragile la sua azione organizzativa.
Non è peraltro un caso che ad ogni tornante elettorale le violenze fasciste si moltiplichino, avendo ad obiettivo non solo gli avversari politici (ad esempio l’aggressione ai danni dei deputati Claudio Treves e Francesco Misiano nonché l’assassinio di Giuseppe Di Vagno) ma anche il regolare svolgimento delle attività politiche. L’idea che si vuole incentivare nella percezione della pubblica opinione è che dinanzi ad un clima crescente di guerra civile necessiti la formazione di un «blocco d’ordine», del quale ovviamente i fascisti avrebbero fatto parte, grazie a cui si doveva ristabilire non solo la sicurezza ma neutralizzare la dialettica politica e con essa il conflitto sociale e sindacale.

In un tale quadro, per il direttorio fascista, del quale Mussolini e Dino Grandi erano esponenti di primo piano, il ricorso all’azione insurrezionale e allo squadrismo non erano comunque sufficienti. Per il futuro duce dell’Italia, inoltre, il timore che certe spinte autonomiste espresse dai capi squadristi potessero tradursi anche in una delegittimazione della sua leadership, costituiva motivo già in sé più che sufficiente per mettere mano all’indirizzo assunto dal movimento-partito, attenuandone la vocazione centrifuga, rivolta altrimenti allo scontro diretto, e cercando quindi anche alcune sponde legalitarie. Il Partito nazionale fascista, per parte sua, pur già diviso al suo interno da gruppi e interessi per nulla convergenti, coltivava l’idea di un’insurrezione da attuarsi su base territoriale, ossia attraverso la mobilitazione dello squadrismo laddove esso risultava più forte. Lo stesso Mussolini, parlando alla Camera dei deputati il 19 luglio 1922, aveva avuto modo di affermare che «il fascismo risolverà questo suo intimo tormento, dirà forse tra poco se vuole essere un partito legalitario, cioè un partito di governo, o se vorrà invece essere un partito insurrezionale […] Ma se, per avventura, da questa crisi che ormai è in atto, dovesse uscire un governo di violenta reazione antifascista, prendete atto, onorevoli colleghi, che noi reagiremo con la massima energia e con la massima inflessibilità. Noi alla reazione, risponderemo insorgendo».
Si trattava, come spesso è avvenuto nella vita politica di Mussolini, di una reazione calcolata che, nel momento stesso in cui intendeva tenere sotto il suo diretto controllo uno squadrismo scalpitante, altrimenti potenzialmente propenso ad una maggiore fedeltà verso i singoli capi locali, cercava anche di lasciarsi aperta ogni via d’uscita sul piano politico, giocando d’azzardo come di ricatto. Il protrarsi delle violenze e il rincorrersi, dall’estate del 1922, di voci di spedizioni fasciste verso la Capitale, inducono quindi ad un’ulteriore salto di qualità nell’azione repressiva delle autorità regie, che sciolgono un rilevante numero di amministrazioni a guida socialista, imponendo inoltre la presenza istituzionale dell’autorità militare in quanto garante dell’ordine e della sicurezza pubblica. I fascisti, a conti fatti, stanno riuscendo nel loro obiettivo, ossia quello di alimentare una spirale esasperante di sopraffazioni, per cercare nelle piazze e nelle strade quel seguito e, soprattutto, la legittimazione politica, che sul piano parlamentare sanno invece di non potere ottenere. Non almeno in un ragionevole e accettabile lasso di tempo. L’atteggiamento di una buona parte del ceto politico conservatore e nazionalista è sostanzialmente benevolo nei confronti della minaccia eversiva, ritenendola un valido antidoto rispetto al radicamento socialista e dei gruppi di radice popolare. Mussolini, giocando costantemente e ossessivamente sul bivio tra legalitarismo e insurrezionalismo, nel mentre tesse ripetutamente le lodi della violenza come strumento di generazione di nuovi equilibri nazionali.

