Diritti umani
Donne per i diritti

Cinque donne impegnate, ciascuna in modo diverso, nella difesa dei diritti umani: le loro storie

Una rosa di cinque donne straordinarie, cinque storie tutte diverse che nel 70° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani meritano di essere conosciute e raccontate – Speciale Women of JOI

 

Simone Veil

Le parole della madre, che dopo il matrimonio aveva abbandonato gli studi in chimica, le risuoneranno in testa tutta la vita: continuate a studiare, e trovatevi un bel lavoro. È il 1950, quando Simone Jacob, da poco coniugata Veil, segue il marito Antoine a Weisbaden, in Germania. Gli hanno offerto un posto al consolato francese, e lui l’ha accettato. Per gli altri è una scelta incomprensibile, quasi irrispettosa. Sono passati solo cinque anni da quando Simone, unica della famiglia insieme alle sorelle Denise e Madeleine, è stata liberata dai campi di sterminio. Era la più giovane delle tre al momento dell’arresto (16 anni e mezzo) e si era salvata dalla camera a gas grazie alla raccomandazione di uno sconosciuto sul treno: ricordati di dire che hai 18 anni.

Ma Simone è convinta che per evitare il ritorno del nazismo non ci sia altro modo che ripartire dai diritti e dai buoni rapporti tra i popoli. Fa parte di quella generazione per cui l’Europa non è un meccanismo burocratico distante e poco comprensibile, ma una necessità vitale, da costruire e far crescere con tutto l’impegno possibile. Tornata dalla Germania, Simone si laurea in Giurisprudenza e supera il concorso d’ingresso alla magistratura. Lavora all’amministrazione penitenziaria, occupandosi dei diritti e del miglioramento delle condizioni delle donne detenute. Negli anni Settanta, arriva l’impegno politico. Nominata Ministra della Sanità, nel 1974 è la protagonista della lunga battaglia che porta la Francia a divenire il primo Paese a maggioranza cattolica ad approvare la depenalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza. La Loi Veil è motivo di riconoscenza per molti, ma anche di indignazione per altri. Simone è colpita da manifestazioni di violenza inaudite, non ultima quella di ritrovarsi con svastiche disegnate sui muri di casa e di essere, proprio lei, paragonata alle SS.

Accanto all’impegno in patria, continua la costruzione dell’Europa, che culmina con l’elezione a prima Presidente del Parlamento Europeo nel 1979 a Strasburgo. Dal luglio di quest’anno, Simone riposa al Panthéon. Vicino a lei c’è un altro ebreo francese: René Cassin, tra i redattori e firmatari della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Nel 2013, Simone aveva dichiarato: “Di questa storia dei diritti umani, mi dà fastidio che si pretendano universali, quando invece non lo sono affatto. Ci sono sempre due pesi e due misure”. Non aveva aggiunto, perché non ce n’era bisogno, che tutto lo scopo della sua vita era stato far sì che, universali, lo diventassero davvero.

 

Lani Guinier

Lani è, come si dice, figlia d’arte. Sua madre, immigrata ebrea dalla Polonia, è un’attivista per i diritti civili. Suo padre, nato a Panama e cresciuto prima in Jamaica e poi a Harlem, è il primo studente nero ammesso al college di Harvard nel 1929. I due si conoscono e si sposano a New York City. Uno dei pochissimi degli Stati Uniti, lo Stato di New York, dove il matrimonio tra bianchi e neri non è illegale.

“Ricordo che una volta, quando avevo quattro o cinque anni, mia madre mi portò a una festa di Hannukah. Alcune persone ebbero una reazione sgradevole: cosa ci faceva una bambina nera a una festa ebraica? Se conservi un ricordo così vivido di qualcosa che ti è successo a quattro o cinque anni, significa che su di te ha avuto un grande impatto”.

Lani ha 12 anni quando decide cosa fare da grande. In televisione ha visto Constance Baker Motley scortare James Meredith, primo studente nero dell’Università del Mississippi. Dopo le scuole, Lani si laurea in Legge e comincia a occuparsi di teoria dei diritti civili. Nel 1998, come coronazione di una lunga carriera, è la prima donna nera a essere nominata docente di ruolo alla Harvard Law School.

l suoi studi riflettono sulla politica, sulle minoranze, sul sistema di voto, sulle istituzioni.

