Cultura
Dieci modi di dire Israele

Intervista a Claudio Vercelli a proposito del suo libro “Israele. Una storia in dieci quadri” appena pubblicato da Laterza

Dieci quadri per raccontare Israele, dieci modi per inquadrare l’unicità di uno stato in permanente evoluzione. Sono gli obiettivi del nuovo libro di Claudio Vercelli, storico e nostro collaboratore, appena pubblicato da Laterza. Si intitola infatti Israele. Una storia in dieci quadri, e propone un’analisi del ruolo del Paese nella storia. Un ruolo dirompente da molti punti di vista, che ha trovato voce nella letteratura prima e nelle serie tv poi. Ne abbiamo parlato con l’autore.

Non ti chiediamo perché un nuovo libro su Israele, posto che ne hai all’attivo alcuni, ma se ciò che proponi al lettore italiano sia ancora una storia del Paese, della sua società, delle sue istituzioni o non piuttosto altro.
Il libro, che è uscito in questi giorni dalla casa editrice Laterza non è una storia nel senso cronologico del termine ma una ricognizione di fondo, in una decina di quadri di riferimento, in relazione agli assi più rilevanti dell’evoluzione d’Israele. Anche per questo, pur volendo offrire al lettore italiano gli strumenti per capire di chi e cosa si stia parlando, affronta i temi più importanti delle vicende israeliane dal punto di vista dei grandi nodi di fondo: identità ebraica e cittadinanza nazionale, diaspora e ricomposizione in un unico centro politico, trasformazioni demografiche e mutamento della democrazia, culture politiche, laicità, secolarizzazione e ruolo della religione, filosemitismo e antisemitismo, popolo e populismo. Non sono gli unici argomenti ma ne compongono l’intelaiatura di fondo. Non è quindi un libro sulla storia d’Israele ma su Israele nella storia: la sua e quella altrui, posto che la forte capacità di attrazione, ma anche la sua divisività, nei giudizi correnti si basa su un riscontro, quello che io chiamo l’essere un «paese specchio», poiché nella sua modernità si rispecchiano contraddizioni e potenzialità di molte altre società, a partire da quelle occidentali. È come una sorta di involontaria «nazione indice», alla luce della quale si possono interpretare aspetti, caratteri, condotte, pensieri di altre collettività. L’Italia tra queste.

Quindi, perché continuare a parlare d’Israele? Non esiste un fenomeno, un po’ perverso, per il quale più se ne parla meno lo si capisce?
Per l’appunto, parto da un assunto che riprendo, per come l’ho formulato, dal libro medesimo: «Si tratta di un Paese del quale molto si parla, facendo invece il più delle volte un’esperienza scarsa se non nulla degli eventi concreti. Un nulla che viene coperto da stereotipi, luoghi comuni, apologie acritiche o, più spesso, insensate demonizzazioni. Non si tratta di smitizzare o di eroicizzare alcunché. Dell’una come dell’altra cosa già molti si occupano. Semmai il problema, soprattutto dinanzi all’irrisolto conflitto che divide gli israeliani dai palestinesi, è di comprendere quali siano i nodi critici dell’una come dell’altra parte. In queste pagine ci si occupa, per l’appunto, di Israele e degli israeliani. Ovvero, di alcuni dei temi di fondo che, attraversando una nazione, si riflettono sui modi in cui pensa se stessa e si presenta quindi dinanzi al resto del mondo. Non di altro. Si tratta di questioni che richiamano interrogativi, non affermazioni di principio». Mi spiego meglio: quando partii – oramai più di trentacinque anni fa – per la prima volta per Israele mi sentii dire: «Perché va lì, dove c’è la guerra?». La convinzione di una parte dei miei interlocutori era che Israele fosse non solo una nazione in guerra perenne, ossia in uno stato di permanente mobilitazione, ma che la guerra costituisse la sua vera natura, l’humus dentro il quale l’intera nazione era cresciuta. Per i suoi fautori era il segno di una sorta di elezione guerriera degli ebrei, passati dal ruolo di vittime passive a quello di combattenti attivi. Per i suoi detrattori si trattava invece del marchio di una perenne infamia, quello di costituire una società di prevaricatori. Nell’uno caso come nell’altro si tratta di cliché, di luoghi comuni. Il pregiudizio, da questo punto di vista, non si fonda solo sull’avversione ma anche su una fidelizzazione incondizionata. Poiché nel rifiuto così come nella passione identificativa c’è una radice condivisa, quella di idealizzare (negativamente o positivamente) una società complessa ed in trasformazione, di fatto trasformandola da soggetto mobile ad una specie di oggetto pietrificato. Israele esiste in quanto è in permanente evoluzione. Ed è questo punto cardinale, anche e soprattutto per ciò che riguarda i suoi rapporti conflittuali con la controparte palestinese, che apologeti e demonizzatori cancellano dall’orizzonte del discorso di senso comune.