In un tale quadro, e dopo la costituzione del debole e crepuscolare governo Facta II (durato una novantina di giorni, tra il 1°agosto e il 31 ottobre 1922), l’ipotesi di un atto di forza capace di costituire una sorta di evento spartiacque, soprattutto agli occhi dell’opinione pubblica, prendeva quindi sempre più forma. Sarebbe servito, peraltro, non solo ad impressionare quest’ultima, raccogliendone la benevolenza, ma ad aiutare l’autorità regia nell’optare, “legalmente”, per il fascismo. Quanto meno, per una sua stabile presenza al governo. Mussolini (per il quale «che il Fascismo voglia diventare Stato è certissimo, ma non è altrettanto certo che, per raggiungere tale obiettivo, si imponga il colpo di Stato») ha quindi dinanzi a sé tutta una serie di problemi: non può alienarsi, non almeno del tutto, la crescente simpatia dell’opinione pubblica moderata, e con essa di una parte della grande stampa e dell’informazione; gli occorre l’accondiscendenza delle istituzioni, soprattutto di quelle armate; deve contare sull’effettiva adesione degli squadristi che, al netto della tracotanza delle singole violenze di cui sono protagonisti, non si sono invece rivelati capaci di dare corpo a grandi manifestazioni collettive; deve contemperare le diverse spinte che attraversano i gruppi locali federatisi dentro il partito fascista; non può pestare i piedi a quei poteri che, di molto più forti di lui e dei suoi accoliti, possono sbriciolare con poche mosse l’intera operazione politica che il fascismo, già dal 1919, sta perseguendo, ossia quella di trasformarsi da contropotere in fieri in vero e proprio potere, possibilmente esclusivo. A tale riguardo, lo stesso Mussolini nel mentre continua a millantare atti di forza in dirittura d’arrivo («trecentomila» camicie nere pronte a sbarcare a Roma), provvede a rassicurare la monarchia della sua personale fedeltà istituzionale (di contro all’originaria posizione filo-repubblicana) così come a formalizzare, con il «regolamento di disciplina della milizia fascista» (redatto e sottoscritto da Italo Balbo, Michele Bianchi, Emilio De Bono e Cesare Maria De Vecchi), l’esistenza di un’organizzazione paramilitare il cui controllo è sottratto allo Stato, in patente violazione della stessa legge statutaria.

Una manifestazione a Roma, a forte impatto, a questo punto si impone. Ciò di cui la ristretta cerchia che ruota intorno a Mussolini va discutendo è, in realtà, la plausibilità e la praticabilità di un vero e proprio colpo di mano, comprendendovi la simultanea occupazione di prefetture e amministrazioni del centro-sud (bloccando quindi in quei luoghi le truppe regie presenti), l’ingresso di ampi contingenti di squadristi, provenienti dalle regioni centrali e settentrionali, nella Capitale, il contestuale ultimatum al governo in carica, con la richiesta delle sue immediate dimissioni. Le camicie nere dovevano concentrarsi a Santa Marinella, Perugia, Tivoli, Monterotondo e Volturno, in una sorta di semiaccerchiamento di Roma. In caso di una plausibile sconfitta, gli uomini avrebbero dovuto ripiegare ordinatamente in Umbria, protetti dai loro camerati corposamente presenti in quella regione. Da lì, quindi, la lotta sarebbe ripresa con la «costituzione del governo fascista in una città dell’Italia centrale. Adunata rapida delle camicie nere della Vallata Padana e ripresa dell’azione su Roma fino alla vittoria e al possesso. Nel doloroso caso di un investimento bellico [una reazione armata sia da parte dello Stato che della popolazione], la colonna Bottai (Tivoli e Valmontone) accerchierà il quartiere San Lorenzo entrando dalla Porta Tiburtina e da Porta Maggiore, la colonna Igliori con Fara (Monterotondo) premerà da Porta Salaria e da Porta Pia e la colonna Perrone (Santa Marinella) da Trastevere». A corredo di questi piani, confusi e fantasiosi ma anche velleitari e nefasti, una parte della dirigenza fascista si incaricava di confondere le acque profondendosi in dichiarazioni pubbliche, rilasciate alla stampa, nelle quali negava l’intenzioni di dare corso a breve ad un qualche atto di forza.

