Cultura
Ebraismo, dieta vegetariana e carne coltivata

Sono molti gli ebrei che seguono una dieta vegetariana certi di non contravvenire ad alcun precetto, ma la rivoluzione di questo tempo è la carne coltivata su cui le opinioni dei rabbini divergono

L’ebraismo non proibisce il consumo di carne. Ma neppure lo impone. Partendo da questi due assunti, sono molti gli ebrei che seguono una dieta vegetariana certi di non contravvenire ad alcun precetto. Anzi. Per quanto la tradizione sembri caldeggiare il consumo di carne per celebrare le feste e Shabbat, si tratterebbe comunque di regole nate in epoche e contesti poveri, in cui arrosti e stufati non erano cosa di tutti i giorni. Oggi, per rendere speciale un pasto, sarebbe sufficiente bere del semplice vino. In compenso, la scelta di cibarsi di soli alimenti di origine vegetale avrebbe più di qualche vantaggio nel rispetto della kasherut.

Ben difficilmente un prodotto vegetale sarà non conforme per un ebreo e la stessa storia offre diversi precedenti illustri. Secondo gli studiosi del Talmud, da Adamo ed Eva fino alla generazione di Noè, i nostri progenitori sarebbero stati prevalentemente vegetariani e solo in seguito al diluvio universale Dio avrebbe concesso loro di cibarsi di carne, pur con le restrizioni che ben sappiamo. In seguito, non mancano gli esempi di vegetarianismo occasionale. Si passa da Daniele e i suoi compagni, che mentre erano prigionieri alla corte di Nabucodonosor, re di Babilonia, evitarono il cibo non kasher grazie a una dieta vegana (Daniele 1: 8-16), ai Maccabei, che durante la lotta contro i siriani in fuga sulle montagne si cibarono di cibi vegetali, non essendo disponibile carne kasher. Non va poi dimenticata la regina Ester: secondo il Midrash, alla corte di Assuero fu costretta a seguire una dieta composta in prevalenza da legumi per non infrangere i precetti della kasherut.

Ai nostri giorni, la scelta vegetariana può facilitare la vita all’ebreo osservante che non dovrà preoccuparsi di non mescolare i cibi pareve né di separare piatti, utensili e pentolame, dato che né carne né latticini rientrano nella sua dieta. A questa relativa semplificazione corrisponde poi una morigeratezza nei consumi e una ponderatezza nelle scelte. Tutte cose in linea con una kasherut intesa come guida verso una condotta morigerata, attenta al limite e all’equilibrio tra gli appetiti e il loro soddisfacimento. Restando in ambito etico, per quanto non manchino ragioni economiche e salutiste, nella maggior parte dei casi chi sceglie una dieta a base vegetale lo fa in un’ottica di rispetto per gli esseri viventi e di tutela per l’ambiente perfettamente in linea con il divieto contenuto nel Talmud di fare del male agli animali. Più in generale, vegani e vegetariani ebrei si rifanno spesso al Tikkun Olam, quel “principio di riparazione” citato nella Mishnah come soccorso a quanti sono svantaggiati e oggi molto usato anche in termini ambientalisti, come impegno verso un mondo migliore.

Lo ha inteso in questo senso anche Yoav Reisler, senior manager per il marketing presso Aleph Farms, azienda israeliana specializzata nella produzione di carne coltivata, intervistato qualche tempo fa dalla rivista statunitense Time. In questo caso si andava un po’ più in là dei semplici (si fa per dire) vegetarianismo e veganismo, trattando di un tipo di alimento che trascende i concetti finora affrontati. Da poco approvata dalla Food and Drug Administration americana, ma in Europa non ancora autorizzata, la carne prodotta in laboratorio cambia ulteriormente le carte in tavola. Si tratta infatti di un alimento nato da cellule animali coltivate in vitro, con caratteristiche sia di gusto, consistenza e valori nutrizionali analoghe a quanto ottenuto dalla macellazione. Senza però che sia stato fatto del male ad alcun essere vivente e a tutto vantaggio, sembrerebbe, di ambiente e clima.

