Cultura
A proposito di fascismo. Intervista a Claudio Vercelli

Di categorie storiche, etichettature facili e barattoli di marmellata. Dialogo sui totalitarismi in vista di un appuntamento al Festivaletteratura di Mantova

Cosa significa la parola fascismo oggi? Quali connotati ha nella dimensone nazionale attuale e in quella internazionale? Esiste realmente il pericolo che la storia si ripeta ripresentandoci il modello fascista come nuova realtà? Lo storico Emilio Gentile risponderà a questi interrogativi il 5 settembre al Festivaletteratura di Mantova, in un incontro dal titolo Il fascismo storico che prende spunto dal suo libro Chi è fascista? (ed. Laterza).

Noi ne abbiamo parlato con lo storico Claudio Vercelli, autore di Neofascismi (ed. Capricorno) e di L’anno fatale. Il 1919 da piazza San Sepolcro a Fiume, in uscita per l’editore Capricorno a fine settembre.

Cominciamo con la domanda centrale: cosa significa fascismo oggi?

Il Fascismo Storico è un periodo di tempo, un’esperienza politico-istituzionale ma anche sociale e culturale che si è esaurita. Interrogarsi sui rischi che una cosa del passato possa ripetersi nello stesso modo, onestamente non ha senso. La storia ci lascia dei tracciati importanti, ci dice come da certe premesse si possa arrivare a certe conseguenze, però la storia consta di eventi unici che non sono in sé irripetibili ma possono ripetersi per alcuni aspetti non certo per la loro sostanza. Il fascismo è un fenomeno storico che come si è avviato si è concluso.

In secondo luogo, il fascismo è un tipo di gestione fortemente autoritaria, dichiaratamente antidemocratica laddove la democrazia stava divenendo ormai la sostanza dei rapporti politici e sociali in Europa. Il fascismo è una risposta al fenomeno di trasformazione democratica delle società di massa alle quali imprime un tipo di indirizzo liberale, avverso alle istituzioni, basato sul consenso collettivo e sostanzialmente volto a un obiettivo molto preciso, quello di condizionare anche nel privato la vita delle persone. Un conto è un autoritarismo istituzionale, un altro è inserirsi nei pensieri della gente, nel suo modo di vedere le cose e questa è una caratteristica dei totalitarismi del ‘900: andare oltre il politico per entrare nel privato. Ora noi in Italia quella esperienza l’abbiamo fatta e ha segnato molto anche le generazioni successive. Ma è un’esperienza conclusa, difficilmente potrebbe ritornare con quelle caratteristiche.

Questa caratteristica dei totalitarismi di permeare la vita (e il pensiero) delle persone che effetti ha (o ha avuto) sulla società italiana?

C’è un calco, chiamiamolo così, un calco culturale o subculturale, ideologico che fa sì che nei momenti di difficoltà in certi paesi tra cui l’italia, quel modo rappresenti una tentazione per una parte dell’elettorato. Se il comunismo ha concluso la sua fase storica anche dal punto di vista dell’appetibilità, il fascismo no. Perché non è solo politica ma un modo di intendere rapporti sociali basati sul dominio e sul consenso. Ecco, quello non è finito con il regime fascista. L’Italia è stata modellata da quel regime, soprattutto se si considera che nel 1919 era un paese piuttosto povero, dopo una Guerra mondiale gigantesca, fatto principalmente di contadini, era un’Italia che cominciava a praticare una difficile democrazia di massa. Su quell’italia il fascismo è intervenuto e ha incapsulato letteralmente le istituzioni, costruendo un percorso identitario. Non c’è bisogno di essere un fascista con la camicia nera per sentirsi a volte vicini a quell’esperienza, sentirsi rassicurati. Il fascismo ai suoi, a chi lo accetta anche solo passivamente, dice: io ti voglio rassicurare, non ti voglio inquietare. È inquietante vederlo da fuori ma chi ci sta dentro, anche solo come simpatizzante, di fondo si sente rassicurato da quella immagine di forza e di violenza che è l’autorità.

A chi parla l’autoritarismo?

