itinerari
Genova e le sue storie ebraiche

Sembra che già nel VI secolo gli ebrei si siano stabiliti nel capoluogo ligure. Viaggio tra passato e presente nei luoghi della vita ebraica locale

Genova non è una città che si concede facilmente. Difficile capire la Superba al primo sguardo, irrispettoso pretendere di conoscerla. La Genova ebraica non fa eccezione. La sua storia affonda le radici nell’antichità, si pensa nel VI secolo, anche se una comunità propriamente detta risale solo (si fa per dire) al Seicento. Ma di questi lunghi secoli poco è rimasto visibile agli occhi più distratti. E anche quelli più attenti devono faticare non poco…

La Sinagoga, luogo di preghiera per la comunità cittadina e sede dei suoi uffici, è ad esempio aperta al pubblico solo in occasioni speciali, come avvenuto per la Giornata Europea della Cultura Ebraica, nel settembre scorso. L’annesso Museo Ebraico, creato nel 2004 in quelle che in tempo di guerra erano state le scuole, è invece temporaneamente chiuso. Un vero peccato, perché accanto alle mostre didattiche che periodicamente vi sono allestite, vi si potrebbero ammirare le opere di Emanuele Luzzati donate dall’artista alla comunità genovese.
In attesa di potervi accedere liberamente, al visitatore resta la possibilità di ammirare esternamente l’imponente struttura del tempio di via Bertora 6, costruito nel 1935 su progetto dell’architetto Francesco Morandi. Vista da fuori, la Sinagoga si presenta come un massiccio edificio di forma squadrata, in cemento armato rivestito da bozze di pietra di Finale. Sovrastato da una cupola centrale con quattro semicupole a calotte ribassate laterali, presenta finestre lunghe e strette, con un rosone sopra il portale centrale di accesso. Superiormente alla vetrata rotonda troneggiano le Tavole della Legge e corre la scritta tratta da Isaia 56,7: “Perché la mia casa sarà casa di preghiera per tutti i popoli”. Leggermente in salita (come del resto quasi tutto qui a Genova), lo spiazzo esterno alla Sinagoga è chiuso da una cancellata con fregi a forma di candelabro a sette bracci. Al suo interno si trova anche il cippo che ricorda Riccardo Pacifici, rabbino capo di Genova dal 1936 al giorno della sua cattura da parte dei nazisti, avvenuta il 3 novembre 1943.

Alla nobile figura di Pacifici il Comune di Genova nel 1966 ha dedicato una piazza di Castelletto, il quartiere sulle alture della città raggiungibile da una scalinata posta sul retro della stessa Sinagoga. Sempre in sua memoria, il 29 gennaio 2012 è stata collocata una pietra di inciampo sul marciapiedi davanti alla Galleria Mazzini (sul lato del Teatro Carlo Felice). È in questo luogo che Pacifici, rimasto a Genova dopo aver tentato di mettere in salvo i figli e la moglie in Toscana, fu arrestato dalle SS. Costretto a vivere nascosto in una camera con cucina messagli a disposizione dal cardinale Pietro Boetto, il rabbino aveva rifiutato di abbandonare gli ultimi suoi correligionari rimasti in città, che continuava a incontrare segretamente in Sinagoga. Ai primi di novembre però un gruppo degli ultimi ebrei di Genova era stato catturato dai nazisti proprio sul piazzale di via Bertora e Pacifici, che ignaro di tutto aveva dato appuntamento al custode del tempio, al posto dell’uomo aveva trovato le guardie. Sarebbe stato assassinato ad Auschwitz l’11 dicembre 1943. In tutto, furono 261 gli ebrei di Genova deportati, e solo 20 avrebbero fatto ritorno dai campi. A memoria delle vittime dei nazisti, camminando per la città si possono distinguere in terra diverse targhette di ottone, chiamate appunto pietre di inciampo, cementate davanti alle abitazioni o al luogo di cattura dei deportati assassinati.

Prima di quel terribile autunno del ’43 la città di Genova era stata un punto di riferimento fondamentale per i tanti ebrei che a partire dagli anni Trenta avevano tentato la fuga dal regime nazista dalla Germania e dall’Europa centrale. Era nel capoluogo ligure infatti che operavano i volontari della Delasem, la società di soccorso per i profughi ebrei istituita su iniziativa dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane e qui diretta da Lelio Vittorio Valobra. Dopo avere aiutato tanti a sfuggire alle persecuzioni riparando in America, Spagna e Francia, l’organizzazione alla fine della guerra aveva poi consentito a quanti erano scampati dai campi di raggiungere clandestinamente la Palestina.

