Cultura
“Fashioned By Sargent”, arte e stile del pittore John Singer Sargent in mostra

Cinquanta opere dello stylist ante litteram che ha raccontato l’alta società ebraica in una esposizione a Boston (che poi raggiungerà Londra)

La relazione tra il pittore John Singer Sargent e l’alta società ebraica della sua epoca è un tema che emerge immancabilmente in occasione di ogni sua mostra. In quelle monografiche come in quelle, come la recente The Sassoons  al British Museum of New York, in cui compaiono anche solo alcune sue opere. Nato a Firenze nel 1856 da genitori statunitensi e cittadino del mondo per il resto della sua vita, Sargent è ora protagonista fino al 15 gennaio 2024 di una sontuosa esposizione al Museum of Fine Arts di Boston. Intitolata Fashioned by Sargent, questa retrospettiva comprende cinquanta opere del grande ritrattista, poche se confrontate ai circa 1400 ritratti della sua produzione complessiva, abbastanza per inquadrare quella che era una sua caratteristica distintiva. Quella cioè di agire come una sorta di stylist ante litteram per i suoi modelli, vestendoli con costumi, stoffe e accessori che diventavano poi i co-protagonisti del dipinto. Un protagonismo, sia chiaro, che non era meramente formale, ma che tanto diceva della posizione, del carattere, della professione e dell’ambiente dei suoi soggetti.

Accanto ai dipinti, nelle sale del museo di Boston si troveranno esposti così anche alcuni di quei vestiti, in certi casi originali, conservati gelosamente dalle famiglie degli eredi, in altre fedeli riproduzioni. Al di là della maestria di quello che Auguste Rodin chiamava il Van Dick del suo tempo, quello che spicca anche in questa mostra è l’intimo rapporto di collaborazione che lo legava ai suoi committenti, molti dei quali ebrei. Si parla di un’epoca, quella tardo vittoriana e poi edoardiana, in cui la buona società inglese vedeva affacciarsi al suo mondo dorato famiglie ebraiche che avevano raggiunto quando non superato le sue ataviche ricchezze.
Inizialmente autodidatta, Sargent aveva studiato nelle tante gallerie d’arte europee che la madre lo aveva spinto a visitare per poi frequentare l’Accademia di Belle Arti di Firenze, l’École des beaux-arts di Parigi e l’atelier del ritrattista Carolus-Duran, grande fan dell’olandese Frans Hals e dello spagnolo Diego Velázquez. Estremamente dotato, il giovane aveva ricevuto sin dai primi anni sia l’ammirazione dei suoi compagni di studi sia del mondo alto borghese intorno a cui, nonostante le iniziali ristrettezze economiche, si trovava istintivamente a gravitare. Tra i rappresentanti di questo mondo, i membri di diverse illustri famiglie ebree quali i Sassoon, i Meyer, Mathilde e Leopold Hirsch, Asher e Flora Wertheimer.

Come ricorda il magazine Moment, che dedica alla mostra un interessante servizio, gli storici tendono ad attribuire questa affinità elettiva a una sorta di vicinanza emotiva. Così come Sargent, americano espatriato e gay dichiarato, doveva combattere nonostante l’indubbio talento con i pregiudizi e lo snobismo dell’antica alta società europea, così anche i suoi amici e mecenati, nonostante i traguardi sociali ed economici ottenuti, dovevano ancora vedersela con la diffidenza di certa aristocrazia. Caso emblematico di questa sgradevole posizione è rappresentato dal ritratto di Adele Meyer e dei suoi figli. Già protagonista alcuni anni fa di una mostra al Museo Ebraico di New York, questo straordinario dipinto del 1896 ha fatto discutere sia i critici sia i cronisti sociali dell’epoca. Il motivo è la dama rappresentata, il suo aspetto e la curiosa posizione in cui è seduta su un divanetto, in un equilibrio instabile compensato solo dai due figli che sembrano impedirle di scivolare tenendola per il braccio. Visto dai più maligni come il simbolo di una precarietà anche sociale, questo quadro attestava in realtà il prestigio raggiunto da Adele, filantropa e sostenitrice delle arti oltre che del suffragio femminile, e di suo marito Carl, nato ad Amburgo ed emissario della banca Rotschild a Londra. Pochi anni dopo, nel 1903, i due avrebbero acquistato nell’Essex la tenuta di Shortgrove, entrando a tutti gli effetti a far parte della “nobiltà terriera” inglese, mentre nel 1910 Carl acquisirà il titolo di baronetto.
Tornando al ritratto, dominato dalla immensa veste rosa della donna che occupa gran parte dello spazio, questo era stato esposto nel 1897 alla Royal Academy of Arts ricevendo giudizi pressoché unanimi sul fronte artistico ma anche critiche feroci al suo soggetto. Tra i più grandi estimatori di Sargent figurava lo scrittore Henry James, che in un lungo scritto apparso quello stesso anno su Harper’s Weekly, scrisse: “Mr Sargent ha realizzato un quadro di straordinaria insolenza di talento e verità di caratterizzazione, una meravigliosa resa della vita, dei modi, degli aspetti, dei tipi, delle trame, di tutto”. Meno lusinghieri i giudizi di chi, accecato dall’antisemitismo, non vedeva nel quadro che l’occasione per esprimere la pochezza dei propri pensieri. Tra questi, il critico che su The Spectator aveva scritto: “Nemmeno l’abilità del signor Sargent è riuscita a rendere attraenti questi europei dell’est ultra civilizzati” o un altro che su un altro giornale due anni dopo scriveva: “Diecimila dollari non erano molti per un multimilionario israelita disposto a pagare per garantire il riconoscimento sociale alla sua famiglia”.

