Cultura
Ely Rozenberg e il design in Israele

Intervista al designer che ha presentato per la prima volta all’Italia le creazioni israeliane

Ely Rozenberg è un designer israeliano approdato in Italia alla fine degli anni 90 con una laurea in tasca ottenuta alla Bezalel Academy of Art & Design di Gerusalemme. Oggi insegna alla RUFA (Rome University of Fine Arts) di Roma ed è stato insignito di numerosi riconoscimenti internazionali per i suoi progetti e prodotti. Ma è conosciuto anche per aver portato il design israeliano in Italia, insieme a un uomo geniale, curioso e creativo: Vanni Pasca. Teorico del design, è stato ricordato pochi giorni fa all’ADI design di Milano in una giornata di studio. Vari gli interventi, tra cui quello di Rozenberg che  poi ha deciso di andare a braccio per raccontare il suo incontro con Pasca. Ne è emerso un rapporto prolifico e creativo, che tratteggia un Vanni Pasca non come uomo di parola, come viene solitamente deinito, ma del fare! O meglio, come precisa Rozenberg, Pasca è un uomo di parola che scatena il fare. Certo, perché si incontrano casualmente da Magis, dove Rozenberg insieme al suo collega architetto Bianchini vanno a mostrare il prototipo di una sedia di un designer israeliano molto interessante ma con problemi di stampo. Pasca era lì perché stava scrivendo i testi del cataogo aziendale. Dopo una giornata di lavoro, si rincontrano per caso alla stazione di Mestre. Avevano un’attesa di circa un’ora e mezza poi avrebbero preso treni diversi. «Beh, andiamo a mangiare, aveva detto lui. E così è nata una collaborazione molto bella», ci raconta Rozenberg. Insieme hanno dato vita alla prima esposizione di design israeliano a Milano, preceduta da due mostre alla fiera di Verona. Lo abbiamo intervistato.

«Ero un giovane designer e volevo organizzare questa mostra, così ho bussato alla porta dell’Ambasciata. Il design non rientrava minimamente negli eventi culturali, nessuno sapeva che roba fosse il design israeliano. Avevo presentato progetti e programmi tenendo come linea la scena israeliana. Mentre discutevamo di questo, si è presentato un curatore del MoMa di San Francisco con un budget importante a disposizione, che naturalmente ha avuto la precedenza assoluta rispetto al mio progetto. Nel 1999 però è scoppiata l’Intifada armata, e il curatore ha scelto di sospendere tutto. A quel punto entro in scena io. L’ambascita mi richiama per offrirmi un budget di 20mila dollari. Li prendo tutti e con Vanni Pasca riusciamo ad allestire la prima esposizione. Naturalmente servivano altri soldi, ho stampato il catalogo in una tipografia a Tor Pignattara che mi ha ricevuto alle 2 di notte per risparmiare e ha fatto le prime prove di stampa su pagine di giornali porno… Ma poi ce l’abbiamo fatta. Titolo: Indostrious Designers Designer Industriosi. Ed è stato solo lìinizio».

La seconda esposizione è dell’anno successivo, con il titolo di Promised Design, aperta al pubblico due volte, la prima nel 2005 e poi nel 2011 durante il Salone del Mobile a Milano.
«La scuola israeliana era molto avanzata, ma la domanda per me era proprio come vendere il ghiaccio agli eschimesi? Cioè, come mostrare il design nella patria del design? C’erano cose sperimentali d’arte design che in Israele venivano esposte nelle gallerie e poi anche moltissime cose che venivano prodotte a livello industriale. Il titolo è un doppio gioco tra la Terra Promessa e la promessa lanciata dal design di guardare il presente pensando al futuro. Abbiamo scelto di restare ancorati alla vita. Così abbiamo selezionato un monopattino elettrico pieghevole e leggero disegnato da Nimrod Sapir, un uomo geniale. Aveva sviluppato un passeggino transformer che diventava una bicicletta con il seggiolino per il bambino. Poi l’azienda per cui lavorava lo ha licenziato. Allora si è messo a ragionare sul suo monopattino. Per produrre i primi cento pezzi ipoteca la casa, si fa fare un prestito dalla banca e lo fa realizzare in Cina. A Milano ne mettiamo uno in mostra mentre lui, Nimrod, se ne andava in giro per la città sul suo veicolo… Uno shock: in Italia era vietato circolare con un mezzo simile, è diventato possibile solo nel 2019, mentre a Tel Aviv era già possibile farlo. E il suo monopattino, Inokim, negli anni successivi è diventatoun prodotto che ha definito un’epoca, un po’ come la Vespa in Italia nel dopoguerra: tutti sono in giro con quello!».

