Cultura
Grano e sangue: l’ebraismo bielorusso tra Ottocento e Novecento – 2

All’inizio dell’invasione della Russia da parte dei nazisti, molti non avevano pienamente compreso che per Hitler l’equazione tra ebraismo e bolscevismo era tale da rendere indistinguibili l’uno dall’altro

A seguito dell’annessione sovietica del 1939 di quella parte del territorio polacco che comprendeva la Bielorussia occidentale, la popolazione ebraica autoctona arrivò quasi a triplicare. Nel giugno 1941, ossia all’inizio dell’«Operazione Barbarossa», in Bielorussia risiedevano quindi oltre un milione di ebrei: 670 000 nella regione che era stata polacca e 405 000 nella regione già in origine sovietica. L’8 luglio 1941, Reinhard Heydrich, capo dell’Ufficio per la sicurezza del Reich e vero dominus delle operazioni di assassinio di massa, ordinò che tutti gli ebrei maschi nei territori occupati, di età compresa tra 15 e 45 anni, fossero fucilati a vista alla pari dei partigiani sovietici. Ad agosto, le vittime prese di mira nelle uccisioni in massa inclusero definitivamente le donne, i bambini e gli anziani. Iniziava la mattanza, che si sarebbe conclusa in circa due anni di tempo,  con la morte di più del 90% della popolazione ebraica bielorussa. Di essa, un quarto era composta da bambini. Peraltro, in quei luoghi furono assassinati anche 55mila ebrei provenienti da occidente e deportativi per la loro eliminazione.

L’aggressione tedesca del 22 giugno 1941 aveva peraltro colto i sovietici di sorpresa. Da subito, malgrado l’ampio dispiegamento numerico, l’Armata rossa  dovette quindi iniziare una serie di rovinosi ripiegamenti, perdendo un numero gigantesco di uomini e materiali. La Bielorussia era nella direttrice del gruppo di armate B, quella parte di forze naziste che, nelle iniziali intenzioni, avrebbero dovuto raggiungere Mosca nel più breve tempo possibile. Le altre forze erano invece impiegate per la presa di Leningrado (il gruppo A) e per la conquista del meridione sovietico, fino al Caucaso (il gruppo C). Si trattava di un piano tanto enfatico quanto effervescente. Enfatico per gli obiettivi da raggiungere, che avrebbero dovuto dimostrare la capacità offensiva globale della Germania; effervescente, e ai limiti della incoscienza, per le modalità su cui si basava, stravolgendo l’idea stessa di guerra come confronto tra fronti contrapposti, sostituta dalla mobilità totale, ai limiti dello sfiancamento di tutto e di tutti. Una sorta di immane rullo compressore doveva muoversi contro l’Urss, intesa come una potenza “ebraica”, da disintegrare.

Almeno tre milioni di combattenti erano impiegati dal Terzo Reich, contando peraltro su alcuni fattori strategici: la velocità, garantita dall’elevata mobilità, dei reparti; l’inferiorità tecnologica e operativa dei sovietici, malgrado l’elevato numero di soldati a disposizione; la supposta fragilità politica del regime di Stalin che, secondo i calcoli di Hitler e di una parte delle élite politico-militari del Terzo Reich, dinanzi alle ripetute spallate avrebbe dovuto mollare la presa nel volgere di qualche settimana; il concorso dei nazionalisti locali, ed in particolare di quelli baltici e ucraini, da sempre dichiaratamente antibolscevichi; la potenza del colpo di maglio inferto ai sovietici, in una guerra che era presentata come una lotta per l’autoaffermazione della «razza ariana» di contro alla sub-umanità di quella ebraica (che aveva creato il comunismo) così come all’inferiorità di quelle slave (assoggettate, per la loro stessa debolezza morale, etno-razziale e quindi ontologica, al giogo di Mosca).