Un tema che recuperi in più passaggi è quello, in sé complicatissimo, di ciò che chiamiamo con il nome di «identità». Qualcosa di usato ma, soprattutto, di abusato nella nostra contemporaneità.
Sì, è una questione cardine. Non è solo il pur strategico problema di come vincoli precedenti, costruiti nella dispersione e nella Diaspora, possano essere stati trasposti e unificati sul piano della coesione civile e sociale di una comunità politica unitaria, ma di quanto – e come – temi fondamentali, su cui si fonda la legittimità di uno Stato contemporaneo, quali quelli della sovranità, dell’inclusione (delle minoranze), del pluralismo trovino riscontro effettivo in quanto si definisce sul piano pressoché esclusivo di un’identità univoca, l’ebraicità, che come tale fonda una collettività nazionale. La quale, si dice nella Dichiarazione d’Indipendenza del 1948, preesiste allo Stato medesimo, di cui è semmai causa e non effetto. Gli ebrei vengono prima d’Israele e ne costituiscono la vera ragione storica. Si tratta, in sé, di un’affermazione tanto impegnativa quanto discutibile. Se lo Stato d’Israele è, sul piano delle idealità, la rigenerazione di un popolo, sul piano politico è semmai la costruzione di una nazione in sé del tutto inedita. Tale poiché incomparabile con le esperienze del passato. Quindi, un tipico prodotto della modernità, basato sulla difficile dialettica tra forze centrifughe (rimanere ciò che già si è nei rispettivi paesi di appartenenza) e forze centripete (trasformare quello che si è in un progetto politico unitario, destinato ad unire soggetti tra di loro diversi). Una Babele, un rompicapo che ci interroga su cosa faccia sì che, a Gerusalemme così come a Roma, persone tra di loro anche molto diverse, con storie in origine per nulla comuni, si sentano accomunate sul piano della lealtà verso un sistema istituzionale qual è lo Stato moderno. Ecco, ancora una volta rileggere da questo punto di vista la traiettoria d’Israele ci aiuta ad interrogarci su noi stessi.

Quando si parla dell’Israele contemporaneo, i rimandi ai lasciti della storia si sprecano. È come se si dicesse che il fondamento della cittadinanza in quel Paese riposi in qualcosa di ancestrale.
Mi cito di nuovo: «Il “popolo d’Israele” non coincide con il “popolo israeliano”. La prima proposizione identifica una condizione metastorica, perlopiù estranea ai vincoli di ordine geografico e temporale. È la dimensione propria ad una comunità religiosa che si riconosce nella dispersione, sia pure richiamandosi ad un territorio d’origine. La seconda – invece – circoscrive e delimita, secondo il principio di cittadinanza, chi è parte di una comunità politica moderna (lo Stato), esercitando i diritti e assolvendo alle obbligazioni che derivano da tale rapporto. Il popolo d’Israele trova il suo fondamento nel passato, in un vincolo tanto ancestrale quanto consegnato alla perpetuità di un’idea. Il popolo israeliano, invece, ha le sue radici in una esperienza politica, quella articolatasi dal 1948 in poi, fondata sulla contemporaneità e, quindi, anche sulla temporaneità dei suoi istituti e, in linea di principio, della sua stessa esistenza. Il popolo d’Israele ha ricevuto un mandato che è sancito dai Sacri Testi; il popolo israeliano dà un mandato ai suoi rappresentanti, che siedono in Parlamento».