Tra le grandi rivoluzioni che ci aspettano, questo tipo di produzione vede Israele in prima linea. Lo stesso articolo del Time ricorda che tre delle prime otto aziende di carne coltivata al mondo sono israeliane. Tale dato si unisce a quello che indica il paese come il secondo dopo gli Stati Uniti per numero di start up legate alla produzione di proteine alternative e con la più alta percentuale mondiale di vegani. Del resto, è proprio a Tel Aviv che ogni anno a giugno si tiene il più importante festival vegano al mondo e la stessa “città che non dorme mai” vanta anche il primato per ristoranti vegani e vegan friendly.

Al di là del costo, tuttora piuttosto elevato, di una bistecca coltivata, anche la natura in sé di queste nuove creazioni della tecnologia alimentare sono già motivo di discussione. Da una parte si saluta favorevolmente la possibilità di creare del cibo che inquina di meno e non chiede di allevare né uccidere degli esseri viventi, dall’altra siamo comunque davanti a qualcosa che spaventa. Anche a livello religioso. Già qualche anno fa, in un articolo uscito su Tablet, ci si chiedeva fino a che punto i sostituti della carne potessero essere considerati kosher. O meglio, se il loro consumo potesse aggirare i precetti millenari. In quel caso non si parlava di bistecche prodotte in vitro, bensì di prodotti a base vegetale che avevano però in tutto e per tutto l’aspetto e il sapore di quelli animali.

Nessun problema nel caso di hamburger di manzo o di nuggets di pollo, ma come considerare il bacon vegetale? E il cheeseburger con il formaggio derivato dalle alghe? Possiamo ritenerli kasher? Tra le voci a favore il pezzo citava quella di Shmuly Yanklowitz, un rabbino ortodosso, vegano e fondatore dell’organizzazione di difesa degli animali Shamayim. Pur dichiarandosi disgustato da qualsiasi cosa avesse l’aspetto e il sapore della carne di maiale, il religioso si mostrava comunque favorevole a qualunque alternativa vegetale kasher a un sistema di produzione industriale che danneggia l’ambiente e gli esseri viventi. Anche se questo assumeva le sembianze di una costoletta di porco. Di diverso avviso sembrava il rabbino Menachem Genack, che si era rifiutato di apporre il sigillo kasher dell’Unione Ortodossa a prodotti che contenessero il termine “maiale” nel loro nome. Ufficialmente, per non creare confusione nei consumatori.

Da quel poco fin qui visto è evidente quanto la questione dei cibi sostitutivi sia una strada affascinante e ricca di prospettive, ma non priva di difficoltà. Sia dal punto di vista economico e tecnologico, sia da quello religioso ed etico. Con qualche dubbio pure sul fronte nutrizionale. Tra le ragioni di una scelta vegana c’è infatti spesso anche quella salutista, che non vede particolarmente di buon occhio l’assunzione di proteine di origine animale. Se a questo si aggiunge l’ambizione di nutrirsi con alimenti il meno possibile elaborati, forse i nuovi ritrovati di laboratorio non sono forse la soluzione migliore. Una risposta a tutte queste esigenze arriva, una volta di più, dalla tradizione, per quanto sotto nuove spoglie. La terza via tra dieta onnivora e dieta vegana si chiama infatti plant based ed è la versione riveduta e corretta del regime solo vegetale. Apparentemente, sembra essere meno restrittiva rispetto a quella vegana perché, pur basandosi prevalentemente sui prodotti della terra, concede saltuariamente e in minima parte anche alcuni di origine animale. D’altra parte, però, sia questi cibi sia quelli vegetali devono essere il meno lavorati possibile, provenire da coltivazioni o allevamenti biologici e non contenere additivi potenzialmente nocivi per l’uomo e per l’ambiente.