La Bielorussia divenne da subito terreno di conquista tedesca. Brest venne quasi immediatamente abbandonata dai sovietici mentre nelle prime sette settimane di invasione la grande maggioranza delle città cadde in mano agli occupanti. L’ultima tra di esse fu Gomel, conquistata l’11 agosto. Nello stesso mese di fatto l’intera ex repubblica sovietica era sotto il tallone nazista. La ritirata russa dalla Bielorussia, di contro a quanto avvenne in altre repubbliche e regioni (a partire dall’Ucraina), si tradusse quasi da subito in una rotta totale. Mentre già il 24 giugno il governo locale abbandonava in gran segreto Minsk, la fuga dei civili dalla Bielorussia occidentale di fatto fu resa impossibile dall’inesistenza di qualsiasi preavviso, posto che nessun ordine di evacuazione venne mai ufficialmente emesso. Nella Bielorussia orientale, dove il tempo fu invece maggiore, solo alcune componenti della popolazione urbana ebraica riuscì a incamminarsi verso est, mentre nelle campagne di fatto buona parte di essa rimase al suo posto. Non solo le autorità sovietiche si rivelarono impreparate, se non latitanti, ma l’inconsapevolezza del pericolo costituito dall’avanzata nazista era tale da fare sì che i più ritenessero meno rischioso fermarsi piuttosto che abbandonare i propri luoghi di origine. Rimane poi il fatto che un tale trasferimento di massa era comunque intralciato, se non spesso materialmente impedito, dai movimenti delle truppe, dall’intasamento delle vie di comunicazione, dalla mancanza di precise informazioni sulla condizione del fronte (la cui linea era in costante movimentazione e spostamento), dalla frantumazione delle abituali gerarchie comunitarie che avrebbero dovuto invece garantire un minimo di coordinamento.

Tutto avvenne quindi in maniera frettolosa se non convulsa. L’effetto di spiazzamento e confusione era pressoché totale in buona parte dei casi. Inoltre, molti bielorussi, a partire dalla stessa popolazione ebraica, confidavano nel fatto che l’avanzata tedesca sarebbe stata prima o poi arrestata, attendendosi semmai una controffensiva sovietica in larga scala. Altri ancora, illudendosi e auto-ingannandosi, si dissero che ciò che stava per capitargli non sarebbe poi stato peggiore di quanto era già avvenuto alla generazione precedente, durante la Prima guerra mondiale. Un regime di occupazione, si rassicuravano, non si sarebbe spinto oltre i limiti funzionali al controllo delle terre conquistate. Molti non avevano pienamente compreso che per Hitler l’equazione tra ebraismo e bolscevismo era tale da rendere indistinguibili l’uno dall’altro. Non di meno, il clima da isterica crociata che stava permeando l’intera impresa militare faceva sì che per i conquistatori non si trattasse solo di acquisire il dominio delle regioni occidentali dell’Unione Sovietica bensì di dare seguito ad una Weltanschauungskrieg, letteralmente una «guerra tra concezioni del mondo» radicalmente opposte: da una parte quella etno-razzista promossa dai nuovi «signori del mondo» e dall’altra quella che questi ultimi attribuivano al Weltjudentum, ossia ad un ebraismo mondiale intento a corrompere la naturalità della vita umana, dominata dalla separazione delle razze e dal dominio di quella ariana.

Circa 900mila ebrei bielorussi finirono così nelle mani dei nazisti, per buona parte inconsapevoli del destino che li attendeva di lì a breve. Nei piani di occupazione dell’Est europeo le autorità tedesche avevano assegnato ai territori bielorussi l’Einsatzgruppen B (parte di quattro gruppi operativi), agli ordini del generale delle SS Arthur Nebe e composto da sei unità, ovvero i Sonderkommando 7a, 7b, 7c e gli Einsatzkommando 8 e 9, insieme al Vorkommando Moskau (la funzione di quest’ultimo era, qualora Mosca fosse stata occupata, di operare al suo interno). Nel suo complesso non si trattava di reparti di grandi dimensioni ma tutti dotati di una grande mobilità e, soprattutto, determinati nei compiti di cui erano depositari, ossia l’eliminazione fisica degli ebrei, «diffusori del bolscevismo», così come di chiunque fosse giudicato potenzialmente pericoloso per gli interessi degli occupati. Oltre alle SS, ad elementi della polizia militare, a figure operative della SD (il «servizio di sicurezza» delle SS), alla cosiddetta Orpo, la polizia dell’ordine, potevano essere occasionalmente aggregati anche militari della Wehrmacht, ma quasi sempre in ruolo di supporto e non di diretta azione. Per raggiungere efficacemente l’obiettivo dello sterminio, inoltre, anche in Bielorussia ci si avvalse dell’operato di alcuni collaborazionisti locali, anche se il grado di compromissione non fu pari a quello delle numerose unità nazionaliste lettoni, lituane e ucraine, postesi immediatamente al servizio dei nazisti. A tale riguardo già alla fine di giugno del 1941 Reinhard Heydrich aveva avuto modo di affermare che «non devono essere ostacolati i tentativi di bonifica da parte di elementi anticomunisti o antisemiti nelle aree che saranno occupate. Al contrario, devono essere incoraggiati, ma senza lasciare tracce, in modo che queste milizie di autodifesa non possano rivendicare in seguito di aver ricevuto ordini o [fatte] concessioni politiche. […] Per ovvie ragioni, tali azioni saranno possibili solo durante la fase iniziale dell’occupazione militare».