Indagano le strutture del potere, scuotono le certezze del sistema politico. Il suo lavoro, considerato troppo radicale, a tratti contenente idee antidemocratiche, nel 1993 spinge il Presidente Clinton ha ritirare il suo appoggio dalla nomina a Procuratrice Generale per i Diritti Civili, dopo che non solo i Repubblicani, ma anche diversi Democratici avevano espresso dissenso.

La verità è che il lavoro di Lani è scomodo per tutti. Tutti gli studenti che sono passati dai suoi corsi ricordano quella frase continuamente ripetuta, quasi un intercalare: “My problem is, if you stop here…”.

Fermarsi, accontentarsi è un problema. Lani non risparmia critiche al Partito Democratico e alla sua convinzione di non avere niente da rimproverarsi sul piano dei diritti civili. Mette in guarda contro il rischio del cosiddetto tokenismo, ovvero l’inclusione delle minoranze solo apparente, spesso mediante l’assegnazione di cariche di rappresentanza sul piano istituzionale. In poche parole, non basta vedere dei neri (o altre minoranze) in politica per poter dire che il problema della diseguaglianza appartiene al passato. Dopo ogni vittoria, c’è sempre un passo in più da fare. Perché è un problema, se ci fermiamo qui…

 

Rebecca Tiktiner

Conosciuta anche come Rivka Bat Meir, la data e il luogo dei suoi natali sono andate perdute. Si conoscono, però, quelle della sua morte: Praga, 1605.

Rebecca, molto probabilmente di origini polacche e figlia di rabbino, è l’autrice del trattato di etica Meineket Rivkah: non solo è la prima donna a scrivere un libro in yiddish, ma è proprio, per quanto ne sappiamo, la prima donna ebrea a scrivere un libro tout court. Meineket Rivkah viene stampato postumo, nel 1609; se oggi sappiamo della sua esistenza, lo dobbiamo soprattutto all’ebraista cristiano Johann Cristoph Wagenseil, che cita l’opera in suo commentario del Talmud Sotah nel 1674.

Meineket Rivkah è un trattato di etica ed educazione dei figli, scritto da una donna per le donne, attento alla realtà del sedicesimo secolo così com’era vissuta dalle donne ashkenazite di ceto medio e, nello stesso tempo, ricco di riflessioni e approfondimenti modellati sull’esempio dell’esegesi rabbinica, che rivelano la vasta e inusuale preparazione della sua autrice.

Non ci sono le prove, ma è stato suggerito che Rebecca sia stata anche predicatrice e insegnante presso le sinagoghe, con un ruolo più significativo rispetto a quello tradizionale della firzogerin (la donna che guida la preghiera), e che il libro potrebbe essere una collezione, adattata alla forma scritta, delle sue lezioni.

Quello che è certo è che Rebecca, in tempi in cui l’educazione femminile era ritenuta inutile e disdicevole, ha fiducia nelle sue lettrici e le esorta a prendere in mano non solo la cura materiale dei figli, ma anche la loro crescita spirituale: “In casa, ascoltate come i vostri figli pregano e come dicono le benedizioni, e non dipendete dai rabbini. Le lezioni che il figlio studia insieme alla madre sono molto più utili di quelle che studierà in futuro per conto proprio”.

 

Tosia Altman

Ventiquattro anni di vita infaticabile, da combattente. Tra i leader dell’Hashomer Hatzair è ricordata come “La prima ad aver risposto alla chiamata e l’ultima a cadere”. Tosia cresce in una famiglia di ebrei polacchi di forti convinzioni sioniste e socialiste; dopo l’invasione tedesca della Polonia, ripara a Vilna.

Lì, si organizza la resistenza. Tosia torna in Polonia e agisce come corriere e trafficante d’armi per l’Hashomer Hatzair e la ŻOB, l’unità ebraica di combattimento che organizzerà l’insurrezione del ghetto di Varsavia. La maggior parte dei corrieri, per inciso, sono donne: gli uomini, in quanto circoncisi, corrono maggiore pericolo di essere identificati. Tosia ha un vantaggio in più: è biondissima e, cosa rara tra gli ebrei polacchi che parlano l’yiddish come prima lingua, il suo polacco è privo d’accento. Continua così, munita di documenti falsi, a muoversi fuori e dentro il Ghetto di Varsavia e a fare quello che per gli ebrei è proibito: viaggiare, spostarsi per le città, a prendere treni. Dovunque arrivi, incontra i rappresentanti dei gruppi ebraici locali, porta la sua solidarietà, incoraggia la resistenza.