E poi c’è il tema, non meno radicato nel tempo, oltre che nei fatti, dell’antisemitismo. Israele ne è una risposta?
Israele è anche una risposta all’antisemitismo. Quanto meno laddove esso è lo specchio capovolto, e contorto, delle tante identità ebraiche. Negandone il diritto all’esistenza. Ma la costruzione di uno Stato nazionale degli ebrei risponde solo in parte ad una tale esigenza. Il progetto politico, in altre parole, ha una sua autonomia, inquadrandosi in quei processi di accesso alla sfera pubblica delle collettività che attraversano tutto l’Ottocento e buona parte del Novecento, non solo in Europa. Si tratta, in altre parole, di un percorso di politicizzazione dell’ebraismo che inizia a riconoscersi come soggetto presente nello spazio della contrattazione politica, avanzando richieste, a volte confuse altre volte maggiormente strutturate, di riconoscimento di sé e dei suoi bisogni. Non è una traiettoria facile poiché al mondo non esisteva allora, né esiste oggi, un soggetto unitario identificabile sotto un’unica radice («l’ebraismo») ma una pluralità di modi di intendere se stessi (gli ebraismi). Mettere insieme parti diverse, spesso tra di loro conflittuali, è stata l’impresa alla quale si è dedicato il sionismo. Non tutta la storia ebraica, e ancora meno quella dello Stato d’Israele, può quindi essere letta solo alla luce dell’antisemitismo. La stessa storiografia si è incaricata, in questi ultimi cinquant’anni se non più, di fare giustizia di un approccio monodimensionale. Rimane tuttavia il riscontro che alle radici di un processo storico che porta, in una parte del mondo ebraico, alla ricerca in età contemporanea di una sovranità politica, vi siano molteplici fattori. Tra di essi, per l’appunto, il ricorrente rifiuto altrui. Motivato in chiave razzista. E con esso, l’impedimento alla libertà di potere vivere nei paesi di origine senza dovere subire intimidazioni, vessazioni se non persecuzioni o peggio ancora. Dal XVIII secolo, i progressivi processi di «emancipazione», la liberazione degli ebrei dai vincoli di minorità civile, sociale ed economia fino ad allora sanciti dalle norme vigenti, se da un lato comportarono la progressiva integrazione nelle nazioni di appartenenza, dall’altro rigenerarono le motivazioni dell’interdizione nei confronti della minoranza. I percorsi di costruzione delle identità nazionali europee, al pari delle idee di cittadinanza che vennero progressivamente affermandosi, implicavano anche la riformulazione della minaccia di un «pericolo ebraico». L’una cosa, ossia l’integrazione giuridica, non escludeva infatti l’altra, la dannazione ideologica. Se in Europa occidentale, ovvero al di qua degli attuali confini della Polonia con la Germania, l’affermarsi delle Costituzioni liberali derubricava e scioglieva il tema delle identità particolariste, di gruppo, dentro il più generale percorso della costruzione delle appartenenze costituzionali, quindi delle fedeltà nazionali (uniti nelle diversità, sotto lo stesso sovrano, ovvero «il popolo»), in Oriente, a partire dalla Russia zarista, le cose andavano ben diversamente. Non di meno, negli stessi paesi a democrazia liberale l’affermarsi di un antisemitismo politico, fondato sulla denuncia pubblica della persistente dannosità dell’ebraismo – che ora veniva sempre più spesso associato anche alle «classi pericolose», quelle subalterne, coniugando in più di una circostanza questione ebraica a «questione sociale» – stava diventando un vettore di aggregazione politica. Essere contro gli «ebrei» (intesi non in quanto liberi cittadini bensì come un consorzio di cospiratori) diveniva la chiave di volta per rifiutare qualsiasi cambiamento, rifugiandosi nella falsa sicurezza di una «tradizione» ancestrale che avrebbe invece dovuto conservare gli antichi ordini della società, altrimenti compromessi dalla disgregazione dei processi di modernizzazione. Gli ebrei, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e per tutta la prima metà del secolo successivo, furono quindi ripetutamente descritti come sobillatori delle classi lavoratrici, delle quali erano comunque parte, assumendone, a volte, anche il ruolo di élite intellettuali e politiche sovversive.

