Cultura Cibo
Erbazzone, la torta d’erbe dall’ingrediente segreto

Storia del piatto emiliano, emblema della collaborazione tra i popoli

Un ripieno di verdure cotto tra due sfoglie di pasta. Detta così, potrebbe trattarsi di una torta salata qualsiasi, una delle tantissime della cultura gastronomica di tutto il mondo. Se si aggiunge che nel ripieno c’è del formaggio e che l’impasto che compone il guscio non è lievitato, il campo di indagine si restringe, anche se di poco. Sciogliendo il mistero, si sta qui parlando di un prodotto tipico emiliano, anzi, di Reggio Emilia, noto con il nome di erbazzone.
Tra le caratteristiche distintive di questa preparazione, consumata tra Reggio, Modena e Parma tutto l’anno e nel corso di un po’ tutta la giornata, c’è la presenza nel ripieno delle bietole, eventualmente mescolate o sostituite dagli spinaci, e del parmigiano grattugiato. Manca la ricotta, o comunque un latticino fresco come invece accade nella maggior parte delle quiche, così come non vi è traccia di uova. Tutto si regge sulla corretta cottura delle verdure, che devono asciugarsi il giusto per poi accogliere il formaggio grattugiato, che i vecchi ricettari vogliono amalgamato con le mani. A questi ingredienti si uniscono di solito anche dei cipollotti e dei pezzettini di lardo.

Bene. Il discorso potrebbe concludersi già qui, perché saremmo palesemente fuori tema. E invece. E invece, a detta degli stessi studiosi dell’eccellenza emiliana, sembra che questa preparazione abbia origini ebraiche. Ma questa è solo la conclusione (e neppure l’unica possibile) di un discorso da prendere un po’ più alla lontana.
Se dell’erbazzone non ci sono, pare, testimonianze scritte troppo remote, se non di competizioni tra chi lo sfornasse più buono ai primi del Novecento, della preparazione sommariamente descritta all’inizio si parlerebbe invece fin dall’epoca romana. Nell’Appendix Vergiliana, raccolta di carmi erroneamente attribuiti a Virgilio scritti pare nel I secolo a.C.., nell’idillio Moretum l’autore parla di una sorta di pesto di erbe, aglio e formaggio, che il contadino protagonista spalmerebbe poi sul pane. Il fatto che l’erbazzone sia chiamato anche morazzone (morazoun) ha fatto pensare a molti che, effettivamente, questo potesse essere il progenitore della nota torta salata.
Non tutti, però, ne sono convinti, specie perché, per come lo descrive anche Lucio Giunio Moderato Columella nel De Rustica, sembrerebbe trattarsi più di una salsa che di una torta. Di altre testimonianze la storia della gastronomia sarebbe comunque piena, specie nell’area romana, ma non solo. Tra gli esempi più clamorosi ci sarebbero quelli delle torte dette alla bolognese, riportate da Mastro Martino nel De arte coquinaria (1480) e Bartolomeo Sacchi, nel De honesta voluptate et valetudine (1465), e la turta de gee genovese. Ancora oggi molto apprezzata e considerata una versione semplice della pasqualina, quest’ultima prevede l’uso della pasta matta, a base cioè di sola farina, acqua e olio, stesa in due sfoglie farcite con uno strato di bietole e uno di prescinsêua, latticino ligure fresco chiamato anche quagliata. Non troppo lontano da lì, in Lunigiana, si incontra poi la torta d’erbi di Pontremoli, altra specialità a base di erbe miste selvatiche mescolate a pecorino o parmigiano e chiuse tra due strati di sfoglia.
Nonostante questi esempi, l’erbazzone è però considerato un unicum e viene comunque fatto derivare da altre tradizioni. In particolare, da quella ebraica, di cui le ricette indicate non sarebbero che dei lontani parenti, figli illegittimi di una pietanza che, partita dall’antica Roma, avrebbe lasciato traccia nelle diverse regioni da cui si era trovata a passare. A suffragare tale teoria ci sarebbe la ricchezza (in parte andata perduta, o se vogliamo assimilata) della cucina ebraico romanesca, alla quale apparterrebbero diverse ricette con le erbe, spesso amare, e, in particolare, torte che le usano come ripieno.

