Hebraica Festività
Ecologia, responsabilità, cura

Se l’uomo è l’amministratore delegato della natura Creata da Dio, tra le sue principali responsabilità deve conservare e proteggere il creato

Con intensità e frequenza crescenti rabbini e studiosi si interrogano sul rapporto tra uomo e natura da un punto di vista ebraico. In occasione del capodanno degli alberi, Tu Bishvat, abbiamo provato a riflettere sulla relazione tra l’uomo e l’ambiente che lo circonda e su concetti come dominio, custodia, cura, sfruttamento, utilità, responsabilità, futuro.

“Fruttificate e crescete, riempite la terra e soggiogatela, e abbiate dominio sui pesci del mare, sugli uccelli dell’aria e su ogni essere vivente che si muove sulla terra” (Genesi 1,28) è un versetto che è stato indicato talvolta come la giustificazione esplicita del dominio dell’uomo sulla natura e, non appena gli strumenti tecnologici lo hanno consentito in età moderna e contemporanea, dello sfruttamento di questa. Si tratta, è bene chiarirlo fin da subito, di una lettura superficiale e fuorviante.

Per la tradizione ebraica la terra e tutto quanto essa contiene è parte della creazione. Per questo, cioè in quanto creazione divina, la terra appartiene al Signore e non all’uomo. E per questo motivo, quando gli ebrei cominciano un pasto e benedicono il pane, ringraziano Dio hamotzi lechem min haaretz, “per aver tratto fuori il pane dalla terra”. L’uomo, come rocce piante e animali, è una creatura, non un creatore; non dispone dunque ad arbitrio di quello che lo circonda. Quello che Dio dà ad Adam nel giardino dell’Eden non è perciò il dominio, ma la custodia del creato. Il Qohelet Rabbà è tra le fonti antiche che invitano all’azione responsabile e ammoniscono da comportamenti di segno opposto: “Il Santo, sia benedetto, creò il primo uomo, lo prese e lo condusse attraverso gli alberi del giardino dell’Eden dicendogli: guarda le mie opere, come sono belle e degne di lode! Tutto ciò che potevo fare in tuo favore l’ho fatto. Fai attenzione a non distruggere o corrompere il mio mondo! Sappi che se tu lo rovinerai, non ce ne sarà un secondo”. L’uomo è dunque delegato all’amministrazione di un patrimonio non suo, e ha il dovere di farlo evitando di rovinarlo o addirittura distruggerlo.

Tra coloro che hanno riflettuto sul ruolo di amministratore dell’uomo sul creato anche il rabbino Samson Raphael Hirsch, che si è spinto fino a definire come idolatria ogni comportamento di abuso della natura da parte dell’uomo. Distruggere o rovinare la terra, infatti, secondo Hirsch equivale a cancellare la differenza tra creatore e creatura e sostituirsi a Dio, unico legittimo proprietario. In questa prospettiva anche il consumo smodato e lo spreco sono ugualmente biasimevoli. “Se la terra è di Dio”, ha notato E. Diamond in uno dei saggi contenuti nel volume Ecologia & Ebraismo. Dove la natura e il sacro si incontrano (Giuntina), “perché non le dedichiamo la cura e l’attenzione che la nostra tradizione prevede? Abbiamo sacrificato la natura alle istanze commerciali e il risultato è che siamo diventati schiavi di bisogni e necessità sempre nuovi e mutevoli. Non è giunto il momento di instaurare un rapporto più equilibrato con il mondo creato da Dio?”.

Bal tashchit, “non distruggerai” (Deuteronomio 20,19-20), è un vero e proprio principio dell’etica ebraica che vale in generale, anche se non è assoluto, valido cioè sempre e comunque a prescindere dal contesto e dalle conseguenze. Il passo per intero recita: “Quando assedierai una città per molto tempo, combattendo contro di essa per occuparla, non distruggerai i suoi alberi colpendoli con la scure, perché solo i suoi frutti potrai mangiare ma l’albero non lo dovrai tagliare”. All’esortazione per un’azione responsabile qui si aggiunge un altro elemento tipico dell’etica ebraica, l’inserimento cioè di distinzioni che potrebbero far storcere il naso ai corifei di ogni estremismo (per esempio chi finge di ignorare la distruzione della terra provocata dall’uomo oppure chi sposa la causa ecologista a oltranza sminuendo le necessità degli uomini). In questo caso la distinzione è tra alberi con e senza frutto, con i primi che vengono considerati potenzialmente utili e quindi da preservare perfino durante una guerra. Ma la distinzione significa anche che siamo lontani da un culto degli alberi o più in generale della natura: la prospettiva è sempre quella della creazione di cui l’uomo è parte con il compito speciale della custodia dell’ambiente circostante. Sia l’idea cartesiana e moderna di una natura di cui l’uomo può disporre liberamente, cioè sfruttare, sia quella romantica di natura da ammirare sono lontane dalla prospettiva ebraica. Entrambe infatti riposano su una medesima concezione del rapporto tra uomo e natura, quella secondo cui la seconda è un insieme di oggetti di fronte a cui il soggetto che solo l’uomo può essere si pone e, di conseguenza, di cui dispone. Da parte ebraica invece, come ha notato tra gli altri Lenn Goodman, le cose in quanto esistenti come create hanno valore in se stesse e non solo ed eventualmente per noi. Molti secoli prima era stato già Maimonide a chiarire nella Guida dei perplessi che “l’universo non esiste per il bene dell’uomo ma ogni essere esiste per sé e non a causa di qualche altro motivo”.