E quindi, in questo insieme di cose, come entra Israele?
Israele è l’anello terminale di una evoluzione complessa, dove semitismo e antisemitismo, nella loro più assoluta contrapposizione, interagiscono, ognuno all’interno di logiche proprie – e per nulla comparabili poiché del tutto disgiunte – alla ricerca di una risposta nei riguardi della specificità ebraica. Per gli antisemiti del Novecento diverrà la tragica «soluzione finale», praticata dai nazisti, con l’annientamento fisico e biologico degli ebrei. Per una parte del mondo ebraico sarà invece l’identificazione del progetto nazionale come sbocco ai propri bisogni, primo tra tutti quello alla sopravvivenza. Ma dentro una traiettoria moderna, debitrice dell’esperienza di altri popoli.

C’è il mondo delle cose e quello delle immagini. Tu parli spesso, nel tuo libro, di come Israele si racconti, parli di se stessa e, aggiungiamo, parli a se stessa.
Il fuoco d’Israele, ossia la sua storia, le sue diverse identità, le anime e gli spiriti che la abitano, quindi il suo complesso pluralismo, è stato raccontato in molti modi. Si può parlare, al riguardo, di più stagioni succedutesi dal 1948 ad oggi. In un primo tempo, infatti, le vicende dello Stato e della società ebraica erano rimaste completamente schiacciate sulla cronaca. Quindi, sui resoconti giornalistici. D’altro canto, nel suo insieme Israele era ancora una società troppo giovane, per così dire quasi adolescente, da potere essere raccontata in un qualche formato che non fosse quello dell’immediatezza dello sguardo dell’osservatore più o meno estemporaneo. Nella percezione dei molti, in fondo, il racconto di Israele si schiacciava perlopiù sul tema della sua immediata sopravvivenza a venire, piuttosto che sulle sue complesse dinamiche di esistenza nel tempo corrente. Il rapporto con le due potenze ex coloniali dell’Europa, la Francia e il Regno Unito, e poi con gli Stati Uniti, contribuì tuttavia a rimodellarne l’immagine pubblica, tra disillusione e demistificazione: non più il solo prodotto di un’epica dell’auto-organizzazione, non il risultato esclusivo del pionierismo, non il Paese solidale con sé ed informato ad un’etica dei convincimenti profondi ma anche, e poi soprattutto, un attore dello scenario regionale ed internazionale, portatore di specifici interessi, spesso in conflitto con quelli altrui, nonché capace di giocare d’anticipo, spesso in maniera disinvolta e senza eccessivi scrupoli. Fu tuttavia a cavallo tra gli anni Settanta ed Ottanta che presero piede due grandi filoni di narrazione, tra di loro distinti ma, in qualche imprevedibile modo, anche intersecabili, che raccolsero come tali un’eco crescente, a tutt’oggi consolidata. Il primo di essi, di estrazione perlopiù accademica, rimandava a quel complesso di autori e temi che sono stati poi definiti come «nuova storiografia israeliana». Di fatto, nell’estrema varietà di approcci, a tratti anche nella reciproca conflittualità che essi esprimevano, l’elemento comune di quella che non è stata una corrente omogenea di studiosi ma un criterio analitico con il quale rileggere la storia recente del Paese, manifestava il bisogno di prendere le distanze dalla storiografia più tradizionale, ovvero quella che aveva accompagnato i primi trent’anni di vita della nazione. L’attenzione che ben presto raccolse un tale modo di raccontare e raccontarsi, con spunti critici, al limite dell’accesissima polemica, catalizzò parte dell’attenzione della comunità internazionale. Non