Fin dai primi giorni di guerra l’Einsatzgruppen B si adoperò attivamente nel suo compito: a Brest, su una popolazione di 26mila ebrei, tra il 28 e il 29 giugno 5mila di essi furono assassinati. A Minsk, occupata il 28 giugno, 3mila elementi furono immediatamente fucilati. A Pińsk, nei primi giorni di agosto la medesima sorte toccò a 4.500 vittime. Una scia di sangue ben presto attraversò l’intera Bielorussia. Coloro che non venivano trucidati nella «Shoah delle pallottole» – la fucilazione in massa e l’occultamento dei corpi nelle grandi fosse comuni – erano avviati ai ghetti, repentinamente istituiti in quanto luoghi di concentramento dei sopravvissuti e di loro subordinazione al lavoro forzato. Dal punto di vista amministrativo il territorio dello Stato bielorusso fu brutalmente sezionato. Mentre piccoli e grandi centri urbani venivano presidiati dalla polizia tedesca e da guarnigioni di soldati ritenuti non adatti ai combattimenti in prima linea, la Bielorussia orientale rimase di fatto sotto la giurisdizione delle autorità militari. I distretti di Bialystock e Grodno furono invece considerati come unità amministrativa a sé stante. La Bielorussia meridionale, ovvero la Polesia del sud, fu incorporata nel Reichskommissariat Ukraina mentre ciò che restava dei territori ricadde sotto il controllo del Reichskommissariat Ostland. Il frazionamento del paese rispondeva sia all’esigenza di un ridisegno globale dei suoi territori in rapporto agli obiettivi dell’occupante sia in quanto risultato dei conflitti di potere tra le diverse amministrazioni naziste.

La prima ondata di terrore contro gli ebrei si concluse nell’estate del 1941. Peraltro, già il 15 luglio era stato ordinato agli ebrei di indossare una stella gialla sugli indumenti, mentre cinque giorni dopo veniva annunciata la creazione del ghetto di Minsk, destinato a divenire la più grande agglomerazione forzata di ebrei nell’Unione Sovietica occupata, comprendendovi almeno 100mila prigionieri (mentre a Babrujsk erano 25mila, a Vicebsk 20mila, a Mahilëŭ 12mila, a Gomel oltre 10mila, a Sluck 10mila, a Borisov 8mila e a Polack 8mila, oltre ad una costellazione di ghetti minori). Nel complesso la politica di annientamento nazista con l’autunno del primo anno di occupazione si incamminò sulla via della separazione della componente ebraica sopravvissuta dalla parte restante della popolazione, attraverso il confinamento in luoghi separati e lo sfruttamento per il tramite del lavoro coatto. A ciò si accompagnava l’azione di sistematica rapina dei beni. In buona sostanza gli ebrei bielorussi oltre ad essere sottoposti ad un quotidiano regime di inaudite vessazioni si videro privati di qualsiasi residua protezione legale. I duecento ghetti di grandi, medie e piccole dimensioni che costellavano la Bielorussia costituivano quindi il corollario di questa prassi di annientamento attraverso lo sfruttamento e lo sfinimento.

Come successe in altri paesi occupati anche in questo caso coloro che venivano imprigionati in quartieri separati, malgrado le brutali condizioni di sopravvivenza, confidavano di potere essere salvati dall’uccisione. L’utilizzo per il lavoro coatto avrebbe dovuto testimoniare di questa possibilità. In realtà, come è oggi ben risaputo, le intenzioni erano tutt’altre. Se si fa eccezione per Minsk, nella Bielorussia orientale entro la fine del 1941 i “quartieri ebraici” – a volte separati dal resto dell’area urbana da una cinta muraria o dal filo spinato, in altri casi semplicemente identificati come tali topograficamente – erano comunque già stati totalmente distrutti. Così, per quella data erano stati trucidati 25mila ebrei a Babrujsk, 20mila a Mogilev ed altrettanti a Vitebsk, 18mila a Slutsk, 18mila a Mozyr, oltre 6mila a Gomel e così via. Le uccisioni, ultimate in un anno, si susseguirono incessantemente nel corso dei mesi attraverso rastrellamenti, retate, esecuzioni individuali e di gruppo. A Minsk, dopo un viaggio di ispezione di Heinrich Himmler, fu inoltre introdotta la prassi di uccidere le vittime con la gassazione e l’asfissia. Furono utilizzati a tale fine apposti veicoli, nei cui cassoni venivano convogliati i gas di scarico.