Alla fine della rivolta del Ghetto di Varsavia, Tosia è tra le uniche sei persone che, attraverso il condotto fognario, riesce a scappare dal bunker di Anielewicz dove i combattenti della ŻOB si sono rifugiati e che i tedeschi hanno circondato e attaccato col gas. Si nasconde per un paio di settimane in una fabbrica di celluloide, fino a che un incendio non la costringe a fuggire. Catturata dalla polizia e consegnata alla Gestapo, Tosia muore due giorni dopo a causa delle ustioni. Fino all’ultimo giorno è rimasta libera.

 

Ginetta Sagan

È notte, siamo nei pressi di Sondrio, una donna osserva le stelle, pensando che non vedrà mai più l’alba. Per 45 giorni, dopo la sua cattura e il suo rifiuto a fare nomi, è stata torturata e stuprata dalle Brigate Nere. La sua esecuzione è fissata, ironia, per il 23 aprile 1945. Ma ecco arrivare due soldati tedeschi, che ingiungono ai repubblichini di affidare la donna alla loro custodia. Sicura di essere in viaggio verso il luogo della fucilazione, nulla può descrivere la sua sorpresa quando, invece, scopre che la meta è un ospedale di suore, dove potrà nascondersi e curarsi. I due soldati tedeschi sono disertori e collaboratori della Resistenza: “Topolino”, questo il nome di battaglia di Ginetta Moroni, è salva.

Nata a Milano da padre cattolico e madre ebrea, i genitori, entrambi medici e convinti antifascisti, riescono a procurarle dei documenti falsi che omettono la sua discendenza ebraica, nel tentativo di salvarla dalla persecuzione. Nel 1943, entrambi saranno uccisi dai nazifascisti: il padre fucilato dagli squadristi, la madre deportata ad Auschwitz.

Ginetta lavora per la Resistenza in tutto il Nord Italia. Fa la staffetta, distribuisce pamphlets contro l’occupazione, procura tessere annonarie e documenti falsi agli ebrei che vivono nascosti, per favorire la loro fuga in Svizzera (una volta, travestendosi da donna delle pulizie per rubare della carta intestata da un ufficio pubblico e ottenere così documenti più credibili). Dopo la guerra, frequenta la Sorbonne a Parigi e nel 1951 emigra negli Stati Uniti per continuare gli studi. Si laurea in Scienze della Psicologia Infantile (Child development) all’Università di Chicago e, dopo il matrimonio con il medico Leonard Sagan, va a vivere a Washington. Da buona expat italiana, per un periodo lavora part-time dando lezioni di cucina. Ma non è questa la parte della storia che ci interessa.

Ginetta è tra le fondatrici della sezione americana di Amnesty International. Già nota e importante nel Regno Unito, l’organizzazione per i diritti umani è ancora misconosciuta negli Stati Uniti, particolarmente nella parte occidentale del Paese. Ginetta è particolarmente attenta ai diritti dei prigionieri di coscienza e non ha pregiudizi ideologici: si fa sentire tanto contro le violazioni compiute dai soldati americani in Vietnam, tanto quanto contro quelle compiute dal locale regime comunista. Nel 1994, Amnesty International crea il Fondo Ginetta Sagan in suo onore, che ogni anno premia una donna “che agisce per proteggere la libertà e la vita di donne e bambini laddove le violazioni dei diritti umani sono all’ordine del giorno”.

Una vita per ricordarci che “la rivoluzione, oggi no, domani forse…” è tutta una scusa. È sempre il momento giusto. D’altro canto, quella diciannovesima sezione di Amnesty, Ginetta, l’aveva fondata dal salotto di casa.

 

Silvia Gambino
Responsabile Comunicazione

Laureata a Milano in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale, ha studiato Peace & Conflict Studies presso l’International School dell’Università di Haifa, dove ha vissuto per un paio d’anni ed è stata attiva in diverse realtà locali di volontariato sui temi della mediazione, dell’educazione e dello sviluppo. Appassionata di natura, libri, musica, cucina.


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