L’occasione invece era già pronta, con lo svolgimento del convegno fascista all’hotel Vesuvio di Napoli del 24-25 ottobre 1922, che ufficialmente costituiva un Consiglio nazionale del partito ma che fu poi celebrato come «congresso». Per l’occasione, arrivarono in città circa 15mila militanti. In tale occasione Mussolini dichiarò pubblicamente che «noi fascisti non intendiamo andare al potere per la porta di servizio; noi fascisti non intendiamo rinunciare alla nostra formidabile primogenitura ideale per un piatto miserevole di lenticchie ministeriali». A ciò coniugava le minacce di una «calata» collettiva su Roma. Nel mentre il secondo governo Facta era già in crisi (indicando nella rosa dei potenziali successori Vittorio Emanuele Orlando, Giovanni Giolitti, Antonio Salandra, Francesco Saverio Nitti), il monitoraggio sul territorio, da parte delle prefetture e delle autorità di polizia, delle squadre fasciste, ne segnala la crescente irrequietudine.
In effetti, era iniziata una mobilitazione che già il 27 ottobre produsse una serie di scontri e moti di piazza in varie città, tra le quali Alessandria, Bologna, Brescia, Cremona, Ferrara, Firenze, Foggia, Gorizia, Novara, Pavia, Piacenza, Pisa, Rovigo, Siena, Treviso, Trieste, Udine, Venezia, Verona. Anche centri minori ne furono interessati. Nel complesso, si trattava di eventi difformi nella loro intensità, radicalità, modalità e durata. In alcuni casi, le forze dell’ordine risposero con il fuoco; in altri, invece, si astennero dall’intervenire. Nel pomeriggio sempre dello stesso giorno il comando della Capitale era stato attribuito al generale Emanuele Pugliese, ebreo, vercellese, figlio di Eugenio e Bonina Levi. Nel mese di settembre, infatti, Pugliese aveva assunto il comando della Quindicesima divisione, una grande unità preposta a difesa della Capitale. Il 19 ottobre il ministro della Guerra Marcello Soleri gli confermò l’incarico di difendere Roma, con due precisi compiti tra di loro interconnessi: impedirne l’ingresso ai fascisti ed evitare assolutamente brutali scontri armati tra il regio esercito e i militi in camicia nera. Con l’approssimarsi delle colonne fasciste, la mattina del 27 ottobre 1922 il generale tenne quindi un discorso ai comandanti di brigata e di reggimento in cui ribadiva la sua assoluta fedeltà alla Corona (che nel 1938, all’atto delle leggi razziali, gli ricambiò la lealtà con il congedo assoluto e la privazione della cittadinanza italiana). In quella stessa giornata prese tutte le iniziative necessitanti per impedire alle colonne fasciste di entrare in Roma, arrivando ad istituire interruzioni ferroviarie delle linee nelle principali stazioni di Orte, Civitavecchia, Avezzano, Segni e Viterbo nonché presidiando tutti i varchi di accesso a Roma e i ponti lungo il Tevere.
Nella notte tra il 27 e il 28 ottobre l’esercito assumeva pertanto i pieni poteri; alle cinque del mattino seguì una riunione tra Luigi Facta, il ministro dell’Interno Paolino Taddei, il ministro della Guerra Soleri, lo stesso Pugliese e il colonnello Ottorino Carletti, capo di gabinetto di Soleri. In tale riunione Facta si lamentò apertamente del fatto che l’esercito non avesse impedito ai fascisti l’occupazione delle prefetture di Firenze e Perugia. Quest’ultima città era stata scelta da Bianchi, Balbo e De Bono come luogo di coordinamento e quartiere generale della sollevazione. Alle nove Facta, preoccupato per la mancanza di notizie sulla firma della proclamazione dello stato d’assedio (decretata nel mentre dall’esecutivo, con la sua attivazione dalle ore dodici, attraverso l’interruzione delle linee ferroviarie, la sospensione del servizio telefonico pubblico e la censura telegrafica; tutti i prefetti del Regno alle sette e mezza del mattino avevano già ricevuto le relative disposizioni con apposito telegramma), salì al Quirinale per un colloquio con Vittorio Emanuele III. Due ore dopo si dimetteva da presidente del Consiglio (aveva già presentato il giorno antecedente le sue dimissioni, rimaste temporaneamente in sospeso), succeduto nell’incarico esplorativo da Antonio Salandra, che doveva costituire un governo di coalizione con il Partito nazionale fascista, riscontrandone da subito l’indisponibilità.