Il fatto che un intero ordine della Mishnà, il seder zeraim, sia dedicato alle regole dell’uso della terra, indica nel modo più evidente la centralità nella consuetudine ebraica dei limiti e dei doveri dell’uomo di fronte alla natura. Negli undici trattati del Talmud dedicati a commentare questa porzione della legge orale si susseguono discussioni sulle benedizioni, sulle modalità della mietitura, sulle decime e le offerte, su proibizioni a consumare frutti di alberi piantati da meno di tre anni, primizie, anno sabbatico (che attraverso la prescrizione del riposo della terra ogni sette anni consente la santificazione di questa), giubileo (che interviene al termine di un ciclo di sette anni sabbatici) e molto altro ancora. Sono pagine in cui si intrecciano l’etica di un’economia essenzialmente agricola, l’esigenza di giustizia sociale e la vita rituale del Tempio di Gerusalemme in una chiamata corale all’azione responsabile, ovvero regolata da norme (mitzvot). Come ha chiarito Massimo Giuliani in un testo ricchissimo di spunti, La giustizia seguirai. Etica e halakhà nel pensiero rabbinico (Giuntina), “Nei testi tradizionali del giudaismo la sensibilità ecologica non è fine a se stessa e oggi la si potrebbe considerare una specie di by-product, un aspetto collaterale, di una più centrale e dichiarata preoccupazione etico-antropologica. E tuttavia tale sensibilità esiste e si presta ad essere valutata in se stessa”. Se la kasherut, l’insieme delle leggi che regolano l’alimentazione, si fonda sul presupposto filosofico secondo cui il mondo non è a nostra completa disposizione, al punto che perfino un’azione necessaria come il mangiare viene incardinata a regole precise, lo stesso vale nella relazione complessiva dell’uomo con le risorse ambientali e con la terra nel suo complesso.

Custodire significa avere cura non solo nel senso limitante e negativo della conservazione di quello che esiste (“non distruggere”), ma anche in quello aperto e positivo della sfida a migliorare, cioè a fruttificare e crescere, riempire la terra e soggiogarla secondo le indicazioni di Genesi da cui siamo partiti. Rav Hirsch, che come abbiamo visto ritiene idolatria lo spreco e la distruzione della natura, riserva lo stesso giudizio all’avarizia, cioè alla conservazione per la conservazione, un atteggiamento che se pensato in relazione alla natura letteralmente non porta frutto. Per evitare i due opposti speculari di avarizia e spreco Abraham Joshua Heschel considerava indispensabile svincolare l’azione umana dal criterio dominante o addirittura unico dell’utilità. Secondo un altro rabbino, Jonathan Sacks, il grande pericolo della nostra civiltà è “l’illusione di essere immuni alle leggi fisiologiche di crescita e declino, credendo di poter consumare risorse a tempo indefinito e perseguendo il guadagno presente senza preoccuparsi dell’esaurimento futuro”.

Sono le culture religiose come l’ebraismo, secondo Sacks, a presentare un modello alternativo fondato su “il rispetto di fronte alla creazione, la responsabilità nei confronti delle generazioni future e la moderazione, nella consapevolezza che non tutto quello che possiamo fare andrebbe fatto”. Se non si può non pensare, a proposito, alla riflessione sull’etica delle generazioni future elaborata dal filosofo Hans Jonas, è anche vero che responsabilità e futuro si saldano già in un midrash contenuto nel Talmud che racconta dell’incontro di un re con un vecchio intento a piantare un albero di carrube.


“Quanti anni hai?”, domanda il re.

“Settanta”, risponde il vecchio.
“Quanti anni ci vorranno prima che questo albero porti frutti?”, chiede ancora il re.
“Circa settanta”, risponde il vecchio.
Con un sorriso sulle labbra il re insiste: “Pensi davvero che mangerai i suoi frutti?”.
“Certamente no”, risponde l’uomo, “io mangio i frutti degli alberi che hanno piantato i miei avi, questo lo pianto perché ne mangino le generazioni che verranno dopo di me”.

 

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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