Su questo punto è doveroso aprire una piccola parentesi. Che le erbe amare siano un ingrediente inscindibile dalla cucina ebraica, in particolare di quella di Pesach, è un dato di fatto. Quali siano queste erbe è però materia di discussione tra gli stessi ebrei, figuriamoci tra gli storici gentili. Quando quindi si cerca una derivazione diretta tra la torta di erbe amare ebraica e una a base di biete (o spinaci) come l’erbazzone si rischia di scivolare in un equivoco. Nella composizione del maror indicato dal Talmud per ricordare l’amarezza della schiavitù in Egitto difficilmente si troveranno gli spinaci, foglie dal verde troppo intenso per essere definibili “grigiastre”, prive di linfa biancastra quando sono spezzate e piuttosto lontane dal poter essere definite amare. A questa categoria sarebbe più facile ascrivere la cicoria e le lattughe selvatiche, presenti pare presso l’antico popolo di Israele così come nella stessa cucina romana. Non tutto è perduto, però.
Se torta di spinaci non significa torta di erbe amare, è vero che la tradizione romana possiede comunque diverse torte d’erbe, una delle quali è riportata anche da Claudia Roden nel suo Book of Jewish Food. Preparata non solo con gli spinaci, ma anche con i piselli e i carciofi, vede il ripieno arricchito anche da uova. Ancora più simile all’erbazzone è la Mina de Espinaka, sempre citata nel suo saggio dalla studiosa dell’alimentazione ebraica. Torta tipica di Pesach presso la comunità spagnola nel mondo ottomano, la Mina è descritta come un doppio strato di azzime tra le quali trova posto un composto di spinaci, formaggio e uova, cotto poi in forno per compattare il tutto.
Quello che accomuna queste preparazioni è il periodo dell’anno in cui sono cucinate, quello della primavera, in cui si raccolgono gli spinaci migliori, nonché quello di Pesach o, nel caso dei cristiani, di Pasqua. Messo da parte il riferimento alle erbe amare, resta evidente il legame con le verdure a foglia verde, simbolo di rinascita ma anche, più prosaicamente, ingrediente piuttosto facile da reperire nei campi da aprile – maggio in poi.

Torniamo così al buon erbazzone. Tra le teorie più autarchiche, ci sarebbe quella che vuole tale delizia creata dal nulla da una rezdora, ossia una donna di casa emiliana, tanto brava a sfamare la famiglia quanto a far quadrare i conti, raccogliendo le erbe selvatiche e distinguendo non solo quelle commestibili, ma anche quelle più buone e salutari. A queste, la brava massaia avrebbe aggiunto quanto la sua dispensa metteva a disposizione, ossia del parmigiano e, come vuole la ricetta tipica, strutto al posto dell’olio d’oliva per l’impasto e pezzetti di lardo nel ripieno.
Poco convinti di questa versione, gli storici preferiscono vedere l’arrivo dell’erbazzone da altre vie, e precisamente da quelle dei monti. Suo progenitore ancora diffuso sarebbe infatti lo scarpazzone, realizzato usando le coste delle bietole (chiamate appunto scarpe, più dure rispetto alla foglia, ma capaci di farsi apprezzare se cotte a dovere) e, vista la penuria di frumento per la farina, spesso con un solo strato di pasta, quello di base, e a volte neppure con quello. Più alto rispetto all’erbazzone reggiano, lo scarpazzone d’altura avrebbe anche le uova a tenerlo insieme nonché, in alcune versioni, il riso. Paga delle mondine che scendevano quando era stagione nelle risaie, questo cereale sarebbe stato relativamente diffuso nelle cucine appenniniche finendo così anche nella loro torta salata.
Sceso a valle, il piatto avrebbe acquisito gli ingredienti che ancora oggi lo definiscono, tanto tipici quanto poco kasher, del lardo e dello strutto. Guadagnando pure una seconda sfoglia come copertura. Il corto circuito sarebbe di nuovo qui evidente, escludendo le derivazioni ebraiche, ma un nuovo elemento fa propendere ancora molti per questa teoria.