Curiosamente, una ventina di anni dopo sarà lo stesso Sargent a essere tacciato di antisemitismo a causa del ciclo di affreschi che ricoprono le pareti della Biblioteca Pubblica di Boston, ritenuta la Cappella Sistina d’America. Restaurata all’inizio di questo secolo, questa monumentale opera realizzata dall’artista tra il 1895 e il 1919 rappresenta l’evoluzione della religione nel tempo. Ma se la prima parte dell’opera ritrae degnamente i personaggi biblici e offre agli avventori ebrei della biblioteca una confortante visione della loro fede nonché una calda sensazione di appartenenza, la sua ultima sezione aveva finito con il suscitare le più aspre critiche da parte della società ebraica (e non solo da quella). Nel pannello intitolato Sinagoga si vede infatti una figura maschile prostrata, con gli occhi bendati, una corona di traverso e uno scettro spezzato. Al suo fianco, l’opera Chiesa propone al contrario una figura splendente, vincente e dallo sguardo fiero. Conscio a suo stesso dire di essersi cacciato in una pessima posizione presso gli ebrei, pare che Sargent non avesse fatto comunque granché per calmare le acque, limitandosi a spiegare di essersi ispirato all’iconografia delle grandi cattedrali cristiane francesi.

Prima di questo infelice epilogo, Sargent aveva al contrario accompagnato ed esaltato i traguardi ottenuti dai suoi amici ebrei. E la mostra in corso a Boston non fa che ricordarlo. Accanto al ritratto di Adele si trovano importanti prove dell’intensa e proficua collaborazione con la famiglia del mercante d’arte Asher Wertheimer, che commissionò all’artista dodici ritratti di sua moglie e dei suoi dieci figli. Diventato negli anni sincero amico dei Wertheimer, pare che Sargent fosse affezionato soprattutto alle figlie del mercante, di cui ammirava la vivacità. A questo proposito il poeta Wilfrid Scawen Blunt avrebbe scritto nel suo diario, riferendosi al pittore: “Ora non dipinge altro che ebrei ed ebree e dice che li preferisce, poiché hanno più vita e movimento delle nostre donne inglesi”. A parte le parole di parte e parziali, anche considerato che Sargent aveva in realtà un numero comunque maggiore di clienti non ebrei, è indiscutibile che almeno in casa Wertheimer l’artista fosse stregato dall’energia della figlia maggiore di Asher, Ena. Diventatone amico, Sargent la ritrasse in due dei ritratti in mostra a Boston. Uno di questi, noto con il titolo in italiano di A Vele Gonfie, risale al 1904 ed esprime in modo straordinario l’esuberanza della donna, ritratta sorridente di tre quarti nell’atto di gettare sulla spalla un mantello nero che la ricopre quasi interamente. Questo capo di abbigliamento, così come il cappello bianco piumato che porta in testa, erano tipici dei membri dell’Ordine della Giarrettiera della monarchia britannica, che all’epoca ammetteva solo appartenenti al genere maschile. Commissionato in occasione delle nozze di Ena con il finanziere Robert Moritz Mathias, il quadro sarebbe stato segretamente venduto anni dopo dalla effettivamente spumeggiate Ena, bisognosa di finanziare una sua galleria privata, ma recuperato in extremis dal marito.

Era sempre un mantello ma questa volta indiscutibilmente femminile quello che adornava invece la socialite francese Aline Caroline de Rothschild, figlia di Cécile Anspach e del barone Gustave de Rothschild. Il ritratto di Lady Sassoon dà sfoggio di sé nella prima sala della mostra insieme al cappotto da opera in taffetà nero foderato in seta rosa originale appartenente da anni alla famiglia della dama. Non parliamo di un campione del tessuto originale ma di qualcosa che gli va molto vicino nel caso del costume in stile Velázquez con cui posò la collezionista ebrea britannica Mathilde Hirsch, mentre per chiudere l’esposizione è stato scelto il ritratto nuziale di Sybil Sassoon, figlia di Aline e contessa di Rocksavage. Anche qui lo sguardo intenso della donna ritratta è il primo elemento che colpisce l’osservatore, che poi può concedersi di indugiare anche sul vestiario, uno scialle del Kashmir che pare fosse uno degli oggetti di scena preferiti del pittore. Simbolo di un Oriente che all’epoca evocava misteri e bellezze, ma che veniva anche sprezzantemente affiancato all’immagine degli immigrati ebrei, questo lussuoso capo assume nell’opera solo connotazioni nobili, completando degnamente l’eleganza della bella e fiera sposa.
La mostra di Boston si concluderà il 15 gennaio, per poi raggiungere Londra, al Tate Britain, dove potrà essere visitata dal 22 febbraio al 7 luglio 2024.

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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