Cultura
Dina, la ragazza che parla di ebraismo e spiritualità nel videogioco The Last Of Us parte 2

Filosofia di un Blockbuster per Playstation che racconta la natura umana

Si chiama Dina uno dei personaggi femminili del videogioco  The Last of Us Part II (Naughty Dog) che negli Stati Uniti ha venduto più di quattro milioni di copie in due giorni. Un gioco di orrore/sorveglianza di zombie, ma anche uno dei pochi Blockbuster con un personaggio ebreo. Proprio di questo personaggio, Dina, appunto, parla The Forward in un’intervista con lo sceneggiatore Neil Druckmann. Dina non è un personaggio giocabile, ma ha un ruolo importante nella vicenda. Lei e la protagonista Ellie si avventurano a Seattle in una ricerca per vendicare la macabra morte di un amico, Joel. Combattono gli zombie-umani infettati da un fungo e varie fazioni umane in guerra. Ma tra loro si sviluppa una storia d’amore, che nasce nei loro dialoghi sempre più intimi, nella dichiarazione della volontà di sacrificare la propria vita l’una per l’altra.
A rivelare l’ebraicità di Dina ai fan è stato il trailer, uscito più di un anno fa, in cui portava un braccialetto con il ciondolo della Mano di Miriam.

Ma chi è Dina?
Nel caratterizzare il personaggio e nel darle un senso nella storia, lo sceneggiatore ha cominciato dal suo background, portando avanti l’idea di creare personaggi molto diversificati tra loro, che rispecchino la società in cui viviamo e dichiara: “Mi è sembrata una grande opportunità parlare del suo ebraismo, della sua spiritualità e del suo rapporto con la famiglia e di come questo la informi e la motivi ad andare avanti”. Lo stesso succede ad altri personaggi, Joel con i suoi valori cristiani ed Ellie con una forma particolare di spiritualità. Dina, inoltre, “Significa in ebraico “giudizio”, e sembra riflettere sui temi del gioco, il perseguire la giustizia”, prosegue Druckman, che poi spiega: “In particolare Dina, parla di come la preghiera sia un modo per calmare se stessa, un modo per mettere le cose in prospettiva, un modo per superare il dolore”.

A raccontare l’ebraismo sono anche altri dettagli del gioco, che si scoprono verso la fine della partita. Dina e Ellie vivono insieme in una fattoria, in grande tranquillità e armonia con la figlia di Dina. Il giocatore in questa parte ritrova una certa tranquillità: non ci sono combattimenti. “Si ha tempo per guardarsi intorno. E allora si noterà che ci sono le mezuzah sugli stipiti delle porte, elementi che richiamano Pesach, ma soprattutto che l’ebraismo fa parte della vita di Dina, la definisce”, continua Druckman, “E questo riflette il mio rapporto con la religione”.
E poi c’è anche Lev… Una citazione di David Benioff che nel suo La città dei ladri tratteggia un personaggio con questo nome. “Ho amato molto quel libro e mi è sembrato un bell’omaggio allo scrittore”, spiega lo sceneggiatore, “Ma Lev in ebraico significa “cuore” e Lev nella storia è il personaggio più innocente. È il “cuore” che aiuta a spezzare il circolo vizioso della violenza per questi personaggi così determinati a vendicarsi”. La violenza è una caratteristica umana e il conflitto, messo in scena in questo videogioco, rappresenta un eccesso. Sempre, da entrambe le parti, incapaci di provare empatia e accecate dall’idea della vendetta. Le riflessioni sulla condizione umana stanno alla base della scrittura di Druckman, tra spiritualità e brutalità. Insomma, filosofia in formato spara-spara.


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