Tale elemento ha un nome e un cognome, e persino un soprannome. Parliamo di Federico Sacerdoti, detto il Salaméin, che aveva il suo forno in via dell’Aquila a Reggio Emilia, nel cuore del ghetto. Questo virtuoso della panificazione sarebbe diventato noto non solo per avere inventato le famose chizze reggiane, delizie di sfoglia fritta ripiene di parmigiano tra i vanti ancora oggi della cucina regionale, ma anche per avere diffuso l’erbazzone in città.
Già riconosciuta con questo nome, la torta evidentemente non doveva contenere ancora gli ingredienti incriminati di cui si è detto, ma non per questo era meno apprezzato dai clienti, anche non ebrei, del forno di Sacerdoti. Per capire come e perché la ricetta fosse arrivata fin lì, farebbe testo l’intricata storia delle comunità ebraiche stabilitesi nei domini estensi in epoca rinascimentale, ma anche di quelle siciliane e toscane. Ebrei italiani, giunti da Roma, e sefarditi, in fuga dai territori spagnoli o sotto la tutela degli Este tra Ferrara, Modena e Reggio, e dei Medici a Livorno, avrebbero tutti contribuito a creare quell’equilibrio di morbidezza e friabilità noto con il nome di erbazzone, chi portando la tradizione romana e spagnola delle torte salate, chi il sapiente uso di biete e spinaci, chi quello della pasta non lievitata. Un esempio, tra i tanti, di quanto la storia gastronomica non conosca confini né etichette, ma sia invece il risultato della collaborazione tra i popoli, forse inconsapevole ma certamente di grande successo.

Erbazzone all’olio

Ingredienti per 6
1,5 kg di foglie di biete (o di spinaci)
420 g di farina
100 g di parmigiano grattugiato
6 cipollotti
2 spicchi d’aglio
1 manciata di prezzemolo
olio extravergine d’oliva
sale
pepe in grani

Pulire e lavare con cura le foglie delle biete e cuocerle in una casseruola coperta con pochissima acqua e una spolverizzata di sale. Scolarle, lasciarle intiepidire, poi strizzarle e tagliuzzarle.
Sbucciare l’aglio e tritarlo con il prezzemolo, poi mettere da parte metà del battuto. Pulire i cipollotti privandoli della base e della parte verde delle foglie, poi tritarli e metterli in una larga padella con un filo d’olio e la metà del trito.

Rosolare a fiamma bassa e mescolando finché il soffritto inizia a imbiondire, quindi toglierlo dal fuoco e mescolarlo con le biete, il parmigiano e una macinata di pepe, impastando eventualmente con le mani, poi tenerlo da parte.

Setacciare 400 g di farina con un pizzico di sale, formare la fontana e versarvi al centro 50-60 ml di olio, poi iniziare a impastare sul piano infarinato unendo l’acqua tiepida necessaria a ottenere un composto della consistenza della pasta da pane.

Dividere l’impasto in 2 parti, una leggermente più grande dell’altra, e stenderle in 2 dischi di sfoglia sottile. Usare la più grande per foderare una teglia rotonda unta di olio, facendola sbordare, poi distribuirvi il composto di biete, compattandolo, e coprire con il secondo disco.

Ripiegare la pasta eccedente, sigillando il bordo e formando una cornice, poi spennellare la superficie con altro olio e spolverizzarla con il trito tenuto da parte. Cuocere l’erbazzone in forno già caldo a 200° per 30 minuti o, comunque, fino a quando sarà dorato in superficie.

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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