La disintegrazione e l’annientamento di ciò che restava dell’ebraismo bielorusso a questo punto si inscriveva nel più generale disegno di deportazione (e sterminio) degli ebrei dell’Europa centrale. Di fatto, per procedere all’assassinio dei correligionari provenienti da ovest, era necessario fare sì che la popolazione ebraica autoctona fosse annientata. In tale modo, si liberavano “spazi” di temporaneo contenimento delle nuove vittime. Ad esempio, già nei primi giorni di novembre del 1941 i nazisti isolarono 12mila ebrei bielorussi imprigionati nel ghetto di Minsk. L’obiettivo era di eliminarli per permettere a 25mila correligionari provenienti dalla Germania, dall’Austria e dal «Protettorato» di Boemia e Moravia (l’ex Repubblica ceca) di esservi temporaneamente installati.  La mattina del 7 novembre 1941 il primo gruppo di prigionieri fu radunato, ordinato in colonne, costretto infine a marciare cantando. Una volta giunte oltre l’area urbana di Minsk, 6.624 persone furono caricate su camion e portate nel vicino villaggio di Tuchinka, dove vennero immediatamente fucilate. Il gruppo successivo, di oltre 5mila vittime, le seguì il 20 novembre 1941, subendo il medesimo trattamento. Con la seconda metà del 1942 i nazisti avviarono la distruzione anche dei ghetti che erano rimasti in vita nella Bielorussia occidentale. Così a Brest (30mila assassinati, in ottobre), a Pińsk (15mila vittime), a Lida (16mila), a Baranovichi (15mila), a Slonim (22mila), a Volkovysk (10mila), a Novogrudok (10mila) e così via.

Nel giugno del 1943, mentre le sorti della guerra ad oriente volgevano già contro i tedeschi, Berlino ordinò la liquidazione definitiva e totale di ciò che restava dei ghetti bielorussi. A Bialystok furono ancora assassinati 30mila persone mentre l’ultima grande azione avvenne contro Minsk, con l’uccisione di 4mila ebrei. Nell’autunno le autorità di occupazione nazista dichiararono il paese libero dalla presenza di ebrei, fatto in sé per nulla veritiero posto il rilevante numero di quanti, nel frattempo, si erano impegnati nella lotta partigiana.

Se in Ucraina la resistenza ebraica fu molto limitata, in Bielorussia invece essa ebbe infatti modo di svilupparsi in misura corposa. Il perché di questa differenza di impatto dell’occupazione, e soprattutto delle reazioni che ad essa seguirono, può essere attribuito a più fattori. Sommariamente si possono richiamare alcuni elementi di quadro. Il primo di essi è che la presenza di bielorussi che si posero al servizio dell’occupante fu sostanzialmente molto contenuta (il numero di Giusti tra le nazioni riconosciuto dallo Yad Vashem è di poco meno di 700 elementi), di contro al collaborazionismo dei volontari nazionalisti lituani, lettoni e ucraini, i quali, inquadrati nelle Schutzmannschaften, le «squadre di protezione», furono invece parte attiva nell’omicidio di massa. Un secondo elemento è la scelta operata dalle autorità naziste di sezionare amministrativamente la Bielorussia, di contro al mantenimento di una sostanziale integrità e continuità territoriale come invece avvenne in altri paesi occupati. Un terzo aspetto, a fronte della passività del resto della popolazione, fu la reazione attiva di alcune élite ebraiche, maggiormente politicizzate, che si organizzarono soprattutto all’interno dei ghetti. Anche per questa ragione si susseguirono diverse sollevazioni (ad esempio a Nesvizh, il 20 luglio 1942; a Kletsk, due giorni dopo; a Derechin, il 24 luglio; a Lachva il 3 settembre; fino alla rivolta di Bialystok, il 16 agosto 1943 o a quella di Glubokoye il 19 agosto), tuttavia destinate ad un’inesorabile sconfitta, con l’assassinio dei combattenti.