solo di quella degli studiosi ma anche della pubblicistica a più ampia diffusione. Se il punto di partenza del lavoro storiografico fu offerto dall’accesso a documenti fino ad allora indisponibili, poiché secretati, ciò che fece la vera differenza fu tuttavia l’ingresso nell’area pubblica di una nuova generazione di studiosi, assai meno depositari e quindi debitori di un obbligo apologetico verso lo Stato nazionale, del quale non erano padri ma semmai figli. Ne è derivata comunque la considerazione che Israele, tanto più nel suo rapporto problematico con la realtà palestinese e il mondo arabo, sia un Paese che si vive anche al suo interno con grande intensità, molto spesso in sé contraddittoria. Il successivo filone di racconto è stata la lunghissima stagione dei grandi autori della letteratura israeliana, quella quindi autoctona, prodotto di una seconda generazione – e poi anche di una terza – che segue alla stagione iniziale che va dal 1948 alla fine degli anni Settanta. La forza e la potenza di fuoco delle innumerevoli parole generate da tali (nonché tanti) scrittori si è rivelata sorprendente, diventando un fenomeno a tratti internazionale. La narrativa d’Israele mette il lettore a proprio agio poiché non ha alcun carattere particolarista, ovvero strettamente identitario: semmai cerca l’elemento dell’universalità in ogni singolo tema, in qualsiasi racconto, nello specifico di un argomento, a prescindere da quale sia quest’ultimo. Anche per una tale ragione, chi la legge ne rimane non solo coinvolto ma avvolto, in un processo a spirale, dove vede riflessi elementi significativi della sua esistenza. È una letteratura antieroica, basata essenzialmente sui sentimenti della quotidianità ma che il più delle volte evita di scadere nell’intimismo autoreferenziale, rivelando soprattutto il bisogno che l’essere umano ha di comunicare la contraddittorietà della sua condizione esistenziale. Il racconto d’Israele sta proseguendo oramai da quasi una decina d’anni a questa parte – integrandosi con ciò che già è offerto dal ricco deposito di rappresentazioni storiche, letterarie, pubblicistiche – attraverso le serie televisive, che stanno conquistando l’immaginario di una crescente parte di spettatori. Per non pochi aspetti si può parlare di esse come di un fenomeno che comunica immagini tra di loro coerenti, unite da un plot narrativo, da una ricerca stilistica, da una particolare attenzione a restituire comunque un quadro sufficientemente realistico di ciò che viene rappresentato. In quanto dietro a queste costruzioni c’è una complessa intelaiatura autodescrittiva che rivela non solo la capacità di costruire trame coinvolgenti ma anche l’esigenza di raccontarsi, quasi che negli episodi di una serie televisiva si riflettessero i capitoli di un’intera esistenza. Che si tratti della vita di un singolo come quella di un’intera comunità.

Claudio Vercelli, Israele. Una storia in dieci quadri, Laterza, Roma-Bari, 2022, pp. 182

Gianni Poglio

Giornalista, autore, critico musicale. Dopo numerose esperienze radiofoniche e televisive, ha fatto parte della redazione del mensile Tutto Musica e del settimanale Panorama (Mondadori). Conduttore dii talk show per Panorama d’Italia Tour, con interviste “live” ai protagonisti della musica italiana e di dibattiti tra scienza ed intrattenimento nell’ambito di Focus Live, ha pubblicato per Electa Mondadori il libro “Ferdinando Arno Entrainment”


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