Certo più difficile da osservare rispetto a una vegana che fa affidamento a prodotti sì vegetali, ma super lavorati o trasudanti grassi e additivi, questa dieta può essere facilmente assimilata a una filosofia. E a quell’idea di alimentazione rispettosa dei limiti alla quale anche la religione fa riferimento. Perfettamente compatibile con la cucina ebraica, la dieta plant based può attingere ai piatti che nei secoli passati hanno costituito la dieta quotidiana di intere generazioni, prevalentemente basati su cereali, legumi e verdure, eventualmente associati a uova e latticini e solo in via eccezionale abbinati a carne e pesce. Dopo la dieta rigorosamente veg e a chilometro zero di Adamo ed Eva, che da quanto dice il capitolo 9 della Genesi si nutrivano perlopiù di “verdi erbe”, Canaan, la terra promessa, è definita nel Deuteronomio “paese di frumento, di orzo, di viti, di fichi, di melograni; paese di ulivi, di olio e di miele”. Presso gli Egizi gli Israeliti avevano conosciuto porri, cipolle e aglio, tanto da rimpiangerli, come si legge in Numeri 11, 4, durante il peregrinare verso la Terra Promessa. Questo ovviamente prima che Dio mandasse loro la manna, “simile al seme di coriandolo” e con “l’aspetto della resina odorosa”. Sempre in Egitto avevano mangiato anche “pane a sazietà”, cocomeri e meloni, oltre a pesci, carne e quei fichi e melograni tanto rimpianti insieme alle vigne mentre si trovavano nel deserto. Tra i primi piatti citati nelle Scritture ce n’è uno che i ricettari ricostruiscono come a base di lenticchie e di polpettine di carne. Si tratta della cosiddetta minestra di Esaù, costata la primogenitura al figlio prediletto di Isacco. Si legge in Genesi 27, 28 che l’uomo, giunto stravolto dal fratello Giacobbe, pur di mangiare un po’ della sua “minestra rossa” con un tocco di pane, gli avrebbe venduto in cambio i suoi diritti di primogenito.

L’abbinata tra legumi e carne stufati è un classico che accompagnerà la storia degli ebrei fino ai giorni nostri (si pensi allo cholent), ma anche limitandosi ai soli legumi c’è di che saziarsi. La stessa minestra biblica citata sopra può essere infatti preparata sostituendo le polpettine con il riso, mentre lenticchie, piselli, ceci e fagioli abbondano nelle tradizioni ebraiche di ogni angolo del mondo. Così, se oggi è scontato associare la gastronomia israeliana a hummus e felafel, queste due preparazioni di origine mediorientale non sono certo le uniche a sfruttare i ceci. Né questi sono appannaggio di queste terre. Per quanto semplicissimo, anche gli ashkenaziti hanno infatti il loro snack a base di legumi. Si chiama arbes (termine yiddish che significherebbe per la verità pisello) ed è preparato in Europa Orientale lessando i ceci e condendoli con sale e pepe. Viene consumato perlopiù per Purim, a memoria della dieta a base di legumi e semi della regina Ester. A proposito di semi, quelli del sesamo sono un altro elemento fondamentale in quella cucina della tradizione perfettamente in linea con la filosofia plant based. Fonte preziosa di proteine vegetali, questi minuscoli e croccanti semini sono utilizzabili sia per arricchire pani, pite e challot sia per produrre quella gran cosa che è la tahina. Essenziale nell’hummus, la pasta di sesamo è un ingrediente di quell’altra delizia vegana nata in Libano e oggi tanto amata dagli israeliani che è il baba ganush, a base di melanzane arrostite, aglio, olio, succo di limone e, appunto, tahina.

Sempre con le melanzane e la pasta di sesamo, ma ispirandosi questa volta alla cucina turca, si può preparare un’altra bontà vegetariana. Si tratta della versione veg dello shawarma, street food preparato grigliando sottili fettine di agnello o di tacchino e servendole quindi come un doner kebab, avvolte nel pane e accompagnate con salse e verdure. Nella variante vegetariana si arrostiranno al posto della carne le melanzane, tagliate a metà, incise a griglia e quindi spolverizzate con un mix di spezie e zucchero a metà cottura. La consistenza morbida e carnosa di questi vegetali, fin dalla loro comparsa molto apprezzati dagli ebrei, viene sfruttata in tantissimi altri piatti plant based. Restando in Israele, li si ritrova ad esempio anche nel ripieno dei burichitas, sorta di panzerotti preparati con una sfoglia a base di farina, acqua e olio caldi, sale e pepe. Stesa sottile e tagliata a dischetti, la pasta viene farcita con melanzane e pomodori stufati con un soffritto di cipolla. Una volta chiusi a mezzaluna, i fagottini così ottenuti sono spennellati di olio, spolverizzati di semi di sesamo e infine cotti in forno fino a doratura.

 

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.