E oggi, quali sono le caratteristiche del design israeliano?
«Quella scena si è un po’ sgretolata, ma poi c’è stato un vero e proprio boom dell’industria hitech. Non solo: food tech, mobilità elettrica urbana, start up del solare, green tech e innovazione legata ai problemi dell’acqua. All’epoca misi in mostra il monopattino come prototipo, cosa che per Israele era impossibile: non era un oggetto artistico, solo un prodotto industriale. Il mio sguardo era cambiato, grazie all’Italia che mi insegnava a guardare le cose con altri occhi. Oggi metterei in mostra il pianeta della tecnologia, il livello più alto della ricerca tecnologica, il grado di proposte visionarie per la città futura, pensando alla mobilità e al problema dell’ambiente, che comporta anche quello alimentare. Si sta lavorando molto per arrivare a produrre carne e pesce in laboratorio. Qualcosa su cui si può essere d’accordo o meno, ma che ha un impatto importante nella svolta ecologista perché eliminerebbe gli allevamenti intensivi. Israele era ed è un laboratorio interessantissimo».

Perché?
«Si lavora da sempre sul solare e sull’acqua, ma anche sull’emergenza. Che non riguarda solo la pandemia ma anche fenomeni naturali e utilizza la tecnologia, dal biomedico a quella militare. Ci sono start up che studiano come produrre droni per la consegna a domicilio di pasti, robotica al servizio dell’handicap, ma sono solo esempi».

Cos’è il design oggi?
«La prima domanda che ci siamo posti con Pasca era sul fare una mostra nazionale. Molti sono contrari perché viviamo in un mondo globale. Ma ci sono dei tratti culturali di cui credo non sia possibile fare a meno. Prendiamo il secondo Comandamento: nessuna immagine di Dio, nessuna decorazione con forme esplicite. Bene, questo comandamento, che è stato interpretato in modi diversi a seconda delle epoche, incide però proprio sullo sviluppo di una parte del cervello piuttosto che un’altra: in questo, quella linguistica piuttosto che quella visiva/artistica. Cosa significa? Che si fa meno ricerca sul bello, diversamente dall’Italia, per privilegiare quella più cervellotica e intellettuale. Poi ci sono i fattori climatici e geopolitici che non possono non influire sul design. E in Israele la declinazione del design che risolve i problemi delle persone è molto concreta. Anche nel corso di studi: se in Italia fino agli anni 90 il designer studiava nella facoltà di architettura per diventare un architetto filosofo, in Israele si confrontava direttamente con i materiali e imparava subito a usarli, era ed è una scuola innanzitutto pratica».

Progetti per il futuro?
«Quello che cambia è l’applicazione della tecnologia. E si farà sempre di più design non “puro”, bensì in collaborazione con la parte scientifica e sempre in un lavoro di squadra con l’obiettivo di agevolare la vita di tutti nelle smart cities».

Ely Rozenberg è nato nel 1969 a Dushanbe (Tajikistan). Laureato alla Bezalel Academy of Art & Design di Gerusalemme, ha coordinato il corso di Furniture Design allo IED di Roma e il corso di Design a RUFA dove insegna Wereable Design. Specializzato nella ricerca di nuove tecnologie e illuminazione, collabora con startup internazionali come MCC. Ha vinto numerosi premi quali Good Design e Red Dot Bestof the Best e selezione INternational di Compasso d’oro.

Micol De Pas

È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.


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