La medesima reazione si ebbe in molti centri minori. A Minsk il movimento ebraico antinazista guidato da Michail Gebelev, con una ventina di gruppi attivi per circa 300 elementi, riuscì a garantire la fuga di circa 10mila correligionari, molti dei quali si adoperarono per entrare nelle brigate partigiane che operavano nelle foreste e nelle aree paludose. Il coordinamento delle unità combattenti fu spesso condiviso da soldati dell’Armata rossa e da comandanti ebrei. Anche da ciò derivò un’ulteriore peculiarità bielorussa, ovvero la grande diffusione del movimento partigiano (370mila elementi censiti, di cui il 10% ebrei), che poteva operare in un terreno – quello delle gigantesche aree boschive – laddove i reparti tedeschi si arrischiavano raramente, se non durante i grandi rastrellamenti. A tale riguardo il Generalkommissar della Bielorussia Wilhelm Kube, in una relazione dell’estate del 1942 registrava come «abbiamo notato che la comunità ebraica […] è la principale ispiratrice del movimento partigiano». Un anno dopo tale dichiarazione, lo stesso Kube veniva eliminato dai partigiani bielorussi. Un fattore che facilitò questa ibridazione fu il fatto che la resistenza mantenne un carattere “sovietico”, ossia non strettamente nazionalista, come invece avvenne in Ucraina, in Polonia e in altri territori.

Rimane tuttavia il fatto che per chi fuggiva dai ghetti l’ingresso nelle formazioni partigiane non fosse per nulla automatico. Il timore che vi potessero essere infiltrati da parte dei nazisti, il fatto che a volte ci si trovasse di fronte ad interi gruppi familiari (costituiti – quindi – anche da molti individui impossibilitati non solo a combattere ma anche a mantenere gli spossanti ritmi di vita dei partigiani), le infinite difficoltà tattiche delle unità combattenti, l’impossibilità di fornire armi e cibo a tutti come – non di meno – la necessità di mantenere i ranghi serrati, concorsero ad ostacolare l’assorbimento dei fuggitivi dai ghetti. Peraltro i dirigenti dei grandi gruppi partigiani bielorussi, e con essi il Cremlino, osservavano con grande disappunto la formazioni di unità combattenti ebraiche, adoperandosi quindi per scioglierle. Nella speranza, che con il passare del tempo si tradusse in consapevolezza, che la Bielorussia sarebbe tornata a fare parte dell’Unione Sovietica, non si intendeva permettere all’ebraismo autoctono la maturazione di rivendicazioni politiche a venire. Nella galassia dei combattenti per la libertà un peso importante fu quindi svolto dai distaccamenti e dalle «bande» partigiane ebraiche formate su base autonoma. Furono quest’ultime, infatti, composte da almeno 5mila elementi combattenti, ad adoperarsi per accogliere chi scappava dai ghetti, prescindendo da qualsiasi altra considerazione che non fosse il salvataggio dei fuggitivi.

Dopo la fine della guerra, a partire dal 1945, la ricostruzione della vita ebraica nella Bielorussia sovietica fu pressoché impossibile. Da un lato un’intera comunità nazionale era stata disintegrata. Con essa, abitudini, tradizioni, costumi e culture erano rimaste distrutte dal rullo compressore nazista. Dall’altro, l’antisionismo sovietico – dal 1949 – pesò enormemente su quanti erano sopravvissuti, dinanzi all’accusa di «nazionalismo borghese» e «cosmopolitismo» (quest’ultimo inteso come negazione dell’«internazionalismo» proletario e della fedeltà al centro moscovita). Se molte delle restrizioni si attenuarono negli anni di Gorbaciov, con l’indipendenza nazionale bielorussa, celebrata sulle ceneri della vecchia Unione Sovietica, l’ascesa e il consolidamento al potere di Aljaksandr Ryhoravič Lukašėnka, autocrate legato a doppio filo a Putin e al Cremlino, ha permesso che quegli elementi di antisemitismo già presenti tra la popolazione conoscessero una recrudescenza. Anche per questo dei 157mila ebrei ancora registrati dal censimento del 1979, attualmente vivono in Bielorussia non più di 9.500 persone, ultimi eredi dell’antico insediamento.

 

 

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


1 Commento:

  1. “territorio polacco che comprendeva la Bielorussia occidentale” So che questa dizione è comune, ma voglio far presente che la Polonia nata a Versailles, inclusi nella determinazione i suoi plenipotenziari, non comprendeva affatto alcun territorio se non polacco, la linea Curzon ne rappresentava il confine orientale e questi territori acquisiti con le armi erano oltre il confine ufficiale a cui tutte le nazioni si riferivano, tanto è vero che Hitler occupò esclusivamente il territorio polacco, mentre i sovietici, dopo la conclusione dei combattimenti il 17 settembre ’39 si ripresero i loro territori. I territori della Bielorussia e dell’Ucraina occidentale vennero conquistati con le armi dalle legioni polacche del maresciallo Pilsudski nel 1920 e subito persi per opera del generale Budennyj e successivamente ripresi dai polacchi dopo la disfatta dei russi a Varsavia 15 08 20.


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