Tornando alla Sinagoga, si può vedere in essa il simbolo di una comunità che all’epoca della sua edificazione aveva raggiunto cifre imponenti, con una popolazione che superava le duemila unità. Bene inseriti nel contesto sociale ed economico della città, gli ebrei di Genova alla fine degli anni Venti del Novecento avevano sentito l’esigenza di un luogo di preghiera più ampio rispetto all’oratorio allestito presso le Mura di Malapaga, nella zona dove dai primi del Settecento si era concentrata la comunità. Posta nei pressi del porto, questa non era propriamente un ghetto, quanto un luogo in cui i pochi ebrei che ai tempi vivevano a Genova si erano trasferiti a fine Seicento. Si trattava perlopiù di rigattieri e piccoli commercianti, appena un centinaio di persone che erano rimaste in città nonostante la promulgazione, nel 1675, delle ennesime regole restrittive che avevano fatto partire la maggior parte dei loro correligionari. Oggi delle loro case non è rimasta traccia, così come della vecchia sinagoga di via Malapaga 6, che è stata distrutta dai bombardamenti e i cui mobili sono stati trasferiti in via Bertora.

Per fare un altro passo a ritroso nel tempo bisogna lasciarsi il mare alle spalle e risalire verso quella che era la piazza dei Tessitori. Per la verità ufficialmente lo sarebbe ancora, anche se ormai inglobata nei moderni Giardini Emanuele Luzzati; un luogo simpatico di aggregazione con localini e spazi di gioco, ma che del tempo che fu non reca memoria. Era qui che si trovava uno degli antichi ghetti di Genova, il secondo in ordine di tempo, rimasto in funzione fino al 1679. Le case in cui gli ebrei erano costretti a risiedere si concentravano tra vico del Fico e vico Biscotti, ma anche questi, come piazza dei Tessitori, sono stati oggi ridisegnati. Più facile immaginare i tempi antichi percorrendo la ben più nobile (e cupa) via dei Giustiniani, esterna al ghetto anche se attigua. È qui che la famiglia Sacerdote aveva preso illegalmente dimora suscitando non pochi mugugni, come si dice qui, ma nessuno sfratto (pare).
Addentrandosi ulteriormente nei carruggi si fa ancora un salto indietro negli anni. Si arriva così a quel primissimo nucleo ebraico di cui si diceva in partenza, affermatosi in città grazie all’apertura del Porto Franco nel 1648. Prima, mercanti e profughi avevano potuto solo passare dalla città senza il permesso di risiedervi. Con la costituzione di una prima comunità sarebbe arrivato però anche l’ordine di separazione dal resto della cittadinanza e quindi l’obbligo di residenza in un ghetto. Oggi non restano segni di cancelli o di altre strutture che testimonino la segregazione, ma si sa che le case degli ebrei si concentravano nell’area del vecchio porto, in quell’intrico di vicoli che circonda e avvolge via di Pré.

Immaginare il passato qui non è in compenso troppo difficile, anche perché, nonostante i ripetuti restauri, i carruggi mantengono pervicacemente la loro anima meravigliosamente scalcagnata. L’itinerario può partire dall’ampia e luminosa piazza della Nunziata e da qui scendere in piazza Santa Sabina per poi addentrarsi nello stretto vico superiore di Santa Sabina. Da qui a via del Campo è questione di pochi passi, così come a piazza Vacchero, dove il leone della fontana asciutta osserva impavido le vetrine di alimentari indiani, parrucchieri africani e telefonia internazionale. Da qui parte quello che un tempo si chiamava vico degli Ebrei e che oggi è invece vico del Campo. In questa strada dove il cielo è spesso solo una feritoia azzurra si possono distinguere nei palazzi seicenteschi mezzi scrostati delle polverose nicchie vuote. Pare che ai tempi accogliessero i crocifissi imposti dalle autorità della Repubblica agli ebrei che abitavano in queste come nelle case delle viuzze laterali, da vico di Untoria (al cui angolo sembra si trovasse la sinagoga) a vico dei Fregoso.

Passando infine dal passato all’eternità, non si può lasciare Genova, perlomeno quella ebraica, senza avere fatto una puntata al suo cimitero. L’attuale occupa dal 1886 due settori di quello monumentale di Staglieno, principale luogo di sepoltura della città e tra i più importanti in Europa. Prima, la comunità cittadina inumava i propri cari in quello che era denominato La Cava, vicino al lungomare Aurelio Saffi, nell’attuale via Corsica; precedentemente, nel Settecento, il cimitero ebraico si trovava nella spianata di Castelletto, vicino alle antiche mura. Oggi la visita a Staglieno è un’esperienza emozionante anche per un semplice turista. La sua parte più antica è annunciata da una imponente arcata di marmo sulla quale sono incisi i nomi dei deportati ebrei genovesi. All’interno, spesso seminascoste da una vegetazione indisciplinata, si distinguono tombe semplicissime accanto ad altre sontuose e monumentali. Alcune lapidi, le più antiche, sono state trasportate qui dai cimiteri precedenti e non sempre è facile leggervi le iscrizioni. Altre invece sono relativamente più recenti, anche se, visto l’affollamento, negli ultimi decenni le inumazioni avvengono in un settore più alto. Raggiungibile, naturalmente, salendo una ripida gradinata.

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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