Nella giornata del 28 ottobre sedicimila fascisti si erano intanto raccolti a Foligno, Monterotondo, Tivoli e Santa Marinella. Il re, dopo avere rifiutato di firmare il decreto dello stato d’assedio, obbligò quindi il governo a inviare un nuovo telegramma ai prefetti, cancellando le disposizioni precedenti. Da quel momento nessuna opposizione legale fu posta all’accesso delle squadre fasciste nella Capitale. Mussolini, prudentemente rimasto a Milano, in tutta plausibilità per garantirsi una via di fuga qualora la Corona avesse invece deciso di fermare l’arrestabile avanzata delle camicie nere, il giorno 29 venne invece contattato dalle autorità medesime per raggiungere la capitale e poter ricevere l’incarico per la costituzione di un nuovo governo. La sera stessa, quindi, si incamminò verso Roma, prendendo un vagone letto del convoglio notturno.

La mattina seguente ebbe quindi inizio la vera marcia su Roma. Le squadre e i drappelli fascisti, infatti, erano in prossimità dei blocchi e degli sbarramenti ancora controllati dall’esercito. Mussolini contrattava con il re e si apprestava a presentare la lista dei nuovi ministri per quella sera stessa. Vittorio Emanuele III acconsentì ad una sfilata delle milizie di fronte al monumento del milite ignoto e davanti al Quirinale. Già alle tredici i blocchi venivano quindi liberati nel mentre le colonne fasciste, mal assortite, prive spesso di armi, in improbabili tenute militaresche, si muovevano verso il centro della Capitale. Si succedettero comunque gazzarre e violenze, soprattutto a danno dei socialisti, con una vera e propria battaglia nel cuore del quartiere San Lorenzo tra una parte della popolazione e gli uomini di Mussolini. Le aggressioni continuarono anche il giorno successivo, quando nel pomeriggio si svolse la sfilata fascista: un’accolita di figuri, in tenuta lugubre e al contempo carnascialesca, con armi impropriamente detenute ed esibite, si manifestava di fronte al re e al nuovo presidente del Consiglio Benito Mussolini. Quest’ultimo, a molti anni dai fatti e in prossimità della sua prossima scomparsa, non solo politica, avrebbe scritto: «Che cosa fu la marcia su Roma? Una semplice crisi di governo, un normale cambiamento di ministeri? No. Fu qualche cosa di più. Fu una insurrezione? Sì. Durata, con varie alternative, circa due anni. Sboccò questa insurrezione in una rivoluzione? No. Premesso che una rivoluzione si ha quando si cambia con la forza non il solo sistema di governo, ma la forma istituzionale dello Stato, bisogna riconoscere che da questo punto di vista il fascismo non fece nell’ottobre del 1922 una rivoluzione. C’era una monarchia prima, e una monarchia rimase dopo. […] Quando nel pomeriggio del 31 ottobre le camicie nere marciarono per le vie di Roma, fra il giubilo acclamante del popolo, vi fu un piccolo errore nel determinare l’itinerario: invece di passare davanti al palazzo del Quirinale, sarebbe stato meglio penetrarvi dentro». Una tardiva manifestazione di un’inesistente vocazione rivoluzionaria, posto che il fascismo era e rimane anche e soprattutto il racconto mitografico che fa di se stesso.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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