Il tipo del fascismo è l’individuo-massa che ha bisogno di essere rassicurato costantemente e deve sentirsi dire: ci penso io per te, tu non pensi da solo, ti garantisco qualcosa. Quello che il fascismo cercava di realizzare era anche una società assistita che non avesse nessuna autonomia, che dipendesse dagli apparati pubblici, aveva una componente sostanzialmente statalista perché in questo modo garantiva e fidelizzava il consenso a se stesso. Però tutto questo richiede che le persone non siano autonome.

Utilizzare la categoria “fascismo” oggi va a detrimento della democrazia?

Emilio Gentile parla di a-storiologia. Cioè, invece di fare storiografia, che è quello che fanno gli storici, magari una cosa un po’ accademica, o invece di fare storia, che implica una comunicazone sciolta però certamente rigorosa, si mettono delle etichette su certi fenomeni come fossero barattoli di marmellata. Allora in linea di principio questo tipo di obiezione è assolutamente condivisibile. Ma io credo che più che esecrare questa facilità con la quale si etichettano le cose, dobbiamo interrogarci sul perché continuiamo a usare parole come fascista o comunista dando una connotazione profonda e identitaria ad atteggiamenti e comportamenti collettivi e individuali. Quei regimi, quello fascista e quello comunista, hanno lasciato una sorta di egemonia culturale sulle menti delle persone. E l’uso improprio di quelle parole rivela la presenza di quell’onda lunga che non si è esaurita soprattutto in Italia per quanto riguarda il fascismo. Finiscono i capi di quel regime, però poi ci sono milioni di italiani che si sono formati anche professionalmente in ambienti che se non erano completamente fascisti erano comunque fascistizzati. E allora quella cultura civile rimane nella società e viene poi proiettata in varie forme e vari modi anche nelle generazioni successive. Non è un problema di regime politico, ma è un modo di vedere la realtà che persiste e permane in alcuni strati della popolazione e nei momenti di difficoltà sembra un’ancora di salvataggio.

Quali sono le parole che attivano questo pensiero?

Le trasformazioni economiche, la crisi del ceto medio che avviene quando cambia l’economia portano a moti di regressione. Allora la ricerca di qualcuno che salvi la patria, salvi il popolo, rassicura. Il tema del capo, un tema fascista ma caratterizzante tutti i movimenti totalitari, il capo che ha la coscienza, quasi una figura un po’ messianica, che da solo capisce quali sono i problemi degli altri e provvede, riattiva quel modo di pensare. Le parole che attivano questo tipo di reazione erpetica son appunto capo come leader indiscusso e incontrastato che non può essere cambiato se non detronizzandolo con una congiura. Poi, la parola autorità intesa in maniera gerarchica, non come qualcosa che effettivamente tutela le persone, ma come qualcosa che si pone al di sopra delle persone e impone la sua volontà; quindi, gerarchia, cioè l’idea che ci siano individui, molti, destinati a essere subalterni a una aristocrazia dello spirito, per cui i migliori devono governare senza essere scelti da coloro che governano perché sono tali per natura, hanno qualità innate e quindi non possono essere messi in discussione dal resto della società.

E i populismi attuali?

Il populismo potrebbe sciogliersi nel tempo. Non voglio sottovalutarli i populismi però neanche enfatizzarli, intanto non riescono a essere un movimento continentale, sono partiti che hanno fortune alterne a livello nazionale ma non riescono a coagularsi.

Qual è il ruolo dello storico?

Il ruolo dello storico non è un ruolo morale, la storia non si fa con la morale. Piuttosto, è quello di aiutare a comprendere attraverso la lettura del passato aspetti del presente. Benedetto Croce diceva che la storia è sempre quella contemporanea perché la lettura del passato serve per cogliere aspetti del presente, non per trovare le analogie ma per capire quali sono le chiavi di lettura. Dunque il ruolo dello storico se vogliamo è anche un po’ politico, perché indirizza i pensieri le opinioni delle persone e le aiuta a costruirsi una identità personale e collettiva che senza una cognizione del passato non può esserci.

Micol De Pas

È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.


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